DA San Vittore…..
DOCUMENTO DEI DETENUTI RIVOLUZIONARI
- Vittore: la pena e’ sempre massima
Quando un giudice condanna alla carcerazione preventiva, in attesa di un lontanissimo processo, o alla carcerazione penale si mette in dichiarata contraddizione coi valori della sua stessa società borghese e col sistema di diritto che la regge. Il giudice, per il solo fatto di condannare al carcere, infrange numerose leggi basilari dell’ordinamento internazionale e interno. Per la sua legge, dovrebbe condannare alla «rieducazione». In realtà, sapendo cos’è il carcere e costringendovi dentro i detenuti, è responsabile di sequestri, lesioni, sfruttamento, omicidi tentati e riusciti, sevizie ecc.. il tutto in concorso con altri, continuato, aggravato da motivi abbietti. Ma qual’è allora la responsabilità dei democratici, dei compagni, che delegano ogni resistenza a questo tipo di sistema criminoso ad un tecnico (l’avvocato) che può contrastarlo solo dall’interno, accettandone ed assumendone le regole? Che rinunciano da anni alla denuncia e alla lotta e ci consigliano di aspettare con pazienza che l’avvocato giochi la sua contrattazione, di considerare la detenzione come una parentesi nella nostra vita politica, solo una lunga attesa di uscire. Ma usciremo noi; il carcere resta. La sofferenza che infligge a chi entra, resta. Chi risarcisce di questa ferita noi, i compagni che devono restarci una vita, le migliaia di proletari? Ai giudici fuorilegge che cercano di assassinarci colla galera, al sistema carcerario che ci opprime, ai compagni che ci raccomandano di stare calmi e di morire politicamente, a tutto questo rispondiamo no! i proletari?
Ogni giorno di galera è un giorno di lotta. Noi la bandiera rossa la vogliamo tenere alta dappertutto, e più alta dove è più arrogante il nemico. Se non vedete le rivolte, pensate anche alla famosa, cara, vecchia talpa che continua a scavare anche sotto i muri più spessi. Forse chi non c’è venuto non ha capito bene cos’è il carcere, cos’è S. Vittore nel cuore della metropoli del capitale. Vi avranno detto che c’è la televisione»in cella. Strano, era la prima cosa che sentivamo dire anche noi prima di entrare. Poi abbiamo visto le celle di punizione. Durante la stagione delle grosse rivolte si era conquistato uno spazio di potere, un abbozzo di organizzazione parasindacale. Allo sciopero dei lavoranti, della fame, ai tetti, alle lettere di denuncia sostenute dall’opinione pubblica, da Lotta Continua, perfino da certi organi di stampa, l’istituzione era costretta a rispondere sulla strada del piccolo riformismo. I detenuti chiedevano, per esempio, l’amnistia, la riforma dei codici, la riduzione della carcerazione preventiva, l’abolizione della recidiva; la direzione concedeva la forchetta, il tavolino, la televisione, il cesso. Il riformismo, strumento di divisione dei proletari. è soprattutto efficace qui, dove la lotta quotidiana per la sopravvivenza, la mancanza delle cose più utili ed elementari, rendono estremamente importante ogni minima conquista sul piano del tenore di vita. Congiuntamente la direzione otteneva un altro risultato: rafforzava la tendenza a rinchiudersi in isolamento o in piccoli gruppi. Tanti vantaggi reali hanno una doppia faccia. Le celle aperte durante l’aria invitano a rientrare; c’è la televisione (dunque non la sala comune dove radunarsi per guardarla), i fumetti porno, la radiolina, il mangianastri. Anche andare al gabinetto poteva essere un’occasione d’incontro per i detenuti, ci rifiutiamo d’immaginare nella direzione un bagliore di umanità. Si è eliminata ogni possibilità di incontro fra i detenuti dei vari raggi. Perfino alla messa si assiste (quei pochi che vogliono) dietro le sbarre dei rispettivi raggi. Il sadismo si è manifestato anche nella costruzione delle bocche di lupo (giuridicamente vietate) che, opprimendo il detenuto con la visione di un solo rettangolino di ciclo, costituiscono uno strumento di tortura psicologica di cui è stata accertata la nocività. Inutili, ridicole sul piano della sicurezza, impediscono però di vedere e comunicare coi raggi adiacenti.
I detenuti per motivi politici subiscono poi un isolamento particolare. Di regola sono confinati nel raggio dei lavoranti, in modo da ostacolare la possibilità di amalgama cogli altri detenuti. Il primo compito politico che i proletari carcerati si impongono è di smascherare la futilità e l’uso di certe apparenti conquiste e di sviluppare forme di solidarietà e di comunicazione fra tutti. Ma il carcere è fondamentalmente un’«istituzione della violenza» e come tale ha reagito alle rivolte, soprattutto quando l’appoggio esterno ai detenuti si è spento, quando la denuncia non ha fatto più notizia, quando Lotta Continua non se l’è sentita di resistere sullo stesso piano di violenza che veniva imposto. Tralasciamo i racconti, noti ed allucinanti, delle immediate conseguenze delle rivolte. Diciamo solo che quell’impennata bestiale è rimasta la norma. Oggi gli strumenti della repressione quotidiana si possono riassumere sostanzialmente in:
1) i trasferimenti; 2) le celle di punizione; 3) il manicomio; 4) le raffiche di mitra.
L’insopportabilità del sistema carcerario è di tutti, ovviamente, per cui la rivolta generica è implicita in ognuno. Si esprime però in modi diversi. Ci sono traditori che cercano di rimediare piccolissimi privilegi vendendosi al nemico, altri che cercano forme di adattamento assorbendo l’ideologia della repressione (ho sbagliato, è giusto che paghi) o rinchiudendosi in solitudine; altri, nell’impossibilità di scagliarsi contro il nemico che li soffoca, deviano l’aggressività su se stessi o sugli altri detenuti, con litigi e risse per motivi spesso inconsistenti.
Ricordiamo però che l’autolesionismo (tagli, ingestione di chiodi, lamette, detersivi, ecc.) che è all’ordine del giorno in ogni carcere, ha anche un drammatico significato di autodifesa e rende evidente la disumanità del sistema: a tanto si deve arrivare per richiamare l’attenzione, per cambiare qualcosa di una condizione insopportabile. Ricordiamo anche che la minaccia di grave autolesionismo (la lametta in bocca, per esempio) è l’unica forma di difesa dai pestaggi. Ma spesso il pestaggio avviene comunque, e il detenuto deve solo decidere se vuole aggiungervi le lesioni orali e interne. Altri mezzi per rendere più sopportabile la detenzione sono il vino e la droga. Accanto a queste forme individuali di resistenza, i proletari più capaci e politicamente coscienti cercano di ricostruire trame di solidarietà, di comunicazioni interne e con l’esterno, di denuncia. E poi, anche senza rivolte di massa, ci sono spesso proteste sui tetti, rifiuto di rientrare in cella, tentativi di evasione. Abbiamo sostanzialmente delineato una quantità di ipotesi di comportamento contrastanti con l’ordine dell’istituzione. La maggioranza sono ipotesi non politiche, ma sempre di reazione al sistema carcerario. Il detenuto, quindi, non è mai colpevole, è la brutalità del carcere che lo spinge ad atti apparentemente irresponsabili. Evidentemente l’istituzione fa il ragionamento opposto e punisce ogni trasgressione al suo ordine con la stessa violenza. Questo vogliamo sottolineare:
- a) il carcere non fa distinzione fra comportamenti politici e non;
- b) non c’è proporzione fra violazione dell’ordine e pena, la pena è sempre massima.
Signori giudici e compagni, queste cose non succedono in Cile, ma a Milano, nel cuore della civiltà del capitale e della maturità operaia. Basta un niente per essere trasferiti, abbandonare gli amici, perdere ogni rapporto coi parenti, perdere il pacco e i colloqui, fare un viaggio che non stiamo a descrivere. Quando in aprile è stata seminata ad arte la voce (assolutamente infondata) della rivolta, la direzione ne ha approfittato per fare centinaia di trasferimenti, spesso preceduti da pestaggi indiscriminati; apparentemente senza motivo, in realtà per instaurare un clima di tensione e spezzare anche solo i legami di amicizia. Abbiamo letto con sorpresa che nel ’70 erano state allontanate dalle celle di punizione le squadre di picchiatori. Nel 75 sono più attive che mai. Alle celle si va anche per una mancanza lievissima. Sono buchi senza luce, coi topi, col bugliolo che le infetta, senza acqua. Il detenuto è privato di tutto, non può leggere, non può lavare il recipiente dove mangia, non può fumare, ha un’ora d’aria in una gabbia di pochi metri, ha il letto di legno e coperte luride. I pestaggi sono quotidiani. Una squadra di sbirri sadici e frustrati irrompe nella cella (quando non comincia già accompagnando il detenuto giù per le scale), gli butta una coperta sulla testa e si sfoga nel massacro. Spesso la vittima è tenuta poi a lungo in isolamento, perché non possa mostrare le lesioni riportate. I nomi delle guardie picchiatori sono noti, tutta la gerarchla del carcere ne è perfettamente informata, consenziente, mandante. I pochi che hanno avuto il coraggio di denunciarlo sono stati trasferiti o subiscono gravi ricatti. In altri casi di resistenza, ad assoluta discrezionalità del potere carcerario, il detenuto è messo in manicomio. Siamo certi che tutti sanno cosa significa. Quando abbiamo scritto delle raffiche di mitra, pensavamo ai carceri italiani in generale, all’abitudine ormai affermata di sparare sui detenuti che protestano sui tetti. Non pensavamo a San Vittore in particolare. Pochi giorni fa hanno sparato anche qui. Il carcerato che si stava arrampicando sui tetti, pur non colpito, è precipitato riportando gravi fratture. Che risultato si propone l’istituzione con un uso così intenso della violenza? Evidentemente la paura del nemico è altrettanto intensa. I suoi interessi nello sfruttamento del lavoro dei detenuti, nella vendita a prezzi di monopolio, nel clientelismo, sono altissimi e minacciati dalla ribellione ad una situazione disperata e contrastante con tutti i valori apparenti della società borghese. Incapace, per vari motivi, di una soluzione di ricambio, il potere ripiega sul piccolo riformismo e sulla grande violenza. Non aspetta a colpire i punti alti di una resistenza formata, ma tende a isolare tra loro e schiacciare i detenuti subito, alla base, forsennatamente. Il giudice che condanna sa tutto questo, è complice. Non rispetta la legge, perché non decide la custodia e la rieducazione, ma lo sfruttamento, le sevizie, un periodo di vita di cui non sono prevedibili né l’esito né la scadenza. Certo è l’odio totale, inestinguibile, organizzabile e organizzato. Compagni, il carcere non contrasta con la crudeltà del capitale, ma con la forza attuale del proletariato. Le organizzazioni operaie si diano carico di questo problema. Quanto a noi, non deleghiamo certo i rimedi agli avvocati. Non abbiamo paura a ricostruire la nostra solidarietà di detenuti, ad opporci con la nostra violenza, adeguatamente organizzata, alla brutalità del sistema.
Movimento rivoluzionario dei detenuti S. Vittore Milano
da «Rosso. Giornale dentro il movimento», 18 ottobre 1975, n. 2
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