Note del sesto anno | Donne all’attacco
Note del sesto anno
Pubblicato il 4 aprile 2008 da rosso
Ricerca di una pratica di lotta
Note del sesto anno
Da sei anni ormai è cominciata la nostra storia nuova, quella che vogliamo costruire noi donne, sui nostri problemi, per la nostra liberazione, a modo nostro.
Sei anni fa, ancora sull’onda delle lotte del ’68-’69, iniziammo a conoscere il femminismo, a praticare l’autocoscienza, ad incontrarci tra donne per capire la nostra oppressione, per scoprirla in tutta la sua dimensione storica politica quotidiana e personale. E fu una grande scoperta, fu l’entusiasmo per la liberazione di tutte le energie, fu la totale disponibilità a trasformarci, a cambiare noi e il mondo che ci sta attorno, a scoprire una nuova pratica politica, a distruggere schemi, ruoli, istituzioni, leaderismi, tutti i meccanismi della soggezione fisica psicologica ed economica che per secoli ci hanno castrato.
Dopo l’isolamento e le divisioni, creammo la fiducia reciproca, dopo essere state per secoli le escluse dalla storia, prendemmo coscienza che solo noi possiamo portare il mondo fuori dalla preistoria.
Il femminismo è la possibilità concreta di determinare e trasformare la nostra vita, di determinare, attraverso la nostra unione e lotta le modalità e i tempi della distruzione totale di tutto ciò che ci opprime.
Il piccolo gruppo d’autocoscienza non è stata una pensata teorica a cui il movimento si è uniformato diligentemente; è stata invece la necessità per tutte le donne di unirsi le une alle altre, di parlare di noi tra noi per strappare ad uno ad uno tutti i veli mistificatori sotto i quali millenni di patriarcato avevano sepolto le donne, metà dell’umanità.
Il parlare tra noi è stato ed è prendere coscienza delle forme specifiche: attraverso cui si realizza l’oppressione delle donne nella società patriarcale, è stato ed è l’atto attraverso cui il movimento femminista è nato, esiste e cresce.
L’autocoscienza è l’esigenza di migliaia di donne di esprimersi politicamente, di far politica nei modi da loro decisi, di essere soggetti politici. Il piccolo gruppo di autocoscienza è stata la nostra prima esperienza politica autonoma e nello stesso tempo è stato lo strumento con cui migliaia di donne si sono impossessate di un loro linguaggio, di una nuova cultura che le ha messe in grado di aggredire e smascherare l’ideologia maschilista dei ruoli sociali, della famiglia, del matrimonio e della maternità; che le ha messe in grado di denunciare l’esistenza di un lavoro non pagato, il lavoro domestico; l’isolamento nelle case che porta alla «isteria» e alla «nevrosi»; una sessualità non espressa, anzi soppressa dalla sessualità dominante genitale e maschile.
L’autonomia del movimento è sempre stato il nostro presupposto: non aver altra scadenza che i propri bisogni; la politica dell’esperienza è pratica dei propri bisogni per trasformarli in desideri; autonomia dalla politica istituzionalizzata, dalle scadenze di altri o altre organizzazioni, fondare una nuova politica, una nuova pratica che non conosce deleghe e mediazioni, capi e «interessi generali» che non siano gli interessi di tutte noi.
L’esperienza dell’autocoscienza è diventata ormai patrimonio di migliaia di donne, si è quantitativamente diffusa e da anni ormai è parte del nostro vissuto. I piccoli gruppi di presa di coscienza sono stati il veicolo di diffusione di una profonda analisi dell’oppressione femminile, non solo: sono stati anche l’ambito da cui sono uscite esigenze nuove di espressione e di organizzazione che hanno rivelato la insufficienza di questo strumento.
Insufficienza perché?
Perché l’autocoscienza, se da un lato dava a tutte noi una lucida comprensione della nostra oppressione, dall’altro ci lasciava isolate a gestirci un quotidiano sempre più contraddittoriamente odiato.
In quel momento, che è coinciso con una grossa crisi personale di molte di noi e con la crisi dei piccoli gruppi, in quel momento il movimento non ha saputo dare uno sbocco positivo alle svariate esigenze che dai piccoli gruppi stessi uscivano ed è approfondita una differenziazione di pratiche che da tempo viveva al nostro interno, arrivando all’isolamento e alla contrapposizione di varie tematiche che invece il femminismo aveva espresso come totalità della condizione della donna.
L’individuazione di uno sfruttamento materiale nel lavoro domestico ha portato ad ipotesi organizzative tipo Lotta femminista (oggi sciolta nei vari Comitati per il salario).
La limitatezza di questa ipotesi è nel considerare le donne solo come «casalinghe», senza porre l’attenzione ai vari aspetti della nostra oppressione, che non è solo economica, ma anche fisica e psicologica.
È il discorso di ritrovare la nostra identità di persone, non solo di lavoratrici salariate, e il discorso di una nuova qualità di vita che queste compagne non fanno. Non ci basta distruggere i vincoli salariali del capitale in quanto ci ritroviamo noi stesse creature del capitale. Anche sulla loro reale pratica vorremmo entrare nel merito: vi ritroviamo la solita logica di gruppo, la riproposizione di strategie a lungo termine e mai invece quello che ci interessa: modificare le nostre condizioni materiali da subito, partendo dai nostri bisogni.
Contemporaneamente si è sempre più radicalizzata un’altra ipotesi di pratica femminista che ha rifiutato, almeno nominalmente, l’organizzazione e l’esterno per approfondire, con la pratica dell’inconscio, l’esperienza iniziata con l’autocoscienza, sviluppando l’analisi del rapporto tra donne, dell’isteria, delle nevrosi, dei sintomi del corpo e della sua espressività.
Questa pratica spesso si trasforma in intimismo, in disperazione, autocommiserazione e autodistruzione. Questa valanga di angoscia non può essere spostata né ghettizzandoci, né tanto meno continuando a cercare dentro di noi l’origine di tutti i mali, senza distruggere l’esterno che ci obbliga in continuazione ad interiorizzare violenza ed oppressione.
L’inconscio modella il corpo e condiziona il nostro agire, d’accordo; liberare il nostro corpo è ancorarsi alla materia, d’accordo; ma è materiale anche l’atto della vendita del nostro corpo che ogni giorno, operaia, puttana o casalinga, dobbiamo fare per sopravvivere. Liberare il nostro corpo deve significare liberarlo dalla schiavitù del lavoro, gigantesca barriera che incontriamo sulla nostra strada, che ci limita nel definire i tempi, i mezzi e i luoghi della nostra liberazione. La psicologia «femminile» della rassegnazione e dell’autocommiserazione è lo sbocco più semplice per le donne abituate da millenni a vivere come «naturale» la loro condizione subalterna. È questo meccanismo che maggiormente abbiamo interiorizzato, che dobbiamo spazzare via e che ritroviamo anche dopo anni di pratica dell’inconscio.
Queste, separazioni e polarizzazioni di tematiche sono il motivo per cui non ci si può identificare in alcuna di queste pratiche perché lottiamo contro le separazioni che da sempre abbiamo vissuto, tra noi ed il nostro corpo, tra noi e la nostra mente, tra noi e il mondo esterno; perché vogliamo individuare, oltre che problemi generali, anche forme di lotta nostre; perché vogliamo fare autocoscienza e contemporaneamente riappropriarci di tutto ciò di cui siamo state espropriate (spazi, luoghi, corpo, emozioni oggetti ); perché vogliamo realizzare subito i nostri bisogni e trasformare i bisogni in soddisfazioni.
Vogliamo tutto e vogliamo creare le condizioni per averlo, perché siamo anche coscienti del fatto che c’è un capitale con tutti i suoi strumenti, stato e istituzioni, che ce lo impediscono, nella misura in cui vogliono obbligarci in ruoli prefissati, ad una missione altruistica che è solo sfruttamento, all’ideologia del dovere, del sacrificio, della rassegnazione.
Contro tutto questo vogliamo essere capaci di tanta violenza da distruggere tutto ciò che ci opprime, per realizzare la nuova storia della nostra felicità e del nostro godimento.
da «Rosso Giornale dentro il movimento» – anno III – n. 8 nuova serie – 24 aprile 1976
fonte “Rosso spazioblog”
Guarda “La lotta non è finita“:
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