Donne Shuar: corpi attraversati dalla violenza miniera
Riportiamo dal blog Cronache Latinoamericane la traduzione di un testo di Alba Crespo Rubio.
Gli e Le Shuar sono una popolazione, una nazione indigena che vive nell’amazzonia da tempi ancestrali. Hanno scienza, tecnologia e principi propri che hanno sviluppato nella selva e che preservano da generazioni. Da agosto del 2016 gli e le Shuar e lo stato ecuadoriano sono in conflitto da quando il 11 di agosto la popolazione di Nankints fu sgomberata con violenza per costruire il campo base della miniera EXSA di proprietà delle imprese cinesi Tongling e CRCC. Questo territorio ancestrale Shuar è stato dato in concessione a queste imprese per sviluppare il progetto mega miniero Panantza – San Carlos. Il 21 di novembre la popolazione Shuar ha provato a riprendere il loro territorio scontrandosi con le forze di polizia. Dopo che un poliziotto è morto durante gli scontri il governo decise di dichiarare lo stato di emergenza in tutta la provincia di Morona Santiago. Carri armati, elicotteri, migliaia di poliziotti e militari hanno trasformato quel territorio in un campo da guerra. Le violenze sulla popolazione sono innumerevoli e il conflitto tende ad aumentare dal momento in cui gli e le Shuar non sono disposti/e ad arrendersi e vogliono difendere, sacrificando anche la propria vita, il loro territorio ancestrale[1].
In un momento in cui a livello mondiale la lotta contro la violenza sulle donne è tornata ad essere una delle priorità nelle agende di tutti i movimenti mondiali, portando migliaia di donne ad organizzarsi e a difendere i propri diritti, è fondamentale conoscere la violenza che subiscono le donne Shuar in un angolo remoto del mondo, dove però si trova il polmone del pianeta: l’amazzonia. Conoscere attraverso il racconto di Alba Crespo e delle donne di Tiink, che sono venute a Quito nel febbraio scorso a raccontare la loro situazione, è importante per conoscere la loro storia, la loro sofferenza, ma allo stesso tempo il loro coraggio e la loro resistenza. Così come il vero volto del governo progressista ecuadoriano e il suo modello di sviluppo miniero che impone un livello di violenza altissimo sul corpo delle donne che abitano i territori che fanno appetito agli estrattivisti.
“Io sono rimasta qui. E’ casa mia e non voglio andarmene”. Ha gli occhi pieni di lacrime, ma muove le braccia con fermezza. María Luisa Utitiaj è seduta su un tronco che fa da sedia, all’interno dell’edificio in legno dove abitava fino a due mesi fa, quando l’arrivo di centinaia di militari e poliziotti a San Carlos de Limón la sua comunità, costrinse lei e altre famiglie Shuar che risiedevano lì a cercare un altro posto dove stabilirsi.
Il 19 febbraio, la giornata di elezioni in Ecuador coincideva con la fine dello stato di emergenza di due mesi nella provincia di Morona Santiago, ed è stato anche il giorno del ritorno alle comunità per alcune. La militarizzazione della zona si è verificata nel dicembre 2016 a partire dallo scontro tra la popolazione di Nankintz e la polizia, quando le/gli indigene/i cercarono di recuperare la loro comunità, dalla quale erano stati espulse/i per costruire il campo miniero di Panantza-San Carlos.
Le violenze estrattiviste
Distruzione di ecosistemi, inquinamento. Violazione dei diritti contenuti nella Costituzione del 2008, come l’autonomia dei popoli indigeni e il diritto alla consulta prima di una concessione per sfruttare le risorse di un territorio. Attacchi ai diritti umani fondamentali, come sono lo sfollamento forzato, la persecuzione indiscriminata e la detenzione senza giustificazione per chi difende la terra, la natura e la libertà.
La mega-miniera lascia una traccia che non compensa i “benefici”: produzione di capitale che va nelle tasche di coloro che hanno già, o per pagare il debito estero. Le e gli Shuar che vivono nelle comunità di Morona Santiago hanno tutto chiaro: si oppongono frontalmente a questa minaccia per la sopravvivenza del loro popolo.
L’estrattivismo su larga scala genera violenza a vari livelli; alle donne, tocca viverlo in modo estremo. I loro corpi, le loro vite, legati alla terra, all’alimentazione, alle cure, sono attraversati dal saccheggio che coinvolge afflussi di capitali esteri delle transnazionali miniere in luoghi in cui la sussistenza si è sempre basata su la complicità con la natura, la chakra[2] come fonte di cibo, e la chicha de yuca[3] come centro della convivenza nella comunità. Essi sono la spina dorsale che supporta questa quotidianità, ma raramente ci si concentra su come questa aggressione comporta la distruzione di beni non intercambiabili con dollari; vale a dire: distrugge l’identità e la vita delle popolazioni indigene.
Espropriazione e accesso alla terra
“Qui avevo tutto: pentole, coperte, polli … i coloni hanno rubato tutto, ora non ho più niente!”. María Luisa tornò due giorni fa con le sue nipote e suo marito, e la speranza di recuperare tutto quello che lasciò indietro durante la fuga. Ma ha trovato solo quelli che sono rimasti nella comunità –coloni, non Shuar, coloro a cui è stata venduta la terra comunale a prezzi bassi come se fosse sterile- sotto la compiacenza degli agenti di polizia e delle forze armate che si sono installati in tutta l’area in concessione per garantire l’entrata di queste multinazionali. Finora lei e la sua famiglia vivevano in Tiink, rifugiati, convivendo con altre famiglie – quaranta- che sono dovute fuggire anche loro dalle comunità di Nankintz e Tsuntsuim, quando nel dicembre 2016 l’esercito e la polizia sono arrivati ad occuparle.
Da Tiink, un centro della nazionalità indigena Shuar, nel sud di Morona Santiago, sono arrivati un gruppo di persone a Quito la prima settimana di febbraio, accompagnati dalla CONAIE[4], con l’obiettivo di portare alla città il conflitto che si sta vivendo nel territorio. Raccontarono con crudezza come fu lo sgombero: “sono arrivati sparando, abbiamo avuto pochissimo tempo per raccogliere le nostre cose e andarcene”.
Jessica spiega che quando in Tsuntsuim, il centro dove abitava, toccò fuggire, sono state le donne a farlo per prime, portando con sé tutte le creature -ognuna ha come minimo tre- , che non capivano cosa stava succedendo. E ‘stata una traversata durata tutta la notte, attraversando la giungla, con soltanto quello che erano riuscite a prendere. “Le mie pentole, le galline , vestiti e scarpe …abbiamo dovuto lasciare tutto.” Ora, casa sua è abbandonata e non può tornare per paura di rappresaglie.
L’esperienza in queste comunità, nei pressi di Nankintz, è stata posteriore ad un altro processo di espulsione nella vicina provincia circostante di Zamora Chinchipe: il progetto Mirador, in Tundayme, è già praticamente installato su terreni che sono stati centri Shuar. In questo caso, il metodo fu più lento e progressivo, ma non meno aggressivo, in quanto la impresa si è introdotta tramite la molestia alle famiglie, per costringerle a vendere le aziende agricole, e la distruzione della struttura sociale, la divisione e il conflitto tra vicine e vicini di casa.
Ciò ha portato a un approccio verso i contadini per cercare di siglare accordi, che si è tradotto nel posizionamento degli uomini come negoziatori, attribuendoli il ruolo della presa di decisioni. “Una volta è venuto un avvocato dell’azienda e disse a mio padre di presentare l’atto di proprietà della casa; Io gli chiese perché, se già aveva venduto o fatto affari, che altrimenti non ne aveva bisogno per niente “, racconta una donna della Valle del Quimi . Lei ha cominciato a discutere e a rivendicare il suo ruolo nella conversazione, e la risposta dell’avvocato è stata “stavo facendo un sondaggio” per evitare di coinvolgerla.
Quando le donne non ci sono, le aziende stuzzicano gli uomini che sono più suscettibili a credere o accettare promesse di lavoro o di retribuzione, in più li viene dato lo status di proprietari al quale esse non hanno accesso perché la loro firma non risulta nei documenti. Esse sono quelle che non sono disposte a cedere: la terra, l’azienda agricola, sono i loro mezzi di sussistenza, e stanno attente a non perderli. Tuttavia, vengono allontanate, e infine finiscono per rimanere senza casa a causa della forte pressione ricevuta.
E quando arrivano le miniere: divisione del lavoro e violenza sessuale
Il “no” alla miniera è presente nelle loro voci, non solo per l’impatto ambientale, ma per come questa nuoce la loro identità, per come alimenta le disuguaglianze e accentua le aggressioni. L’arrivo delle aziende miniere causa desolazione sulla vita delle popolazioni indigene: Improvvisamente, tutto si mascolinizza, e ruota attorno al capitale come sostentamento vitale. L’arrivo di militari e lavoratori maschi genera uno squilibrio demografico che pone le donne in una condizione di diseguaglianza e vulnerabilità. In Tundayme uno dei primi effetti fu l’istituzione di un bordello, che rispecchiava le richieste di prestazioni sessuali, e portò ad una trasformazione dei rapporti e dei ruoli all’interno della stessa comunità. Così si sono verificati casi di violenza sessuale , anche a livello intrafamiliare.
Di conseguenza, le donne modificano anche la loro soggettività. Inizialmente cambiano il loro modo di comportarsi e di vestirsi per proteggersi da queste aggressioni; e poi con la trasformazione dei rapporti e le dinamiche di lavoro, andare in città diventa un’aspirazione, e adattano il loro fisico agli standard occidentali: vestono in modo diverso, si truccano, ecc. Questo trasforma il loro corpo in oggetto, e aumenta le tensioni tra gli uomini meticci e gli uomini Shuar per accedere a questo.
Una parte degli uomini della comunità vengono assunti dalle imprese e diventano parte della strategia. Da un lato crea disuguaglianze all’interno del gruppo della popolazione e introduce le differenze di classe. D’altra parte, rafforza la figura del maschio capofamiglia e genera un senso di dipendenza verso chi porta i soldi a casa. Si cerca di far diventare l’impresa mineraria l’unico mezzo economico per le famiglie, che si smetta di contemplare la vita autosufficiente attraverso il lavoro nel campo, che fino ad oggi le donne avevano fatto e che ora svolgono mansioni non remunerate e vengono invisibilizzate.
Spostamenti forzati: il compito di curare si moltiplica
Essendo testimoni diretti dell’invasione e la trasformazione della struttura sociale in Tundayme, gli abitanti di Nankintz non accettarono di essere spostati dal loro centro, per questo la via che scelse lo stato fu l’irruzione militarizzata. Nei racconti delle donne che ora vivono in Tiink ci sono decine di soldati armati in auto blindate. C’è anche il ricordo della fuga, la sofferenza che non si cancellerà facilmente, ma che si deve superare per consolare i più piccoli e le più piccole, che hanno presente la minaccia.
Claudia Chumpi in Tiink, dà voce alle parole di altre donne, che acconsentano col cenno del capo: “los y las wawas[5] hanno paura, piangono, non vogliono andare a scuola”. Guarda suo figlio, che pende dalle sue braccia, e di tanto in tanto li dà il seno. “Io l’ho abbraccio forte e gli dico che non succede nulla, che non deve avere paura, che io sono qui e non permetterò che li facciano del male …” raccontano tutte. Non sembra che finiscano per credere alle loro stesse parole, perché sono consapevole che non finisce qui, che gli uomini sono ancora nascosti nella giungla e per questo si trovano ancora più sole; che non potranno tornare a casa in un periodo di tempo incerto, e che quando lo faranno dovranno recuperare tutto ciò che hanno perso.
Il loro ruolo di protettrici è un carico ingiusto: per il fatto di aver partorito le creature, sono esse che hanno dovuto sopportare tutto ciò che è stato la destrutturazione della loro vita. La carenza di cibo, la sofferenza dei loro figli e figlie, l’assenza di molti compagni maschi nascosti nella giungla perché sono perseguiti dalla giustizia, o la mancanza della presenza di questi, per il loro ruolo di leader -riservato all’identità di sesso maschile nel caso degli Shuar -… è quello che si trovano ad affrontare, e lo affrontano comprendendo che è una cosa in più, di maniera provvisoria, che devono assumersi.
Donne in Resistenza
Le voci delle donne Shuar sono chiare e dirette. Non vogliono la militarizzazione. Spesso, però, sono invisibilizzate, perché sono gli uomini quelli che parlano e si posizionano nei piani alti delle organizzazioni indigene, lasciando le donne, che recepiscono realmente i vari assi della violenza dello sfruttamento miniero, in un piano di “testimonianza della sofferenza”, di “vittima e niente di più”. È per questo che, al loro arrivo a Quito nel mese di febbraio per dare visibilità e denunciare la loro situazione, le donne Tiink sono riuscite a fare uso di uno spazio proprio in cui farsi eco delle proprie rivendicazioni, e dove incontrare altre donne che le hanno accompagnate e hanno condiviso la loro lotta.
Alla fine, le donne si trasformano nel soggetto centrale della resistenza; non per una volontà politica o un obbligo morale, ma per la necessità di difendere la propria identità e garantire la loro sussistenza e quella delle persone che dipendono da loro. Non sono sempre leader, però si le più forti che fanno fronte a multipli assi di violenza e sostengono in più la vita, quelle che si rifiutano di vendere la terra, quelle che non vogliono negoziare, perché non permetteranno che le loro case vengano violentate. Perché, come dice Lorena Cabnal, femminista comunitaria guatemalteca, difendere la loro terra è difendere il loro corpo, che è il garante della vita.
[1] https://www.youtube.com/watch?v=v2D99YHGuRU
[2] La Chakra è un pezzo di terra destinato alla coltivazione di prodotti alimentari per il consumo domestico. E’ una pratica molto comune nelle famiglie indigene, si tratta di un sistema di sviluppo comunitario.
[3] Bevanda tipica indigena fatta con la yucca e con la fermentazione di amidi e zuccheri. Il suo consumo fa parte della vita e della cultura di tante nazionalità indigene. A livello sociale è vincolata alla donna che coltiva la yucca, prepara e serve la chicha.
[4] Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador
[5] Bambino, bambina in lingua quechua.
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