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Movida, balbettii e manganelli: loro parlano di polizia, noi parliamo di bisogni

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 Il teatro dell’assurdo di ieri sera a Vanchiglia è, purtroppo, una cifra fin troppo reale dei tempi che viviamo.
Chi appiattisce quello che è successo a uno scontro tra giovani della movida e polizia per qualche birra a basso prezzo non coglie fino in fondo quello che si è scatenato in quella piazza oppure mente deliberatamente per evitare di doversi confrontare con il dato materiale: innanzitutto è una questione di condizioni di vita!

Migliaia di giovani, di studenti, precari e lavoratori nei weekend e nel periodo estivo si riversano nelle due piazze principali della movida torinese: Piazza Santa Giulia e San Salvario. La scelta di questi luoghi come spazi di socialità non è casuale, ma è figlia di vari fattori, tra cui in primo luogo la progettazione che le istituzioni hanno fatto nel tempo dello spazio cittadino. La chiusura e desertificazione dei Murazzi di pari passo all’investimento sulla costruzione del Campus Einaudi e la significativa gentrificazione di San Salvario e Vanchiglia hanno spostato i flussi del popolo della notte. Un popolo della notte che con i suoi consumi rappresenta un mercato enorme per la città di Torino, che negli anni ci ha decantato con tanti paroloni in inglese la sua vocazione smart, young, dinamica, universitaria e culturale. Nel frattempo l’altra faccia della città, quella delle periferie, delle zone popolari veniva abbandonata e lasciata al suo improvvido destino di disoccupazione, sfratti e individualizzazione, ma su questo ci torneremo. A loro volta San Salvario e Vanchiglia venivano saccheggiati a piene mani. Gli affitti aumentavano e aumentano ancora espellendo gli abitanti storici dei quartieri (inizialmente a caratteristica popolare), locali e atelier artistici spuntavano a ogni angolo di strada e si apriva il mercato, contestuale per natura a queste situazioni, delle droghe. Le istituzioni non solo erano consapevoli di tutto questo, ma hanno investito scientificamente sulla trasformazione di queste zone di città per alimentare il capitalismo dei consumi che dopo la crisi dell’industria è diventato il paradigma centrale della nostra città.

Mentre tutto questo accadeva i giovani di Torino si vedevano espropriati di tutto. I record negativi di disoccupazione, di sfratti, di precarietà erano gli altri volti della medaglia. Nell’università in continua espansione con la sconfitta del movimento No Gelmini e la conseguente risacca decine di migliaia di giovani misuravano sulla loro pelle gli effetti della riforma e uno dei pochi luoghi di confronto libero, di rottura, di possibilità di accrescere i propri saperi e sentirsi parte di qualcosa veniva normalizzato, reso a sua volta semplicemente macchina di consumo in grado di far girare nei suoi ingranaggi enormi quantità di denaro. Ancora in controtendenza con il resto d’Italia l’università di Torino è una tra le poche a crescere come numero di iscritti invece che diminuire.

I giovani torinesi schiacciati tra un mercato del lavoro pressoché inesistente e le istituzioni della formazione appiattite e frammentate trovano pressoché l’unico momento di sfogo possibile nella socialità delle zone della movida. Anche molti giovani di periferia decidono di attraversare la città pur di trovare un luogo dove possono incontrarsi con i propri coetanei. In una città senza opportunità si pensa al presente e finché si è giovani si cerca per lo meno di stare insieme, di conoscersi e di condividere delle esperienze. I successi dei numerosi botellòn sono una cifra di questi bisogni. I pochi luoghi dove questo può succedere sono le due piazze e qualche altro punto di ritrovo meno vissuto. Certo, c’è un risvolto anche qui, dove la movida non significa soltanto consumo dei prodotti dei locali, ma anche consumo del territorio e consumo di se stessi. La movida è anche un rapporto di sfruttamento, dove le poche risorse dei giovani vengono drenate in cambio di socialità e possibilità di stare insieme.

Tutto ciò procede indisturbatamente, salvo delle piccole retate della polizia nei confronti degli spacciatori, che sono più uno spot pubblicitario ipocrita che una vero contrasto a questo fenomeno e le proteste dei residenti rimasti nei due quartieri. Almeno fino alla tragedia di Piazza San Carlo. Tragedia di cui nessuno vuole assumersi le responsabilità, ma di cui sono tutti responsabili. Il comune, la questura e la prefettura nella loro manifesta incapacità di gestire l’ordine pubblico, se non con repressione e manganelli alla mano come ci hanno abituato in questi anni, i media nell’alimentare il clima di terrore e ansia continuo che si respira nel nostro paese e la politica istituzionale tutta che incapace di rispondere alla crisi di civiltà in corso non fa altro che alimentare paure e aumentare i livelli di controllo, disciplinamento e repressione che subiscono i territori (il Decreto Minniti ne è la somma dimostrazione). Le comunità si sfaldano e basta un mortaretto o una transenna che va giù per scatenare il panico e la fuga.

Dato che nessuno vuole assumersi questa gravosa responsabilità e renderne conto ai cittadini parte la caccia al capro espiatorio: a qualcuno vengono in mente gli ultras, ma non regge come ricostruzione, qualcun altro addita un ragazzo un po’ bevuto e senza maglia, che però in realtà stava cercando di calmare la folla, alla fine arriva l’idea giusta: i responsabili di questa tragedia non possono che essere i venditori abusivi! Si adattano perfettamente, poi la maggior parte sono anche stranieri e poco importa che molti lavorassero alle dipendenze dei bar bene della piazza o che chi doveva occuparsi di gestire i controlli non è stato in grado di farlo, la colpa è loro, perché sono illegali e parassitano i grandi eventi cittadini i cui proventi dovrebbero invece riempire le tasche di chi le ha già belle gonfie. M5S o PD che sia la solfa non cambia, l’importante è non assumersi le proprie responsabilità per quello che succede in città.

In quattro e quattro otto la sindaca Appendino non esita a promulgare l’ordinanza e la milizia si affretta ad eseguirla con fanfare al seguito. Le istituzioni vogliono smacchiarsi la coscienza in fretta e dimostrare alla cittadinanza che stanno facendo qualcosa, qualsiasi cosa. Poco importa se ad andarci di mezzo sono sempre i soliti.

Ma il meccanismo si inceppa subito. I controlli trovano la resistenza diffusa di molti giovani, e non solo dei centri sociali come qualcuno spererebbe. L’ordinanza è ingiusta e ipocrita, è evidente a tutti e tocca coloro che non possono permettersi di comprare un cocktail a 7 € nei locali. Ma ancora di più è frustrante per molti la violenza del controllo e della normazione dei comportamenti anche in questa sfera della vita, quella del divertimento, che dovrebbe essere serena e spensierata invece che carica della tensione provocata dai corvi con le divise blu che setacciano le piazze. Sono costretti a sentire sul proprio groppone ogni giorno l’ansia generata dalla società in cui siamo e non possono accettare che anche alla sera, anche quando ci si può sfogare e liberare da un po’ di peso si debba stare allerta, si debba avere paura e vedere l’occhio vigile dei guardiani dietro la propria testa.

E’ normale e spontaneo opporsi, per non rischiare di vedersi un altro spazio per quanto contraddittorio alienato da stupide regole proibizioniste.

La questura di Torino però non vuole rischiare di perdere la faccia ancora dopo il disastro di Piazza San Carlo e vede rosso, tanto più che tra chi si oppone all’ordinanza ci sono anche i centri sociali. Vuole far vedere i muscoli e dimostrare che nessun comportamento al di fuori della norma sarà tollerato. Sentendosi coperte le spalle da un’amministrazione supina che non fa che scrivere comunicati di solidarietà e da un governo nazionale che non fa che invocare e promulgare provvedimenti atti a spegnere qualsiasi fiammella di resistenza e contrapposizione fa la prova di forza. Era “inevitabile” affermano sui giornali come se non fossero stati loro a voler generare la situazione di tensione con questa spropositata provocazione. Dal comune dicono che non sapevano niente di questa operazione come se fosse una giustificazione, come se non fosse anche colpa della loro incapacità il fatto che ormai sempre più spesso la polizia decide di governare la città a suo modo, di sua libera iniziativa. Lo avevamo già visto succedere allo sfratto, sempre in quartiere, di Said e i suoi bambini oppure nella piazza del primo maggio. Forse nelle stanze di Piazza Palazzo di Città dovrebbero chiedersi se queste operazioni non sono anche un modo per mettere in difficoltà ulteriore un’amministrazione che in poco tempo sta dimostrando tutta la propria inconsistenza.

Eppure la sindaca, i suoi assessori e i suoi consiglieri continuano a cadere volentieri in queste trappole, che siano quelle innescate dalle opposizioni con polemiche sterili o quelle attrezzate con molta più furbizia da questura e prefettura. Intanto le promesse della campagna elettorale vengono disattese una dopo l’altra: le periferie continuano ad essere lasciate all’abbandono, il problema della casa si aggrava, il consumo di suolo continua e per la disoccupazione giovanile o meno non viene preso nessun provvedimento. Nessun rinascimento alle porte per la città di Torino, ma solo ulteriori problemi a cui viene risposto con balbettii sulle colpe certe della scorsa amministrazione condividendone però metodo per amministrare il dissenso, cioè il manganello.

 

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