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Fogli del diario dal carcere di Nicoletta – parte 3

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Sabato 4 gennaio

Oggi è tornato il sole.
E’ mattina. In sezione tutto è silenzio. Qualcuna delle detenute è scesa all’aria, altre si sono rimesse a dormire “nella speranza- mi dicono- di annullare per qualche ora il tempo qui dentro”.
Sono rimasta in cella a leggere, il mio modo di anestetizzare il peso delle catene ed evadere verso altri climi ed altri cieli.
Mentre leggo di Rosa che, dal carcere di Wronke, rivive nel ricordo le passeggiate tra i campi dorati del Sudende, sento oltre i vetri un breve battito d’ali: è un passero volato sul davanzale.
Apro la finestra per sbriciolargli un po’ di pane, molliche infilate ad una ad una tra le maglie della fitta rete.
Dopo qualche esitazione il piccolo messaggero torna; ora va e viene, con lunghi voli, dalla mia finestra ad un albero che intravedo al di là del cortile.
E’ un breve volo il suo, ma carico di possibilità, come di chi è libero di muoversi entro l’orizzonte, per quanto angusto, della propria vita.
Va, viene, a tratti cinguetta, scocca verso di me, che lo osservo da dietro le sbarre, la freccia arguta del suo sguardo, accettando l’umile dono delle mie mani e regalandomi in cambio un saluto che nessun guardiano, nessuna porta blindata potrà impedire.
Sulle ali di quel volo il mio pensiero corre, per contrasto, ai grandi cedri di casa mia, fra i cui rami trovano cibo e protezione, oltre ai passeri, cince, scriccioli, pettirossi….
Riprendo a leggere: “ Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita” sulla grande bilancia del destino”, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola.”
Come un messaggio nella bottiglia approdato a questa cella da indicibili lontananze.
L’amore e la lotta hanno una voce antica e sempre nuova, sanno intessere legami che vincono il tempo, capaci di rivivere oltre la sconfitta, più forti della morte.

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Vertigine. Sento il salto nel buio che sta coinvolgendo la mia generazione, Più che mai ora, in questi tempi in cui l’epidemia inghiotte, giorno dopo giorno, persone care, alle quali non posso e non voglio rinunciare..
Contro il buio cresce l’urgenza di lasciare qualche traccia, qualche messaggio per chi viene dopo ed è già sulla strada, nella prospettiva della lotta di sempre.

Fogli di diario.

6 gennaio, Epifania, “rivelazione”.

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Quello che oggi si rivela, in questo non-luogo, è la falsità di una democrazia traditrice non solo del popolo che per essa lottò, ma delle ragioni elementari della vita.
Quel che appare in tutta la sua violenza, in questo mondo di vivi condannati all’immobilità è un sistema vendicativo, che fa il deserto e lo chiama pace .
………..
Qui oltre le sbarre avanza la giornata immobile dei giorni festivi, Il deserto di attività e di messaggi da fuori.
Sono riuscita, non senza ripetute chiamate, ad andare in doccia; Acqua calda, dopo l’acqua gelata della cella: la sua carezza mi fa bene, è casa…Ma l’illusione finisce, la cella pretende il ritorno, la secondina aspetta con le chiavi, per richiudere….
…………..
Poco prima di mezzogiorno sono passate due anziane suore, a regalare un pacchettino di mentine Leone: sono l’oro, l’incenso e la mirra dell’ Epifania….o la calza della Befana.
Questa notte, dalle inferriate ho spiato il cielo, in attesa…Ma non sono riuscita a cogliere altro se non il tormento dell’elicottero nella consueta perlustrazione sul carcere.
Dunque niente comete per noi, niente streghe liberatrici, solo uno spicchio di luna crescente, in un o spazio vuoto.
………….
Degli antichi saggi venuti dall’Oriente con doni al bambino poverissimo uscito da pochi giorni ad abitare il mondo, ho qui con me le eredi: le intravedo oltre i blindi, le incontro all’ora d’aria; ragazze venute dagli inferni dell’ emigrazione, che si trascinano appresso la loro povertà, più povere e dimenticate di quel bambino, per il quale migliaia di secoli fa quei sapienti si misero in viaggio, guidati dalla stella.
……………..
Mi impegno a pulire la cella, già di per sé pulita, come i luoghi dove nessuno viene e da cui nessuno va…
In realtà, non rinuncio alla speranza che, per un qualche sortilegio, la piccola scopa si animi, diventi testa d’ariete contro sbarre e mura, e riesca ad aprire un varco da cui, in questa mattina dimenticata dell’epifania, una folla di prigionieri riesca a trovare la via di fuga, il volo di liberazione.

————–

7 gennaio 2020

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Oggi è per me la prima giornata di colloqui. Mi hanno avvertita all’ultimo momento che devo prepararmi.
Mi prende un po’ di angoscia: è opportuno che mi presenti al meglio per non dare preoccupazioni a chi ho lasciato fuori dalle mura. Non ho un filo di rossetto da mettermi (lo stick che mi ero portata giace al casellario, come la boccetta di profumo che mi seguiva da Atene, con la sua fragranza speziata). Certo, dopo una settimana di di digiuno forzato per l’immangiabile sbobba del carcere, la mia linea sarà perfetta.
Aspetto chiusa in cella. Il tempo, senza orologio, non passa mai….. Nessuno viene a prelevarmi. Ma sarà vero che c’è qualcuno per me?
Finalmente arriva la secondina. Sferragliare di chiavi che aprono il cancello. Percorro il corridoio accompagnata dagli sguardi delle altre rinchiuse.

Al piano terra c’è un gruppetto di donne pronte per il colloquio, provenienti da sezioni diverse.
Noto che tutte hanno un sacchetto o una borsa di tela da cui spunta il collo di una bottiglietta. Alcune discorrono sottovoce tra di loro, in un piemontese particolare, una specie di esperanto regionale che sa di terra e di vigna , di risaie e di frutteti: è l’idioma antico comune a chi si muove, stagione dopo stagione, dietro al lavoro e sedimenta un linguaggio fatto di luoghi e di epoche diverse. Sono le donne della comunità sinta,, legate tra di loro da vincoli atavici di parentela, sparse in tutte le sezioni. In quel loro discorrere fitto si coglie, insieme alla gioia di ritrovarsi, il bisogno di riaffermare un’appartenenza, i segni bistrattati di radici comuni, mai dimenticate.

Finalmente ci muoviamo.
Si riapre la porta del blocco femminile da cui sono entrata, un secolo fa…..Cortile,…padiglione colloqui…noi in fila indiana dietro la secondina , porte aperte e richiuse alle nostre spalle, dedalo di corridoi….
Arriviamo in zona colloqui. Ennesimo controllo.Tutte hanno la prenotazione scritta tranne me….mi prende la paura del vuoto….No, è il primo colloquio, basta richiesta telefonica da parte del parente consentito e quel parente mi sta aspettando….

Ma non è ancora finita: anche i visitatori devono essere controllati,attraverso il passaggio al metaldetector insieme ai pacchi che vogliono fare entrare,,,,
Dunque ulteriore attesa, chiuse in una saletta adibita in origine ai colloqui per i detenuti del 41 bis. Spessi vetri divisori, barriera invalicabile tra le due parti del bancone, senza possibilità di comunicare se non attraverso microfoni. Se i vetri appaiono pieni di crepe, resiste il cemento, gridano ancora disumanità i segni di contatti fisici impossibili.

Finalmente si può andare. Percorriamo l’ultimo tratto di corridoio sotto lo sguardo ironico di secondini maschi ( da loro è gestito il blocco colloqui).

Lo vedo in mezzo ai parenti raggruppati in fondo alla sala, con la grande figura e la giacca a quadri di sempre…..e, improvvisamente sento dilagarmi dentro la nostalgia che in tutti questi giorni ero riuscita ad esorcizzare….Con lui c’è l’aria di casa mia, ci sono i miei animali… e c’è la Valle, le sue lotte di sempre, con gli affetti, i pericoli, il dolore e l’allegria di una vita vera….

Prendiamo posto ad un tavolino. Insieme ai messaggi e saluti, ai racconti di iniziative scaturite da una solidarietà grande ed inaspettata, ci sono i silenzi di un’intimità infranta, raggelata da quest’universo dove non c’è posto per la gentilezza….

La sala colloqui è piena di parole e di sofferenza, Qualcuno piange, altri discorrono fitto. Dalle borse che le detenute hanno portato con sé spunta l’umile omaggio, la testarda ricerca di quotidianità a cui ci si appiglia per non snaturarsi: sui tavoli compaiono bottigliette di caffè, qualche merendina da consumare insieme, qualcosa da offrire, come quando si hanno visite, a casa….

L’ora di colloquio è già volata via, inesorabile.
Entra la guardia a richiamare le detenute, nominandole ad una ad una. Gli ultimi saluti affannosi sotto l’occhio indiscreto delle telecamere.
Prima di uscire dalla sala, mi volto un’ultima volta; lo vedo scomparire dalla porta di fondo, a testa bassa e mi stringono il cuore quei radi capelli grigi, quel passo stanco di persona anziana….

Ma per le detenute non è ancora finita: prima di recuperare i pacchi portati dai parenti, c’è la perquisizione corporale.
Chiuse in una stanza, aspettiamo l’arrivo della guardiana. A seconda di chi ci capita, la perquisizione sarà più o meno approfondita. Via le scarpe, le calze, i pantaloni. Alzare la maglia, abbassare le mutande, scuotere il fazzoletto…
Il rito è insopportabile, tanto più insopportabile quanto più immotivato. Accanto alle altre che, come me , si rivestono in fretta, mi sento montare dentro la marea dell’odio…

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8 – 10 gennaio 2020

Tutta la notte mi è giunto un lamento. Viene dalle prime celle, le celle di rigore, che mi dicono essere usate anche per gli psichiatrici . E’ un lamento flebile, per questo più terribile, perché disperato. Come si può prendere sonno quando a pochi metri da te c’è un dolore senza risposta e senza conforto?
Cercando di non svegliare la mia concellina, mi siedo alla finestra, sulla desolazione di questi cortili di cemento, dove la notte è senza stelle
………….
Da “radiocarcere” ho avuto notizie della donna rinchiusa nella cella di rigore. E’ arrivata qui da da un’altra città dove vive la sua anziana mamma. Ha problemi psichiatrici. Non può tenere in cella né fornellini né accendini e neppure le cose minime ( quali?) che potrebbe utilizzare per offendersi e offendere. Si è ribellata ad una guardiana che le è zompata addosso durante un momento delle sue crisi e l’ha graffiata…

Mi chiedo che cosa ci faccia qui dentro una creatura come C., come possa essere questa la medicina per il suo disagio di vivere…

…………..

Ho chiesto di andare in infermeria, in rotonda, per misurarmi la pressione… Passando, ho buttato un occhio attraverso lo spioncino della prima cella.
Completamente nuda, su un materasso a terra, in una cella vuota. Dorme. Intorno fa freddo, il freddo di gennaio in un carcere.
Mi rivolgo alla secondina che mi sta accompagnando : “ perché?” “si impiccherebbe con le sue mutande”. “ ma questa è la soluzione?” “ Dosio, sbrigati.”

…………
Oggi visite: una consigliera regionale, a me cara e non per la politica, ma per l’umanità; un deputato, accompagnato/controllato a vista da un graduato del carcere.
Ho chiesto loro di andare a vedere quella cella numero 1 , dove è reclusa quell’inerme, abbandonata all’assurdo….
…………

E’ notte fonda, non posso dormire. Tendo l’orecchio in questo silenzio pieno di storie, di rabbia e di sogni. Nulla. Tutto dorme e in cielo sta avanzando la luna, grande come non l’ho vista mai, e inonda con la sua luce i cortili, abbraccia i fabbricati, ma non riesce a penetrare attraverso le finestrelle dei cubicoli in cui siamo recluse. Compagna luna, porta conforto a C. nella sua cella di rigore….
………..

Mattina. Ho chiesto di rimisurarmi la pressione. Percorrendo il corridoio dietro la guardiana,Sbircio dentro cella di C. Sul materasso c’è una sagoma sotto una coperta. C. avrà un po’ meno freddo….
Stamattina in infermeria c’è il medico. Esamina la mia cartella clinica. Mi parla cordialmente e si spinge a domandarmi se mio marito è d’accordo con la mia scelta per lui incomprensibile. Come posso raccontargli di tutta una vita di lotte comuni, condivise, sulle quali si è radicato un mondo?
Gli chiedo di C. Lui mi dice che per le donne il “luogo di cura psichiatrico” sta proprio nelle prime celle della sezione “nuove giunte”, e non perché ci siano particolari professionalità ad esse dedicate, ma perché ci sono le telecamere per controllare…

Ritorno nel mio cubicolo. Mentre passo, mi fermo davanti alla prima cella. Il blindo è semiaperto. C. è vestita. Allungo una mano attraverso le sbarre, lei me la stringe….
La guardiana mi richiama.: “sbrigati, in cella!”.

————-

Sabato 11 gennaio 2020

Oggi la mia Valle è a Torino, in manifestazione per noi prigionieri, per le migliaia di indagati e processati, per quanti sono già passati dentro queste celle, dietro le sbarre del non-luogo dove ora vivo.
E’ la prima manifestazione NO TAV a cui non prendo parte di persona, ma solo con la forza dell’immaginazione che nasce dai ricordi.
Probabilmente, a sfilare, ci sarà la mia sagoma di cartone, preparata dai compagni romani ai tempi della mia “evasione” (che giorni gioiosi e ironici furono quelli, pieni di incontri e di avventura, di assemblee e di viaggi in ogni parte del paese….).
Sono rimasta in cella a scrivere, a pensare. In questo pomeriggio di sole la sezione sembra disabitata. Le mie compagne sono scese all’aria: come resistere ad uno scampolo di sole e di cielo azzurro, anche se intravisto in alto, sopra i muri?
Mi giungono attutite le voci dalle prime celle, quelle di isolamento e, dalla rotonda, le chiacchiere delle guardiane.
Anche i cortili che portano verso l’esterno conoscono il vuoto del sabato e dei giorni festivi: niente furgoni, gruppi di parenti avviati al padiglione colloqui, niente andirivieni di figure in divisa, solo un grosso gatto grigio steso ai piedi di un muro, a prendere il sole. A un certo punto compare un’ambulanza che si avvia lentamente verso i blocchi di uscita….
A tenermi compagnia ci sono i passeri: si sono accorti di me seduta alla finestra ed arrivano a sbirciare furtivi, attraverso le maglie della rete, sicuri di trovare le immancabili molliche.
Intorno pesa un senso di ineluttabile costrizione, eppure non sono triste, perché so di fare la cosa giusta e di avere con me l’amore e la condivisione di tutto un popolo….
Tuttavia com’è lontana la casa un po’ caotica ma mia, la stanzetta sui tetti, piena di libri e di ricordi…
E Luna, Tito, Ninetta, Lindo… e gli altri mici senza nome che, di buon mattino arrivano al mio balcone dove troveranno, come sempre, un po’ di cibo.
L’asinella Dorothy e il capretto Juri saranno alla staccionata in attesa di fieno e carote. E il fedele Argo continuerà ad aspettare, al cancello, il mio ritorno ( non dimentico quel suo sguardo smarrito e il suo seguirmi passo a passo, la sera del mio arresto)….
La mia cella si affolla di infinite presenze, persone, animali, i vivi e quelli persi per sempre…
Accendo la TV per vedere l’ora. Le quattordici.
A qualche chilometro da qui, nel centro cittadino, starà partendo il corteo. …musica…parole…bandiere al vento…
Con l’arroganza consueta, le “forze dell’ordine” avranno stretto un cordone sanitario intorno a uomini, donne, bambini, perché il contagio della dignità e della ribellione non possa allargarsi, divenire tempesta.
Eccomi con voi, sorelle e fratelli di lotta e di vita… Anch’io, come sempre, sto camminando dietro lo striscione…..si alzano gli slogan….dal furgone arriva l’onda della musica che parla di dolce, autentica ribellione…. “Si parte e si torna insieme”… “I popoli in rivolta scrivono la storia, NO TAV fino alla vittoria!”…
Anche questo è la felicità.

Nicoletta

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Da https://www.nicolettadosio.it/

 

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