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Il furto della Gioconda

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Vincenzo Peruggia era originario di Trezzino, un paese del nord della provincia di Varese. Il padre Giacomo era muratore mentre la madre Celeste si occupava dei lavori domestici e dei cinque figli: quattro maschi e una femmina.

Appreso in giovane età il mestiere di imbianchino e verniciatore, seguì per lavoro il padre a Lione nel 1897 per poi emigrare a Parigi nel 1907. Assunto dalla ditta del signor Gobier, venne mandato al Museo del Louvre con il compito di pulire quadri e ricoprirli con cristalli e compì il suo furto la mattina del 21 agosto 1911. Il 5 giugno 1914 venne processato dal tribunale di Firenze, fu riconosciuto colpevole con le attenuanti e condannato a un anno e quindici giorni di prigione per furto aggravato. Questa pena fu ridotta in appello il 29 luglio a sette mesi e otto giorni di reclusione. Una volta scarcerato partecipò alla prima guerra mondiale e dopo la battaglia di Caporetto finì in un campo di prigionia austriaco. Dopo la fine della guerra il 26 ottobre 1921 si sposò con Annunciata di quindici anni più giovane. Tornò in Francia utilizzando un espediente: sui documenti per l’espatrio sostituì Vincenzo con Pietro, suo secondo nome. Si stabilì a Saint-Maur-des-Fossés, periferia di Parigi dove il 22 marzo 1924 nacque la sua unica figlia, Celestina, che ricordava come in paese da piccola la chiamassero “Giocondina”, deceduta il 10 marzo 2011. Peruggia morì l’8 ottobre 1925 a Saint-Maur-des-Fossés a causa di un infarto e fu sepolto nel cimitero Condé.

Il furto avvenne verso le sette del mattino di lunedì 21 agosto 1911, giorno di chiusura del Louvre. Peruggia entrò nel museo attraverso la porta Jean Goujon usata di frequente dagli operai e si diresse al Salon Carré senza che alcuna persona si accorgesse della sua presenza. Dopo aver staccato il quadro dalla parete si diresse verso la scaletta della sala dei Sept Mètres liberandosi della cornice e del vetro. Giunto in un cortile interno poco frequentato si servì della giacca che indossava per avvolgere il quadro. Uscito dal museo senza essere fermato, si fece riportare a casa da una vettura, dove nascose la Gioconda. Dovendo tornare al lavoro per giustificare il ritardo disse di essersi ubriacato il giorno precedente e di soffrirne ancora le conseguenze. Poiché la stanza nella quale viveva era molto umida, temendo che l’opera potesse danneggiarsi, Peruggia la affidò al compatriota Vincenzo Lancellotti, che abitava nello stesso stabile. Trascorso un mese, dopo aver realizzato una cassa in legno nella quale custodire il dipinto, lo riprese e lo tenne con sé.

Appurato il furto la mattina dopo, vennero bloccate le uscite, perquisiti i visitatori e si perlustrò l’intero museo. Si scoprì che una porta d’uscita era stata forzata ed era priva di pomello. Essendo quell’uscita frequentata dagli operai la gendarmeria pensò che il ladro si fosse mescolato a loro o fosse egli stesso un lavoratore, pertanto tutto il personale stabile venne interrogato. Nel frattempo fu lanciato un appello ai cittadini di Parigi e un impiegato riferì di aver notato un uomo che si allontanava dal Louvre il lunedì mattina e gettava un oggetto in un fossato vicino alla strada; lì fu ritrovato il pomello mancante. Si annunciò una ricompensa di venticinquemila franchi per chi avesse dato informazioni valide e intanto il posto lasciato vuoto dalla Gioconda sulla parete del Louvre fu preso momentaneamente da un dipinto di Raffaello, il Ritratto di Baldassarre Castiglione.

Furono erroneamente arrestati, come possibili complici, due giovani che sarebbero diventati famosi nei campi della scrittura e dell’arte: Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso, i quali però dimostrarono la loro estraneità ai fatti. Dopo aver escluso dalla responsabilità del furto il personale stabile del museo la gendarmeria si concentrò su muratori, decoratori e il personale assunto per breve periodo o per uno specifico incarico, tutte persone i cui dati erano riportati sul registro delle commesse. Peruggia venne interrogato e la sua modesta stanza fu sottoposta a un’ispezione che ebbe esito negativo poiché la Gioconda era nascosta in un apposito spazio ricavato sotto l’unico tavolo.

Dovevano passare due anni prima che la Gioconda tornasse al ‘suo’ posto. Nell’autunno del 1913 il collezionista d’arte fiorentino Alfredo Geri decise di organizzare una mostra nella sua galleria chiedendo ai privati, tramite un annuncio sui giornali, di prestargli alcune opere. Egli ricevette da Parigi una lettera nella quale veniva proposta la vendita della Gioconda a patto che il capolavoro tornasse in Italia e fosse lì custodito. La lettera inviata da Vincenzo Peruggia era firmata dal fittizio Monsieur Léonard V. Consigliatosi con Giovanni Poggi, direttore della Regia Galleria di Firenze, Geri fissò un incontro con Monsieur Léonard l’11 dicembre 1913 in un albergo di Firenze. Si presentò con il direttore della galleria che dopo aver visto il quadro lo prese in custodia per esaminarlo. Peruggia fu arrestato il giorno seguente dai carabinieri, i quali lo prelevarono direttamente dalla sua stanza d’albergo.

Ma quali erano le motivazioni che spinsero Vincenzo al clamoroso gesto? Alcuni hanno ipotizzato un furto su commissione di un truffatore argentino, che ne avrebbe volute vendere sei copie agli statunitensi. In realtà Peruggia affermò sempre di aver compiuto il furto per patriottismo in quanto la visione su un opuscolo del Louvre di quadri italiani portati in Francia da Napoleone Bonaparte provocò in lui un senso di vendetta: voleva restituire all’Italia almeno uno di quei dipinti, non importava quale. Inizialmente aveva pensato alla Bella Giardiniera, ma le dimensioni esagerate del quadro lo avevano dissuaso. In realtà la Gioconda non fece mai parte del bottino di guerra napoleonico: infatti fu portata in Francia dallo stesso Leonardo dove ne è attestata la presenza fra le collezioni reali già dal 1625.

Insomma: ladro o patriota? Sta di fatto che giunto di fronte al tribunale, come abbiamo detto la condanna fu estremamente lieve ed anzi, non appena pronunciata, di fatto Vincenzo fu immediatamente liberato e, uscendo dal carcere, un gruppo di studenti che lo attendeva gli consegnò a nome di tutti gli italiani a titolo di ringraziamento la cifra di 4.500 lire fonte di una colletta che aveva visto una notevole adesione.

Guarda “La storia del FURTO della GIOCONDA“:

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