L’Europa fra Trump e Merkel – Intervista a Raffaele Sciortino
Le dinamiche dei rapporti transatlantici sono fondamentali per tracciare il futuro della Ue. Partiamo dai nuovi scenari: dopo la Brexit, cosa comporta l’avvento di Trump nel rapporto con l’Ue ‐ ed in particolare con la Germania?
Partiamo da quest’ultima. È ancora presto per individuare la direzione precisa che la dinamica Usa‐Germania prenderà, se si aprirà cioè un vero e proprio corso di collisione e dove porterà, ma per intanto è importante che il rapporto si stia mostrando apertamente per quello che è: sempre meno un rapporto, per quanto asimmetrico, tra alleati e sempre più una relazione a rischio di esplosione tra portatori di interessi divergenti, immediati e strategici. Trump sta facendo saltare il tavolo dell’ipocrita “unità dell’Occidente” che nella sua lettura nazional‐populista è diventata troppo costosa se non insostenibile per gli Usa, sul piano militare ed economico, e troppo conveniente per i partner, in primo luogo per la Germania. Il perché di questa svolta “imprevista” (per i più) abbiamo cercato di sondarlo nei mesi scorsi analizzando le ragioni profonde del fenomeno Trump1: gli States sono decisamente in difficoltà sia sul piano geopolitico che su quello economico e sociale interno nonostante la decantata “ripresa” obamiana (ma l’hanno vista solo i circuiti finanziari e poco altro). La risposta del neopresidente, che trova riscontri in una parte dell’establishment e fa leva sui leftbehind della globalizzazione, non può che comportare un profondo rimescolamento di carte nelle relazioni economiche e geopolitiche internazionali.
Ricordando i trascorsi più recenti (affare Snowden che rivela il sistematico spionaggio nei confronti dell’alleato tedesco a tutti i livelli ‐ compresa l’intercettazione del telefonino personale di Merkel; regime change filo‐Usa in Ucraina con conseguenti sanzioni alla Russia imposte alla Ue; screzi sul raddoppio dell’oleodotto russo‐tedesco North Stream che bypassa Ucraina e Polonia; dieselgate con multa miliardaria, chiaramente politica, alla Volkswagen; ondata di profughi siriani in gran parte pilotata da Usa e Turchia ‐ allora ancora in sintonia ‐ atta a indebolire il compatto consenso per Merkel; forti dissensi sul Ttip ‐ tanto che per molti politici tedeschi sarebbe oramai fallito; malumori tedeschi sull’atteggiamento provocatorio della Nato verso Mosca nei paesi est‐europei; scontro sui favori fiscali a Apple, Google, ecc.) la politica aggressiva di Washington verso Berlino e la Ue rappresenta tutt’altro che una novità…
Non è una novità, è verissimo. Già con Obama2 si sono avute non solo le continue, puntuali frizioni tra Washington e Berlino (e la Ue tutta) già richiamate nella domanda‐ ma la stessa eurocrisi di qualche anno fa, con l’attacco combinato ai debiti sovrani europei e alla moneta comune, non è stato altro ‐ a ben vedere ‐ che un tentativo, solo parzialmente riuscito, di scaricare proprio sugli “alleati” il grosso della crisi globale scoppiata nel 2007‐8. È però vero che oggi ci troviamo di fronte se non a un salto, a un secco passaggio in avanti su questa linea di scontro (oltreché con Cina, Brics e America Latina, ovviamente) per i motivi cui accennavo. Ora, Trump viene continuamente messo in seria difficoltà dal fronte liberal. Che non solo è supportato dal cosiddetto Stato profondo e dai media mainstream, ma è anche in grado di mobilitare e/o utilizzare le piazze del blocco sociale clintoniano‐obamiano, che percepisce nell’eventuale rinculo della globalizzazione il rischio del proprio declino; di queste contraddizioni e strumentalizzazioni mi pare, per quel che si può capire da qui, che gli attivisti radical non siano affatto avvertiti ‐ ma speriamo che da lì parta prima o poi qualche riflessione critica su una situazione peraltro obiettivamente contorta. Non è detto dunque che la presidenza Trump regga. In effetti, mi pare che al momento in politica estera la sua prospettiva ristagni sotto spinte contrapposte (particolarmente evidenti nei confronti di Mosca). Ma, comunque sia, sul fronte in57 terno Trump deve assolutamente procedere nel tentativo di riportare in Usa un parte di produzione manifatturiera. E dunque attaccare i surplus commerciali tedesco e cinese. Non solo per consolidare il rapporto con la middle class, ma ‐ e questo è in prospettiva altrettanto, se non più, importante ‐ anche per prepararsi a nuovi, possibili crack finanziari innescati dalla nuova bolla speculativa gonfiatasi in questi anni a seguito della politica monetaria della Federal Reserve. E questo, ripeto, non può che acuire tutti i rapporti internazionali attraverso un nazionalismo economico (altro che “isolazionismo”) anche verso l’Europa. Contro quello che è additato oramai apertamente come un blocco regionale concorrente o, più precisamente, un potenziale blocco regionale che si tratta di destrutturare, dall’esterno e dall’interno (chè Stati europei che già fanno o potrebbero fare sponda a questo gioco non è che manchino) anche mandando a picco l’euro.
Come sta rispondendo la Germania (anche in vista delle difficoltà di Merkel, sponda populista di Afd, elezioni ecc.)?
La vittoria elettorale di Trump è stata uno choc, come dappertutto. È vero che è da un po’ che, pur in maniera non eclatante, nell’establishment tedesco si ragiona di un corso politico internazionale più autonomo4. Ma ciò non toglie che finora ‐ pur sottraendosi spesso alle pressioni statunitensi, come su Libia e Siria, Ucraina, gasdotti con la Russia, rapporti economici con la Cina ‐ un vero shift strategico era impensabile per la classe dirigente tedesca, e anche lontano dal sentire del grosso della popolazione. Da oggi, in prospettiva, le cose potrebbero cambiare. Per l’élite si tratterebbe di indirizzare il crescente disagio della società tedesca ‐ la fine dell’illusione di essere immuni dalla crisi globale5 ‐ verso una presa di distanza dal padrino americano, però in nome della difesa dei “valori liberali occidentali” e della globalizzazione come si è data finora. Una neonata politica imperialista tedesca, anche militare; combinata con la conservazione degli assetti politici esistenti che allontani il rischio di un’ascesa dei “populisti” (v. Afd) e, soprattutto, soffochi sul nascere gli embrionali umori trasversa li, insieme, anti‐americani e anti‐globalizzazione. Il “piccolo” problema per la borghesia tedesca però è che per non essere ricacciata in un angolo in un quadro internazionale che va rapidamente cambiando sarà difficile attenersi al corso fin qui seguito, un corso di stop and go sia rispetto alle questioni geopolitiche (in primis i rapporti con Mosca) sia rispetto al futuro dell’Europa nel mentre si è potuto conservare un relativo compromesso sociale all’interno grazie alla performance economica. Ma il commercio mondiale va restringendosi e gli Usa minacciano seriamente protezionismo; mentre il caos geopolitico si fa sentire fin dentro i confini europei con la questione immigrazione e profughi. Le scelte incombono e, tanto più dopo la Brexit, non saranno indolori né all’interno né all’esterno, andando anche a riconfigurare la costruzione europea.
Appunto la Ue. Germania e Ue, chi usa chi nella crisi globale? Tu hai, non da ora, un punto di vista peculiare…
Facciamo un passo indietro per chiarire alcuni presupposti importanti. Senza andare fino alla nascita del mercato comune nel quadro della Guerra Fredda e alla prima embrionale autonomizzazione del sistema monetario europeo dopo il crollo del regime di Bretton Woods a inizio anni Settanta, partiamo dal varo dell’euro. La moneta unica europea non è frutto di un errore o di una macchinazione tedesca, piuttosto si è trattato di uno strumento per rispondere alla competizione su di un mercato in via di globalizzazione, dal quale hanno tratto vantaggio tutti i settori delle borghesie e dei ceti proprietari europei, in diverso grado e con risultati differenti. Non è dunque esclusivo strumento dell’egemonia economica di Berlino sull’Europa, certo, è anche questo ma non solo: il rapporto Germania/Ue ha funzionato nei due sensi, che è quanto i no‐euro proprio non vedono. Al tempo stesso, sia il gioco spesso paralizzante degli equilibri reciproci (in particolare il potere di veto britannico, in questo vero cane da guardia degli Usa) sia un allargamento eccessivo voluto per ragioni di controllo politico e geopolitico da Washington sia il nanismo politico tedesco hanno nei fatti allontanato più che avvicinato la costituzione di un vero polo imperialista europeo. Ora, con lo scoppio della crisi globale, a tutt’oggi irrisolta, i nodi sono venuti al pettine. La crisi non nasce in Europa né dall’euro e però ne mette a nudo tutte le fragilità. Il primo assalto della finanza internazionale (sarebbe meglio dire: a stelle e strisce) ai debiti sovrani europei e all’euro è stato rintuzzato ma con costi pesanti per il futuro dell’Europa: sia sul piano economico con i programmi di austerity e la quasi frammentazione dei circuiti finanziari e bancari continentali surrogati dall’azione della Bce; sia su quello politico con la divaricazione crescente, un po’ su tutte le questioni, tra “nucleo duro” nordico, paesi mediterranei e fianco orientale. C’è da dire che anche il grosso delle rispettive popolazioni si sono, più o meno passivamente, adagiate sulle sponde nazionali ‐ nessun segno minimo di solidarietà c’è stato verso la popolazione greca trattata come tutti sanno ‐ combinando verso l’Europa la preferenza strumentale per la moneta unica (financo in Grecia) rispetto al ritorno a monete nazionali prevedibilmente più deboli con una crescente disillusione e diffidenza. Insomma, nessun potere costituente in giro, né in alto né in basso, ciò di cui gli “europeisti movimentisti” non tengono sufficiente conto.
Che ruolo hanno giocato, in questo contesto, le politiche monetarie della BCE?
Con Draghi la Bce si è completamente allineata sulla politica monetaria espansiva della Federal Reserve statunitense. Questo è un punto, anche politico, delicato visto il favore con cui queste azioni vengono considerate anche a sinistra (che è arrivata a sposare la proposta del QE for the people che si pone, è bene dirlo, sulla medesima direttrice della Bce solo volendo allargarlo al “popolo”). Si può discutere quanto ciò sia fin qui servito a non far precipitare la crisi delle banche europee e dei debiti sovrani degli stati più indebitati; comunque è certo che non c’è stata alcuna ricaduta positiva, né può essercene sui ceti medio‐bassi. Ma occorre notare che ‐ anche dal punto di vista del rafforzamento di un capitalismo europeo ‐ il rapporto costi/benefici è tutt’altro che positivo. Se l’austerity negli ultimi tre anni è stata messa in standby, l’immissione di liquidità in euro ha nei fatti non solo congelato ogni ristrutturazione dei debiti sovrani (senza per questo rilanciare l’economia) ma ha creato una potenziale bolla speculativa, sulla quale al prossimo assalto potrà scorrazzare la speculazione anglo‐sassone ‐ che è quanto l’austerity di marca teutonica, in un’ottica neomercantilista, puntava ad evitare. La situazione critica di una parte delle banche europee, così come gli enormi deficit (in particolare italiani e spagnoli) verso la Germania accumulatisi nel sistema inter‐europeo Target 2 parlano di squilibri sempre più ampi all’interno della Ue. Insomma, mentre ci si approssima alla fine delle politiche monetarie espansive in Occidente, con la Federal Reserve che ha iniziato ad alzare i tassi e il QE europeo che non potrà continuare, l’Europa si ritrova con i medesimi problemi di prima ‐ addirittura ampliati ‐ e sicuramente meno coesa. In tutto questo c’è poi un nodo fondamentale che sia gli “europeisti a prescindere” della sinistra sia i “no‐euro” saltano bellamente. Guardando al solo perimetro ristretto europeo e al ruolo‐guida in esso della Germania ‐ovvero senza provincializzare l’eurocrisi6 ‐ si perde di vista l’elemento fondamentale che è, appunto, il ruolo degli Stati Uniti (e del dollaro). Gioca qui una speculare miopia, del resto convergente. Da un lato, il viva Draghi abbasso Merkel in nome del keynesismo (finanziario) di Obama non solo mistifica i “successi” della politica economica d’oltreoceano (non si capisce da dove sarebbe spuntata fuori la vittoria di Trump) ma porta acqua al mulino della ricetta americana fin qui incentrata sulla “crescita” da indebitamento, ovvero pagare debito con altro debito (degli altri): si sproloquia di Keynes e ci si ritrova… Soros. Dall’altro, la prospettiva di fuoriuscita dall’euro da “sinistra anti‐tedesca” neanche si avvede che nelle attuali condizioni è proprio l’amministrazione Trump a voler far fuori l’euro spaccando l’Europa: si sogna, anche qui, di un rinnovato deficit spending sponsorizzato da una rediviva “nostra” banca centrale e si rischia di avere… lirette ipersvalutate e dollarizzate e salari ultradecurtati. Il punto, qui, non è affatto l’influenza attuale di queste posizioni quanto piuttosto la ricaduta politica negativa nel dibattito e in quel poco di iniziativa politica che è oggi possibile mettere in campo: ci si muove sempre su false alternative imposte dal campo capitalistico che impediscono anche solo di impostare un “nostro” discorso autonomo, per quanto difficile questo oggi possa essere. Sia chiaro, questa non vuole essere una critica ideologica o purista: ben altra cosa è investigare le ragioni materiali profonde, e a rapida mutazione, che spingono pezzi della società a posizionarsi in un senso o nell’altro sul campo dato (dal nemico di classe), individuare quale trend prevalga a date condizioni e, insieme, lavorare su contraddizioni e ambivalenze di queste dinamiche che ne rovescino o almeno interdicano il loro segno di classe. Su questo, del resto, mi pare evidente che il trend prevalente oggi sia quello che in prospettiva spinge, pur tra mille oscillazioni, per una divaricazione e frantumazione del quadro europeo, dall’interno e dall’esterno. Ma, oltre al piccolo “particolare” che nelle condizioni date questo non sarà certo deciso “dal basso”, la domanda è allora: che fare se e quando si darà per non correre al rimorchio delle soluzioni borghesi?
Veniamo all’oggi e al domani immediato. Stanti così le cose, quali prospettive per l’Europa…?
Per dirla con una battuta, la UE ha forse iniziato la lotta contro la implosione puntando a una … disgregazione lenta e controllata. Per Berlino, che ovviamente cerca di tirare le fila (per quel che può) del gioco, la situazione è altamente contraddittoria. Perché da un lato ha bisogno di una certa tenuta del quadro europeo, non solo nel circolo più ristretto, ma sull’intero continente, pena un indebolimento e una completa estromissione anche dal resto del mondo. Dall’altro, deve per questo chiaramente “stringere” sugli altri paesi, nei due sensi: sulle politiche da portare avanti, e con chi farlo. La proposta (che Merkel ha chiesto di formalizzare al prossimo vertice europeo, dunque un passaggio non da poco) dell’Europa a due velocità è, per quanto ancora assai vaga, immediatamente rivolta contro i paesi est‐europei ‐ rei di “approfittare” delle politiche europee e della libera circolazione interna senza
“ricambiare” (v. profughi), avendo inoltre fatto da sponda alla politica anti‐russa di Washington. Ma chiaramente è molto più di un monito anche contro i paesi del fronte meridionale: in particolare l’Italia, incapace fin qui di qualunque seria ristrutturazione (cosa verissima, la parabola di quel pallone gonfiato di Renzi lo esemplifica più di ogni trascorso berlusconismo). Vale a dire, il “piano B” di uno sganciamento del nucleo forte europeo dal resto e dunque della fine della moneta unica non è affatto archiviato per Berlino. Comunque sia, il problema per la Germania e la sua residua prospettiva europeista è che a breve dovrà rintuzzare l’aggressività americana e le sponde che questa troverà qui in Europa (Italia di un redivivo tandem Renzi‐Berlusca?) mentre solo sul medio‐lungo periodo potrebbe farsi forte di una più profonda integrazione con la Cina, a sua volta necessitata ad autonomizzarsi dal vincolo che l’ha fin qui tenuta stretta e subordinata agli Usa. All’immediato, molto probabilmente, il governo Merkel cercherà di evitare lo scontro diretto magari accettando una rivalutazione dell’euro e facendo concessioni di facciata sulla questione del surplus commerciale. Attenzione, e qui finisco, a non scambiare queste eventuali misure per un cambio di passo sostanziale nelle politiche economiche della Ue, eventualmente consolidato da una vittoria elettorale socialdemocratica alle prossime elezioni tedesche che aprirebbe, vuoi con una Grosse Koalition più curvata a sinistra vuoi addirittura con un governo rosso‐rosso‐verde, a un rilancio europeista in chiave “post‐austerity”. A parte le facili considerazioni che chiunque può trarre dall’operato anche solo di questi ultimi anni della socialdemocrazia tedesca su tutti i piani ‐ del resto lo stesso candidato socialdemocratico Schulz parla di Europa non a due ma a più velocità ‐ non sono solo le ragioni che dicevo a far escludere quella prospettiva. Ma, più nel profondo, è il fatto che la Germania non può, né a breve né a medio termine, sostituire gli States nella funzione di riciclo dei surplus commerciali e della rendita globali attraverso la moneta mondiale, l’indebitamento e l’apertura del proprio mercato interno. E questo per ragioni, ripeto, profonde che rimandano alla divisione internazionale del lavoro, al comando globale via moneta, alla geopolitica, alla stessa storia (l’apparato produttivo tedesco è sempre stato esorbitante rispetto al mercato interno). Non solo: neppure gli Usa sono più in grado ‐ questo è quanto segnala il passaggio Trump, dovesse anche venir buttato giù la cosa non cambia ‐ di svolgere pienamente quella funzione a beneficio di se stessi, innanzitutto, e insieme dell’intero sistema. Il gioco globale si fa sempre più a somma zero, tutto un lungo ciclo capitalistico e forse una civiltà stanno approssimandosi alla fine, e i giochi si fanno duri. Forse faremmo bene a provare a posizionarci a questi livelli ‐per quanto difficili da agire politicamente all’immediato‐ piuttosto che perderci fuori tempo massimo dietro improbabili riedizioni di un capitalismo europeo ben regolato di marca socialdemocratica.
Note:
1 http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima‐pagina/item/17944‐trump‐trumpster‐ealtro‐
con‐una‐pos��lla‐poli��ca‐sul‐populismo
2 h��p://www.infoaut.org/index.php/blog/confli��‐globali/item/17713‐colpisci‐e‐me��‐inriga‐
deutsche‐bank‐e‐dintorni
3 http://vocidallestero.it/2017/02/28/ted‐malloch‐il‐punto‐di‐vista‐americanosullintegrazione‐
europea/
4 v. sito http://www.german‐foreign‐policy.com/de/news/
5 http://www.infoaut.org/index.php/blog/global‐crisis/item/17555‐la‐lunga‐estate‐delloscontento
6 http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima‐pagina/item/5325‐provincializzare‐l%C3%
A2%EF%BF%BD%E2%84%A2eurocrisi
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