Crisi globale, fase II: Obama e la Cina
Nuovo pacchetto…
Obama in questa situazione non ha comunque avuto vita facile nel far passare al Congresso il suo pacchetto di stimoli all’economia, ingente in termini assoluti (quasi 800 miliardi $) ma da molti, come il liberal Krugman, ritenuto ancora insufficiente per un efficace rilancio. Repubblicani e democratici moderati hanno ottenuto una bella sforbiciata ai fondi di spesa a carattere più sociale (come l’istruzione per i meno abbienti) -che hanno già fatto gridare al pericolo di una “democrazia socialista”(!)- a favore dei famigerati tax cuts (tagli fiscali soprattutto per ricchi e ceto medio). Nonostante la profondità della crisi l’establishment non vuole sentire parlare di erogazione di titoli sociali che potrebbero diventare diritti permanenti: sa troppo di welfare! Obama ha abbozzato una reazione contro le “maldestre critiche del piano basate sulle teorie che ci hanno condotto alla crisi” e le “malsane abitudini di Washington” coi suoi ostruzionismi -così sul Washington Post del 5 febbraio. E ha intrapreso un tour per i luoghi più colpiti dalla recessione per (moderatamente) evocare una contropressione “dal basso” che però inizia a chiedere di “aiutare la gente e non le banche” (La rabbia dei disoccupati contro Obama). Una reazione comunque timida e troppo “post-partisan” la sua se il Newsweek suona il campanello d’allarme: il presidente rischierebbe di perdere il controllo della situazione lasciando agli avversari l’iniziativa (Losing Control di Michael Hirsch). Le mezze misure scontentano tutti, ma senza conflitto forte niente nuova agenda!
…stesso bailout
Il quadro del sistema bancario statunitense è nero: Roubini, profeta di sventura finora non smentito dai fatti, prevede 1,8 trilioni $ di perdite (su 3,6 a scala globale) in crediti inesigibili per i prossimi 12-18 mesi a fronte di un capitale disponibile di soli 1,5 trilioni (ma Goldman Sachs fa stime ancora più pesanti: articolo dell’Economist).
Il problema, oramai è chiaro agli stessi “esperti”, non è più da tempo di liquidità scarsa in relazione a specifici tipi di assets ma di vera e propria insolvenza su un amplissimo spettro di attività di investimento (Citigroup ha subito un secondo bailout a fine novembre, Bank of America, la maggiore degli Usa, sembra pronta a ricevere nuovi aiuti dal governo: insieme valgono oramai meno di 50 miliardi). La domanda che inizia a farsi strada è: quanto è solido l’insieme del sistema finanziario Usa? Comunque sia Washington non può far altro che provare a metterci di suo per permettere il deleveraging, la pulizia degli assets in default delle istituzioni finanziarie.
La cornice decisiva in cui inserire l’intervento di politica fiscale approvato è dunque quella del piano governativo di salvataggio complessivo del sistema. Rinvii ripetuti e vaghezza negli annunci la dicono lunga sulla difficoltà dell’impresa e sui contrasti interni allo stesso team obamiano. La base democratica e in particolare il partito di Obama, anche captando l’insofferenza ancora confusa ma in movimento nella società, vorrebbero destinare gli ulteriori aiuti ai proprietari di casa insolventi e agli enti pubblici locali e criticano lo “shopping bancario” praticato dalle banche coi fondi del Tarp. La Fed di Bernanke non vuole sentir ragione e richiede nuove massicce iniezioni di capitali da parte del governo nel sistema bancario e la garanzia federale se non l’acquisto degli “assets tossici” (La Fed avverte Obama). Wall Street ovviamente ci aggiunge di suo l’assoluta opposizione a ogni genere di controllo.
E’ questo un partito molto ben rappresentato anche alla Casa Bianca, da Larry Summers a Geithner. Annunciato ma solo nelle sue linee generali il dieci febbraio, il nuovo piano non fa che riprendere l’idea di bad bank -senza chiamarla però in questo modo- a capitale misto pubblico e privato che acquisterebbe i crediti inesigibili delle istituzioni finanziarie per un ammontare dai 500 fino a 1000 miliardi $ per incoraggiare la ripresa del credito delle banche “buone” anche con nuove iniezioni di capitale. Si aggiungerebbero poi un programma di rifinanziamento dei prestiti al consumo da parte di Fed e Tesoro per altri 1000 miliardi (una nuova bolla dei consumi?!) e aiuti ai proprietari insolventi per 50 miliardi. Nonostante i contrasti tra i consiglieri presidenziali non sono messe in cantiere restrizioni effettive sulle attività di prestito delle banche beneficiarie di questa prevista ripulitura dei bilanci a spese del pubblico (articolo del New York Times). Come si vede, siamo abbastanza distanti dalle proposte di liberals come Robert Reich (già ministro del lavoro nella prima amministrazione Clinton) che vorrebbe gli aiuti statali vincolati alla ripresa del credito bancario a famiglie e aziende o Krugman favorevole a che lo stato abbia più voce in capitolo negli istituti salvati o lo stesso Roubini che propone contestualmente di ridurre il debito dei mutuatari altrimenti insolventi. Come volevasi dimostrare: il partito di Wall Street è tutt’altro che sconfitto e rinunciatario.
Il problema di fondo è però ancora un altro, e più grave. Come fa notare Martin Wolf sul Financial Times (leggi l’articolo) le misure annunciate, in pratica una riedizione del Tarp già fallito, avrebbero senso se si trattasse di una “semplice” crisi di liquidità mentre il drammatico problema attuale è l’insolvenza, il fallimento di fatto di buona parte delle istituzioni finanziarie i cui assets (dai due ai tre trilioni) valgono meno dei debiti contratti. Niall Ferguson -già fautore del farsi impero degli States e poi passato al partito di Chimerica– è ancora più drastico: la bad bank c’è già ed è la Federal Reserve che però non è certo in grado di ovviare all’esplosione dell’indebitamento mondiale con ulteriori debiti ancorché pubblici.
E’ chiaro allora perché Wall Street non vuole vendere gli “assets tossici” a prezzi di mercato oramai prossimi allo zero: defalcati dai bilanci farebbero crollare il valore in azioni delle banche decretando l’immediata chiusura di gran parte di esse. Non solo: ci sarebbe anche una ricaduta sui detentori di titoli diversi dalle banche che, si sa, si erano specializzate proprio nello scaricare i rischi. Decretare la svalorizzazione di una parte cospicua dei titoli -ciò che davvero sarebbe necessario in astratto- è in concreto reso ancora più difficile proprio dal fatto che a perderci non sarebbero solo i banchieri, ma tutti coloro che hanno legato alla finanza l’integrazione del proprio reddito, in termini di ricchezza aggiuntiva e, soprattutto, in termini di sussistenza (dall’ipoteca sulla casa al fondo pensione, ecc.). Sul piano teorico questa sovrapposizione finanza/“economia reale” è la vera “novità” storica da indagare. Sul piano pratico rende tutti i problemi di ardua risoluzione. Al tempo stesso salvare gli azionisti con prezzi artificialmente alti vorrebbe dire da parte statale buttare via un mare di soldi solo per coprire le perdite su investimenti falliti senza rilanciare, posto che sia possibile, l’”economia reale” (Usa, finanziare le banche non gli azionisti). La bolla questa volta è scoppiata al centro e indietro non si torna!
Understanding the crisis?
C’è quindi già timore, tra le teste d’uovo statunitensi, che Obama non ce la faccia, non sappia mettere in campo “concentrazione e ferocia”-di nuovo Martin Wolf- a sufficienza. Del resto dall’autunno in qua la speranza che grazie al presunto decoupling la crescita asiatica continuasse a ritmi sostenuti tirando fuori dai guai gli States evitando scelte troppo drastiche è svanita. Inoltre la recessione non solo si è insinuata profondamente in Europa, a ovest come a est, e in Russia ma il rischio fallimento sta passando dai sistemi finanziari agli stati che stanno dietro di essi (articolo su The Economist). Inutile qui snocciolare dati a caterva e incerte previsioni, basti dire che secondo il Fondo Monetario si tratta per i paesi avanzati della recessione più profonda dal secondo conflitto mondiale (Imf update) mentre anche il flusso di capitali verso i cosiddetti paesi emergenti sta nettamente contraendosi con l’Europa orientale particolarmente a rischio (Iif release).
In effetti, tra le macerie della triste “scienza” dell’economics (anglosassone e anglofila), c’è qualcuno che ha iniziato a dire le cose come stanno pur non andando oltre il rilievo finanziario. Roubini: al di là della causa occasionale dei subprimes è l’eccesso di credito a scala globale che ha creato una bolla dietro l’altra spingendo ora verso una deflazione da debito (articolo di Foreign Policy). Ferguson: il mondo occidentale soffre una crisi da eccessivo indebitamento e va incontro all’esplosione del debito pubblico (articolo Los Angeles Times). Johnson del Peterson Institute (in una testimonianza davanti al Senato): la causa di fondo va rinvenuta nel boom globale finanziato dal debito che ora mette a nudo anche la vulnerabilità delle obbligazioni statali (The Global Economy: Outlook, Risks, and the Implications for Policy). E c’è anche chi da Harvard fa paragoni con l’economia sovietica artificialmente sovraccarica (articolo New York Times). Quasi che tra le categorie economiche facesse capolino il marxiano capitale fittizio (nesso fondamentale dell’attuale riproduzione capitalistica complessiva a patto di non intenderlo banalmente come speculativo contrapposto a “reale”: ma di questo a un’altra puntata).
Negli ultimi mesi Washington ha inondato i mercati con oltre due trilioni $ -la Fed sta stampando denaro come un matto, scriveva a dicembre il Wall Street Journal- senza che ciò abbia potuto risollevare una domanda tenuta giù dall’indebitamento generale. Inoltre ha abbassato i tassi di interesse quasi a zero cacciandosi così in una classica trappola di liquidità. All’orizzonte poi, e questo sarà un fattore tra i decisivi, i contorni del nuovo “dilemma americano” si stagliano sempre più netti: chi continuerà ad acquistare dollari deprezzati -già ora più di dieci trilioni in bonds del Tesoro- in un mondo in crisi e a corto di denaro buono? E chi finanzierà il pacchetto, o i prossimi pacchetti, di Obama? E, comunque, a quali condizioni?
Shock therapy: ma su chi?
Se le cose stanno così quale la cura? Lo stimolo obamiano parte male e monco e comunque la parte in deficit spending non potrà avere ricadute significative prima di un anno senza contare che molto probabilmente i soldi serviranno a ripagare i debiti piuttosto che a riattivare i consumi. L’indebitamento pubblico aumenta ma è al massimo in grado solo di comprare tempo per una boccata d’ossigeno. Confusamente si fa strada la sensazione che interventi più dolorosi e strutturali siano inevitabili. Del resto lo stesso Obama, prima di farsi risucchiare dalla bureaucratic politics di Washington, qua e là ha già accennato alla necessità di trasformare il modello stesso di sviluppo con cui gli Stati Uniti sono andati avanti negli ultimi decenni per evitare il crearsi di nuove bolle (preoccupazione di cui in Europa si è fatta portatrice la sola Merkel). E non è detto che, se il conflitto sociale riemerge, non sarà costretto a rilanciare la posta.
Sulla natura delle scelte i fronti in campo sono ancora vaghi, trasversali e confusamente intrecciati con le embrionali spinte sociali. Liberals post-keynesiani come Robert Reich non vanno oltre la richiesta (comunque significativa) di porre termine alla stagnazione dei salari reali del lavoratore Usa che da metà Settanta ha costretto la famiglia media dapprima al lavoro fuori casa delle donne e a orari più lunghi e poi all’indebitamento. Un riconvertito Jeffrey Sachs si spinge a toccare un tabù oramai indiscusso negli States: è necessario aumentare le tasse ai ricchi, insieme a investimenti infrastrutturali e, nella prospettiva di un keynesismo global, a un accordo cooperativo con la Cina (articolo da realclearpolitics). Sono posizioni che presuppongono un Obama protagonista relativamente autonomo dai poteri forti, cosa che però richiederebbe almeno uno scatto del movimento che lo ha portato su…
Per intanto una parte del fronte globalista già neoliberista, seriamente preoccupata per le sorti del mercato mondiale e la leadership Usa e per questo prontamente riconvertitasi all’interventismo statale, spinge per una svolta decisa. Probabilmente si fa conto sul fallimento della fase I dell’amministrazione Obama per sponsorizzare una shock therapy che si incentri sul diretto e completo controllo statale, ancorché temporaneo, del sistema bancario. Si tratterebbe, da quello che è dato capire fin qui, di lasciare alla loro sorte gli istituti “tossici” (impossibile distinguere oramai tra buoni e cattivi assets) e nel mentre istituire con capitale pubblico ex novo e una tantum banche “sane” che possano riprendere il credito agli investimenti reali. Questo intervento lascerebbe sul campo morti e feriti anche “eccellenti” tra azionisti e creditori, ritenuti comunque irrecuperabili, ma salverebbe il sistema e soprattutto eviterebbe la messa in discussione, con l’avvitamento della crisi, della leadership statunitense nel mondo (articolo Financial Times). Un once-only event finalizzato a cancellare debito invece che a crearne di nuovo (articolo Los Angeles Times) preferibile alla lenta agonia. Con l’auspicio, così facendo, di “spostare risorse fuori dal settore finanziario verso la manifattura, la tecnologia e altre attività basate sull’innovazione “reale” (cioè non finanziaria)” (articolo Peterson Institute ) a evitare l’immediato riformarsi di nuove bolle speculative. E di reimpostare su questa base il problema degli squilibri globali tra Usa e mondo, in primis con la Cina, senza rinunciare al comando della moneta mondiale tramite il dollaro.
E’ questa probabilmente la riscrittura delle regole cui si pensa in questi circoli: il multilateralismo targato Wto viene abbandonato a favore di una strategia di accordi “plurilaterali” praticati con la massa critica dei paesi emergenti, guardando particolarmente alle mosse cinesi eventualmente anche a spese della Ue. Sarebbe il corrispettivo in politica economica estera di quel “multilateralismo à la carte” teorizzato dal pensiero strategico statunitense, costretto al ripiegamento, come variante debole dell’unilateralismo nel quadro di un mondo sempre più “apolare” (articolo Foreign Affairs) da gestire, al di là della retorica, senza alcun grand bargain. Il lato debole di queste posizioni sta al momento nel taglio ancora tecnocratico: ché si tratterebbe niente affatto di operazioni “tecniche” indolori ma di una colossale redistribuzione di titoli di proprietà, come nel cambio di moneta dopo una guerra, nel mentre sarebbero inevitabili spinte e controspinte e forse anche conflitti dal basso sulle finalità delle “nazionalizzazioni di un giorno solo”. E che dire della perdita di immagine del mercato in quanto tale: sarebbe privo di conseguenze sociali e politiche? Quanto alle ripercussioni internazionali è messo in conto lo scatenamento di ricapitalizzazioni competitive che però non molti stati (vedi tra gli altri un’Italia chiaramente a corto di risorse) al momento possono permettersi con il conseguente perdersi per strada di pezzi del sistema (articolo Peterson Institute). Ma come reagirebbero gli attori internazionali più pesanti che vedrebbero svalutate le proprie riserve in dollari?
Questo nodo richiama l’opzione “nucleare”, come l’ha definita l’Economist di qualche mese fa (articolo Economist), ovvero l’eventualità della pura e semplice cancellazione del debito statunitense scaricata sull’estero. Un’opzione che sicuramente si è affacciata alla mente dei “falchi” -scaricare all’esterno per ricominciare tutto come prima- ma che al momento appare improbabile nella sua versione forte perché acuirebbe tutti i rapporti internazionali da una posizione di relativa debolezza Usa e costringerebbe Pechino a una repentina svolta di centottanta gradi. Non sarebbe comunque inedita se guardiamo alla crisi degli assetti di Bretton Woods del ’71-’73 con la fine della convertibilità del dollaro, seppure in un contesto meno globalizzato. Ha inoltre il vantaggio non indifferente, proprio del resto di ogni politica monetaria, di presentarsi in qualche modo “neutra” essendo il comando della moneta quanto di più feticistico, nel senso marxiano del rapporto sociale travestito da rapporto tra cose, possa darsi.
Il passaggio per gli States è dunque obbligato e complicato al tempo stesso: come salvaguardare la possibilità stessa di prelievo sulle ricchezze mondiali, il dollaro e le rendite finanziarie, e insieme svalutare il debito interno e estero? E’ probabile che in prima battuta si cercherà ancora di ricorrere al credito asiatico (buona parte dei quasi tre miliardi $ al giorno nel 2007) ma questa volta per finanziare operazioni di vero e proprio scarico della crisi sugli stessi finanziatori e procedere grazie a questo a un riaggiustamento interno -sfruttando in questo il richiamo obamiano alla “rinascita dell’America”. Ma tra intenzioni e realtà… c’è appunto la Cina.
Prime scintille con la Cina?
Ancor prima di accedere ufficialmente alla carica di ministro del Tesoro Usa, Geithner è riuscito a scatenare le reazioni dell’altrimenti impassibile diplomazia cinese accusando ufficialmente Pechino di manipolazione del cambio dello yuan, in una “guerra di parole” non certo dovuta a una disattenzione linguistica (articolo Economist). Negli stessi giorni, a Davos, il premier cinese Wen Jiabao accusava gli Stati Uniti di essersi adagiati su un “modello di sviluppo insostenibile”. Un mese prima un editoriale del governativo China Daily aveva avvisato gli Stati Uniti di non aspettarsi continui flussi dall’estero di capitale a basso costo per ulteriori massicci salvataggi (articolo Wall Street Journal). Infine, in un’intervista dai toni ufficiali rilasciata al Financial Times durante il suo tour europeo, ancora Wen Jiabao ha richiamato tra le cause della crisi gli squilibri globali dovuti ad “alcune” economie segnalando il possibile cambiamento di strategie rispetto alle riserve di divise estere una volta che la crisi sia passata, riserve con cui comunque Pechino non ricapitalizzerà le esangui casse del Fmi senza una riorganizzazione dei diritti di voto a favore del terzo mondo (articolo Financial Times).
I toni inusuali, da non sopravvalutare certo, indicano che l’esordio della presidenza Obama è stata “scioccante” (Il soft power di Pechino oltre l’Africa ) per la dirigenza cinese, tra accuse, avvertimenti e soprattutto timori sulla capacità di Washington di gestione della crisi. Una crisi che per la prima volta intacca il meccanismo stesso, l’accesso al mercato interno statunitense in continua espansione, su cui si è basata la crescita del paese asiatico dal post-’89 in poi, e al tempo stesso a differenza della crisi asiatica del ’97 manifesta la vulnerabilità anche cinese al lato oscuro della globalizzazione. Che non è ancora la messa a rischio dell’intreccio tout court con il capitale yankee -cruciale dal riconoscimento diplomatico ufficiale del ’79 a conclusione del rapprochement e dal varo delle riforme denghiste in poi- ma certo potrebbe rappresentare l’incrinarsi della complementarietà economica a scala globale puramente win-win (benefici per entrambi i partner ancorché non simmetrici) finora indiscussa pur nel permanere di tensioni regionali sugli assetti di sicurezza in Asia Orientale (ché al di là di questo perimetro, contro le esagerazioni interessate del Pentagono, la Cina sul piano militare al momento non va). Tutto ciò comporterà per Pechino sacrifici ad ampio spettro.
Al di là delle mosse già in atto (vedi la riconversione graduale delle riserve in dollari dal 70% al 45% e il pacchetto di stimoli alla domanda interna) e dei probabili tentativi di riorientamento sul medio-lungo periodo (minore dipendenza dal mercato Usa e maggiore integrazione regionale asiatica, proseguendo l’offensiva economica e di soft power in Africa e America Latina) – il problema di fondo per la Cina è l’estrema difficoltà di riconversione del modello di crescita finora seguito anche a prescindere dalle scontate reazioni Usa a un eventuale dirottamento verso altri lidi delle riserve monetarie. Sia per quantità che per composizione i paesi occidentali sono cruciali per le esportazioni di beni finali di contenuto tecnologico anche medio che le fabbriche cinesi processano e assemblano a partire dall’importazione di componenti dagli altri paesi della regione Asia Orientale. L’intreccio regionale dunque non può far dimenticare la dipendenza dalla destinazione finale (vale finanche per il Giappone che non riesce a rialzarsi) e soprattutto dal legame a doppia mandata con il circuito globale del debito. Una Cina polo di crescita “alternativo” anche solo per l’Asia dovrebbe produrre di più per il mercato interno ed esportare verso i paesi arretrati dopo averli finanziati con una sorta di piano Marshall. Il tutto con sette-ottocento milioni di contadini, di cui trecento sotto la soglia di povertà, secondo le stime molto più caute sull’economia cinese della World Bank, riviste lo scorso anno di contro alle previsioni di un “sorpasso” sugli States. E senza dimenticare che il surplus è ancora largamente di natura commerciale e non da investimenti all’estero.
“In questo matrimonio il divorzio non è un’opzione” (articolo Brookings) sul breve-medio periodo. Il che non toglie che con e a partire da questa crisi il rapporto è destinato a divenire, al di là della volontà degli attori, più contrastato e da parte statunitense più esigente e predatorio. E’ questo il passaggio essenziale che ci sta davanti anche se è prematuro oggi coglierne le piene implicazioni. (Il che ci può dire qualcosa anche della metamorfosi della globalizzazione nella crisi: altro tema da approfondire). Da subito, probabilmente, Washington chiederà la rivalutazione dello yuan e in generale, facendo leva sull’interdipendenza economica e la superiorità militare, l’assunzione di più rischi (cioè costi: economici ma anche sociali e politici interni) da parte di Pechino. In cambio farà qualche concessione alla controparte in termini di accesso alle sedi decisionali mondiali (ma quanto reali?) senza assumere impegni sulla riscrittura effettiva delle regole del gioco internazionale. Si tratterà principalmente di una chiamata in correo in cui la Cina sarà “invitata” a partecipare al salvataggio della controparte (articolo Foreign Affairs) che, dovesse riuscire, in prospettiva renderebbe il rapporto ancora più asimmetrico. Dando altresì un colpo secco alla strategia denghista dell’emergere “nascondendosi” che è riuscita ad evitare con l’“ascesa pacifica” il confronto diretto con la potenza egemone.
La Cina rischia dunque di trovarsi a dover fare i conti troppo presto, ovvero nel mezzo di un’ascesa economica ancora molto squilibrata, e controvoglia, ovvero senza avere in mano l’iniziativa, con i nodi più stringenti del dis-ordine internazionale che pensava fin qui di poter decisamente indirizzare verso un esito multipolarista relativamente equilibrato (con una sorta di “revisionismo preventivo” – vedi: Dopo la Muraglia di Andornino). Ora non può tirarsi indietro né permettersi lo scontro con gli States. Al tempo stesso deve iniziare a pensare a qualche alternativa praticabile in prospettiva per non farsi fagocitare. Brutti scherzi della “coesistenza pacifica”, dottrina già sovietica ai tempi condannata dai cinesi per “revisionismo” ma che nessun dirigente russo avrebbe interpretato al punto da lasciarsi invischiare così a fondo nella Grand Strategy dello zio Sam…
Chimerica non è in buona salute né sul versante statunitense né su quello cinese. Se è così, determinare oggi come andrà a riconfigurarsi questo rapporto in via di ricontrattazione non è questione da affrontare a tavolino. Piuttosto si intreccia con il conflitto sociale che in forme nuove già si esprime -tra le spinte confuse ma riconoscibili che stanno dietro la vittoria di Obama e nei mille rivoli delle proteste in Cina- e le cui dinamiche, quelle sì, saranno l’indice decisivo della profondità della crisi. (Una crisi che rimanda al violento e inevitabile richiamo del capitale fittizio al “principio di realtà” del rapporto con lo sfruttamento del lavoratore complessivo oramai esteso all’intera vita sociale e naturale. Ciò che aiuta a qualificare questa crisi globale come crisi della riproduzione complessiva della società del capitale oramai coperta dall’indebitamento: qui le analogie con il ’29 si rivelano del tutto insufficienti trattandosi allora del passaggio dalla sussunzione formale a quella reale, oggi pienamente dispiegata).
Quello che si può ipotizzare è che l’asse Washington-Pechino permanendo diventerà con ciò ancora meno stabile e fluido, destinato a ripetuti alti e bassi piuttosto che a fare da base per un nuovo ordine in cui i due poli si disciplinerebbero a vicenda. Sembra improbabile e troppo lineare leggerlo nei termini opposti ma in fondo simmetrici del declino dell’egemonia Usa (ma quale e dove il sostituto?) o dell’ascesa di un modello di sviluppo cinese autonomo che vi si affiancherebbe (Arrighi). Comunque sia, non abbiamo davanti a noi una Bretton Woods II con riscrittura delle regole internazionali per il semplice fatto che questa c’è già stata, ed è scaturita proprio dal rapprochement sino-americano di inizi Settanta contemporaneo e contestuale alla crisi della prima Bretton Woods. Il che spiega perché la crisi post-’68 e post-movimenti anticoloniali è stata transitoriamente superata e ricomposta con una dislocazione sociale e spaziale dell’accumulazione e una nuova “regolazione” basata su circuiti del debito mondiali e culminata nella globalizzazione (altro che scelta puramente politica reversibile o caratteristica da sempre del sistema!). Ora il rapporto e l’intero assetto si incrinano. Se poi gli States riuscissero in qualche modo a rilanciare l’accumulazione, la rotta con la Cina sarebbe di vero e proprio scontro accelerato data la sovracapacità produttiva mondiale. Il disordine è grande sotto il cielo…
Febbraio 2009
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