Manovre a palazzo, manovre di palazzo
Il guado del movimento 5 stelle tra centro, centrismo e centralità.
Tutti vogliono stare al centro. Al centro dell’attenzione dei media, al centro della scena politica e probabilmente anche degli scranni parlamentari. Qualcuno voleva portare al centro le periferie, salvo poi dimenticarle per strada, qualcun altro pensa che mettere al centro la sicurezza o la salvaguardia dell’Europa sia fondamentale. Bisognerebbe che il parlamento italiano divenisse un’unica stanza soppalcata in modo che tutti si possano sedere al posto che più li mette a proprio agio, ma poi sarebbe da capire chi sceglierebbe i posti più in alto e chi quelli più in basso.
Ma a che centro si riferiscono i maggiori partiti istituzionali del nostro paese?
Tanto il PD quanto il M5S inseguono irrimediabilmente quello che viene definito “senso comune”, che altro non è che il prodotto dialettico tra l’azione dei media e dei partiti stessi e l’elaborazione che ne fa la società. Nel “senso comune” sparisce la connotazione di classe, di genere, di territorio che una comunità ha e sparisce alla vista contemporaneamente anche l’azione delle organizzazioni che contribuiscono a crearlo ed alimentarlo, oppure concorrono a sostituirlo con un altro. Il “senso comune” finisce così con l’apparire come un fenomeno dato, spontaneo e immutabile, ma che tale non è. Non è detto nemmeno che esso sia realmente maggioritario nella società, ma così viene rappresentato.
Sia il PD che il M5S aspirano a diventare Partiti – Nazione o Partiti – Società, non volendo rappresentare esclusivamente gli interessi di una parte di essa, ma volendola comporre tutta all’interno delle proprie fila. Per fare questo si muovono tanto su un piano istituzionale (dove sfumano sempre di più le classiche divisioni dei poteri di matrice liberale) e del governo, quanto su un piano della comunicazione e del sociale. Proporre un modello di organizzazione della società totale altro non è che la risposta che queste compagini danno alla crisi della democrazia rappresentativa. Non è un caso che un imbarazzato Davide Casaleggio, intervistato da Gruber, a una domanda sulle politiche economiche che il M5S, se andasse al governo, applicherebbe risponde con alcuni balbettii e uno stentato “faremo la democrazia diretta” confondendo il mezzo con il fine.
In questa breve e fulminea conversione dei pentastellati da partito del vaffanculo a partito del governo, le pulsioni di cambiamento si stanno contorcendo in una volontà di amministrare “meglio” degli altri l’esistente – e questo è tutto da vedere.
L’amministrazione torinese con la sua sindaca Chiara Appendino fa da apripista a questa ipotesi di compatibilità e credibilità verso i potenti. Non si vedono che risibili cambiamenti nei rapporti di potere all’interno della città e nelle politiche che vengono messe in campo. La differenza maggiore e la capacità di comunicare che il suo precedessore Piero Fassino non aveva affatto, evidentemente antipatico e burbero.
I casting tra la società civile e gli intellettuali che fino a qualche tempo fa venivano cannoneggiati dai 5s vanno in questa direzione e le visite nei salotti buoni dell’economia e della finanza servono a rassicurare che nessuno stravolgimento è all’ordine del giorno e che in fondo in fondo gli unici candidati affidabili per stabilizzare il paese e avere una nuova governabilità sono loro. La volontà di arrivare nella stanza dei bottoni è talmente forte che sulla legge elettorale si soprassiede su posizioni storiche del movimento per votare a fianco di PD e PDL.
Non c’è materia, qui, per eccitare ottusità complottarde di un Movimento 5 stelle alfiere dei “poteri forti”. Non è cosi semplicemente perché i “poteri forti” o, come sarebbe più corretto dire, la classe realmente dirigente di una società a capitalismo avanzato, quella che si situa al di sopra del mercato e al di sotto della politica, non punta mai su una sola pedina né, se è per questo, gioca su un solo scacchiere. Da qui necessità (parzialmente) eterogenee, lotte intestine, successioni di poteri e strategie complementari. Se c’è però un’accezione pertinente del nuovo dadà linguistico della casta giornalistica mondiale è quella più vicina alla sua accezione etimologica: l’establishment vuole stabilità. È sicuramente vero che nel Movimento 5 stelle è ancora più ciò che spaventa che ciò che (r)assicura ma è vero altresì che viviamo una fase in cui il partito della stabilità – referendum 4 dicembre insegna – potrebbe non essere la soluzione più stabile. Stiamo inoltre andando verso l’ennesimo sconvolgimento del quadro geo-economico mondiale, chi spera che si potrà continuare a vivacchiare di flessibilità elemosinata alla Germania e di Quantitative easing si sbaglia di grosso, tutto in Europa, a partire dalla (piccola) rottura consumata tra Trump e Merkel al G7 di Taormina e al nuovo asse franco-tedesco, sembra spingere verso una sola direzione: per noi saranno dolori. Il progressivo disincanto del Corriere della sera verso il progetto renziano (di cui il caso Boschi-De Bortoli è solo la punta dell’iceberg), l’esplicito endorsement al M5S di una parte del partito della magistratura testimoniato dal recente incontro a Montecitorio organizzato dai grillini alla presenza dei PM Davigo e Di Matteo nonché del vate anti-corruzione Raffaele Cantone (“I 5 stelle sono i nostri principali datori di lavoro” cit.) e il freno a mano tirato da Giorgio Napolitano all’ipotesi voto anticipato, agognata da un Renzi sfibrato dalla panchina, sono altrettanti elementi che ci parlano di un possibile cambio di passo. Che si cominci a prendere sul serio la necessità di levarsi il bubbone del governo pentastellato sperando che magari, scoppiando, si porti via un po’ di scorie e di grumi clientelari riconciliando al contempo il paese con i sacrifici a venire?
In qualsiasi progetto politico l’armonia ritrovata della totalità non viene mai concepita come un elemento già dato ma una conquista che si dà approfondendo uno scontro tra diversi interessi. Colpevolmente Grillo e i suoi soci non vogliono distinguere il centro dalla “centralità” di un discorso politico. Sul lavoro come sui migranti e su molti altri temi si adeguano a quello che è il “senso comune” per allargare la base di consenso evitando così di combattere battaglie scomode o sgradite a qualcuno. Nonostante le possibilità di incidere con efficacia su alcune questioni culturali e sociali ci siano, nonostante le condizioni per cambiare il “senso comune” oggi siano mature i leader grillini si guardano bene anche solo dal provarci.
Una strategia, è vero, che ha fatto la fortuna di tante forze politiche. A lungo andare però in questa fase di crisi permanente il “centrismo” non paga. Non è possibile agire e tanto meno governare in uno scenario complesso come quello odierno ponendosi come agente di una mediazione impossibile. Pena l’emergere di contraddizioni ulteriori, la perdita di consenso e la frattura con parti dei settori sociali di riferimento.
In questa frattura sarà da vedere chi riuscirà meglio ad inserirsi ed approfondirla e quali forze dal basso si potrebbero liberare o meno per aspirare, qui sì, a un cambiamento reale. Sempre che le forze conservatrici non ci riescano prima!
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