Engels: Recensione de “Il Capitale”
28 novembre 1820
Frederick Engels è nato il 28 novembre 1820; lo ricordiamo pubblicando queste due recensioni de: “Il Capitale” di Karl Marx”
I. Demokratisches Wochenblatt, n. 12, 21 marzo 1868
Dacché esistono capitalisti e operai mai è apparso libro che per gli operai fosse rilevante quanto questo. Il rapporto fra capitale e lavoro, il cardine su cui gira tutto il nostro odierno sistema sociale, è ivi per la prima volta spiegato in modo scientifico e con una profondità e un acume quali erano possibili solo a un tedesco. Benché gli scritti di un Owen, di un Saint-Simon, di un Fourier siano preziosi e tali resteranno, solo un tedesco poteva raggiungere la vetta da cui l’intero campo dei moderni rapporti sociali appare sì chiaramente, come l’osservatore sulla cima più alta domina il paesaggio montuoso sottostante.
L’economia politica finora ci ha insegnato che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e la misura di ogni valore, onde due oggetti la cui produzione sia costata un eguale tempo di lavoro possiedono pure lo stesso valore; e, poiché in media solo valori uguali sono scambiabili fra di loro, allora pure tali due oggetti devono esser scambiati fra loro. Ma l’economia politica insegna pure che esiste una sorta di lavoro accumulato chiamato capitale; e che tale capitale aumenta di cento e di mille la produttività del lavoro vivo mediante risorse in esso contenute, esigendo perciò un certo indennizzo chiamato profitto o guadagno. Come è noto, nella realtà ciò si traduce in un crescente aumento dei profitti del lavoro accumulato, in un crescente aumento dei capitali dei capitalisti, in una crescente riduzione del salario del lavoro vivo, in un crescente aumento della massa degli operai sempre più povera. Come si può risolver tale contraddizione? Come potrebbe ai capitalisti restar un profitto se l’operaio ricevesse il pieno valore del lavoro che immette nel suo prodotto, il che avverrebbe se fossero scambiati solo valori uguali? Come possono inoltre esser scambiati valori uguali, come può l’operaio ricever il pieno valore del suo prodotto se tale prodotto è diviso fra lui e il capitalista come dicono certi economisti? L’economia finora si è arenata ante tale contraddizione (scrivendo balbettando frasi vaghe e vuote). Pure i critici socialisti dell’economia hanno saputo solo esibir la contraddizione senza risolverla. Poi Marx ha capito tutto seguendo il processo genetico di tale profitto fino alle sue origini.
Nell’esplicazione del capitale, Marx parte dal semplice e noto fatto che i capitalisti valorizzano il loro capitale tramite lo scambio: comprano merce per il loro denaro, poi la vendono per più denaro di quello costato a loro. Es. Un capitalista compra del cotone per 1000 talleri, poi lo vende a 1100 talleri, così guadagna 100 talleri. Marx chiama plusvalore tal eccedenza di 100 talleri rispetto al capitale iniziale. Donde nasce tal plusvalore? Gli economisti pongono che siano scambiati solo valori uguali, e in teoria è proprio così, onde il plusvalore non può venir dall’acquisto del cotone e la sua rivendita, come né può venir convertendo banconote in monete né viceversa: così non si diventa né più ricchi né più poveri. Né il plusvalore può nascere dal fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, o i compratori le comprino al di sotto del loro valore, perché ognuno è ora compratore ora venditore, onde si ristabilirebbe l’equilibrio. Né il plusvalore può venir dal fatto che compratori e venditori si imbrogliano a vicenda, poiché ciò non creerebbe alcun nuovo valore o plusvalore, bensì distribuirebbe diversamente il capitale disponibile fra i capitalisti. Benché il capitalista acquisti le merci al loro valore e al loro valore le venda, ricava più capitale di quanto ne ha immesso. Come accade ciò?
Nelle attuali condizioni sociali, sul mercato delle merci, il capitalista trova una merce che ha la peculiare qualità: il suo uso è una fonte di NUOVO valore, creazione di nuovo valore: questa merce è la forza-lavoro.
Qual è il valore della forza-lavoro? Il valore di ogni merce è misurato dal tempo richiesto alla sua produzione. La forza-lavoro esiste nella forma dell’operaio vivo, il quale ha bisogno di una discreta somma di mezzi di sussistenza per sé e la propria famiglia, la quale assicura la continuità della forza-lavoro dopo la sua morte. Ergo il valore della forza-lavoro è il tempo di lavoro necessario alla produzione di tali mezzi di sussistenza. Il capitalista lo paga ogni settimana, e compra così l’uso di una settimana di lavoro dell’operaio. Fin qui i signori economisti concorderanno più o meno con noi sul valore della forza-lavoro.
Il capitalista allora fa lavorare il suo operaio. Entro un certo tempo l’operaio avrà fornito la quantità di lavoro rappresentata nel suo salario settimanale. Se il salario settimanale di un operaio rappresenta tre giorni di lavoro, allora l’operaio che inizia il lunedì, la sera di mercoledì ha reintegrato al capitalista l’intero valore del salario pagato. Ma allora l’operaio cessa di lavorar? No. Il capitalista ha comprato una settimana di lavoro, e l’operaio deve lavorar pure negli ultimi tre giorni della settimana. Tale pluslavoro dell’operaio oltre il tempo uopo alla reintegrazione del suo salario è la fonte del plusvalore, del profitto, dell’incessante gonfiarsi del capitale.
Non si dica che è arbitrario il presupposto che l’operaio recuperi in tre giorni il salario ricevuto, e che i restanti tre giorni lavori per il capitalista. Che egli impieghi tre giorni esatti a reintegrar il salario o due o quattro, qui è affatto indifferente, e varia pure a seconda delle circostanze. La cosa principale è che: il capitalista ricava del lavoro che non paga oltre al lavoro che paga, e ciò non è un presupposto arbitrario: infatti se il capitalista ottenesse dall’operaio solo tanta quantità di lavoro quanto gliene paga, allora chiuderebbe la sua officina, poiché sarebbe nullo il profitto.
Ecco la soluzione di tutte quelle contraddizioni. L’origine del plusvalore (di cui il profitto del capitalista costituisce una parte notevole) è ora affatto chiara e naturale. Il valore della forza-lavoro (la sussistenza) è pagato, ma tale valore è assai più parvo del valore che il capitalista ricava dalla forza-lavoro, e la differenza, il lavoro non pagato, è proprio la parte del capitalista (o meglio della classe dei capitalisti). Infatti pure nel precedente esempio il profitto che il commerciante di cotone ricava dal suo cotone deve consister in lavoro non pagato (se i prezzi del cotone non sono saliti). Il commerciante deve aver venduto a un industriale cotoniero, il quale sa ricavar dal suo prodotto un altro guadagno oltre a quei 100 talleri, onde divide con lui il lavoro non pagato da lui intascato. Tale lavoro non pagato è in generale mantiene tutti i membri non lavoranti della società. Con esso si pagano le tasse statali e comunali, in quanto colpiscono la classe capitalista, le rendite fondiarie dei proprietari terrieri, etc. Su di esso poggia l’intero ordinamento sociale vigente.
Inoltre sarebbe insulso supporre che il lavoro non pagato sia nato solo nella situazione attuale, in cui la produzione è esercitata da un lato dai capitalisti e dall’altro dai lavoratori salariati. Anzi. In tutte le epoche la classe oppressa ha dovuto fornire-lavoro non pagato. Durante tutta l’epoca in cui la schiavitù era la forma predominante dell’organizzazione del lavoro, gli schiavi hanno dovuto lavorare molto più di quanto fosse loro reintegrato sotto forma di mezzi di sussistenza. Sotto il regime della servitù della gleba e fino all’abolizione delle corvées per i contadini, era lo stesso; in questo caso appare in modo tangibile pure la differenza fra il tempo che il contadino lavora per la sua sussistenza e il pluslavoro pel signore, poiché quest’ultimo è fatto separatamente dal primo.
La forma ora è mutata, ma la sostanza è rimasta, e finché «una parte della società ha il monopolio dei mezzi di produzione, l’operaio (libero o schiavo) deve aggiungere al tempo di lavoro necessario alla sua sussistenza pure del tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sussistenza per il possessore dei mezzi di produzione. (Marx:Capitale, Vlll, 2).
“II. Demokratisches Wochenblatt, n. 13, 28 marzo 1868
Nel precedente articolo si è visto che ogni operaio occupato dal capitalista compie un duplice lavoro: per una parte del suo tempo di lavoro reintegra il salario anticipatogli dal capitalista (Marx chiama lavoro necessario tale parte del lavoro); ma dopo deve ancora seguitare a lavorare, e durante questo tempo produce il plusvalore per il capitalista, di cui il profitto costituisce una parte notevole (tale parte del lavoro è chiamata pluslavoro).
Se l’operaio lavorasse tre giorni alla settimana per reintegrare il suo salario e tre giorni per la produrre il plusvalore per il capitalista, allora, su dodici ore di lavoro al giorno, ne lavorerebbe sei al giorno per il suo salario e sei per la produzione di plusvalore. Dalla settimana si possono ricavare solo sei giorni (o solo sette ricorrendo alla domenica) ma da ogni giornata si possono ricavare sei, otto, dieci, dodici, quindici ore di lavoro e più. L’operaio ha venduto una giornata lavorativa al capitalista per il suo salario giornaliero. Ma cos’è una giornata lavorativa? Otto ore o diciotto?
Al capitalista giova che la giornata di lavoro sia estesa il più possibile. Più è lunga la giornata di lavoro, più plusvalore l’operaio produce. L’operaio ha l’esatto sentore che ogni ora che lavora al di là della reintegrazione del salario gli sia sottratta illegittimamente; egli deve sperimentare sulla sua pelle cosa significhi lavorare troppo a lungo. Il capitalista lotta per il proprio profitto, l’operaio per la propria salute, per alcune ore di riposo al giorno, per poter vivere da uomo (oltre a lavorare, dormire e mangiare). Bada. Non dipende affatto dalla buona volontà dei singoli capitalisti lasciarsi coinvolger o no in tale lotta, perché la concorrenza costringe pure il più filantropo capitalista a seguir i suoi colleghi adottando un orario di lavoro della stessa durata di quello da essi fissato.
La lotta per la regolazione della giornata lavorativa va dalla prima comparsa storica degli operai liberi fino ai giorni nostri. In diverse industrie vigono diverse giornate di lavoro tradizionali; ma nella realtà di rado esse sono rispettate. Si può effettivamente parlare di una normale giornata di lavoro solo laddove la legge stabilisca la giornata di lavoro & vigili sul suo rispetto. E ciò finora accade quasi solo nei distretti industriali inglesi. Qui è stata stabilita la giornata lavorativa di 10 ore (10 ore e ½ per cinque giorni, 7 ore e ½ il sabato) per tutte le donne e per i ragazzi dai 13 ai 18 anni, e poiché senza di loro gli uomini non possono lavorare, pure essi rientrano nella giornata di lavoro di dieci ore. Questa legge gli operai di fabbrica inglesi l’hanno conquistata con un’annosa perseveranza, con la lotta più dura e ostinata coi fabbricanti, con la libertà di stampa, con il diritto di coalizione e di riunione e con un abile uso delle fratture nella stessa classe dominante. Essa è divenuta il palladio degli operai inglesi, è stata estesa man mano a tutti i grandi settori industriali, e l’anno scorso a quasi tutte le imprese (almeno a tutte quelle in cui lavorano donne e bambini).
Nel Capitale c’è tanto materiale sulla storia della regolamentazione legale della giornata di lavoro in Inghilterra. Pure il prossimo «Parlamento della Germania settentrionale» dovrà discutere su un ordinamento professionale, e con esso sulla regolamentazione del lavoro di fabbrica. Speriamo che niun dei deputati imposti dagli operai tedeschi vada a discuter tale legge senza essersi prima familiarizzato col libro di Marx. Molte cose si possono ivi imporre.
Le divisioni nelle classi dominanti giovano in Germania più di quanto giovassero in Inghilterra, poiché il suffragio universale costringe le classi dominanti a gareggiar per ottener il favore degli operai. Col suffragio universale, quattro o cinque rappresentanti del proletariato sono una potenza, se sanno sfruttar la loro posizione e se anzitutto sanno di cosa si tratta (il che i borghesi non sanno). E il Capitale offre loro già pronto il materiale a tal scopo.
Sorvoliamo una serie di altre belle ricerche di interesse più teorico, e parliamo solo dell’ultima sezione: l’accumulazione del capitale. Ivi si prova che il metodo di produzione capitalistico (attuato dai capitalisti da un lato e dagli operai salariati dall’altro) riproduce sempre sia al capitalista il suo capitale sia la miseria degli operai; le cose sono disposte cosicché vi siano sempre capitalisti da un lato (i proprietari di tutti i mezzi di sussistenza, di tutte le materie prime e di tutti gli strumenti di lavoro) e dall’altro la gran massa degli operai, che è costretta a vendere a questi capitalisti la loro forza-lavoro in cambio di una quantità di mezzi di sussistenza che nel migliore dei casi basta appena a mantenerli in grado di lavorar e ad allevar una nuova generazione di proletari capaci di lavorar. Ma il capitale non può solo riprodursi: deve necessariamente aumentare e ingrandirsi: e così aumenta il suo potere sulla classe operaia nullatenente. E com’esso stesso è riprodotto su scala sempre maggiore, cosi il moderno modo di produzione capitalistico riproduce parimenti su scala sempre maggiore, in numero sempre crescente, la classe degli operai nullatenenti. «L’accumulazione del capitale riproduce il rapporto capitalistico su scala allargata, più (o maggiori) capitalisti ad un polo e più salariati all’altro […]. Ergo l’accumulazione del capitale è l’aumento del proletariato» [Capitale, XXIII].
Ma poiché (col progresso delle macchine, coi miglioramenti nell’agricoltura, etc.) servono sempre meno operai per produrre un’uguale quantità di prodotti, e poiché tale perfezionamento, cioè tale render eccedenti gli operai, cresce più rapidamente della stessa crescita del capitale, cosa ne sarà di tale crescente numero di operai? Essi costituiscono un esercito industriale di riserva, che è indispensabile alla classe dei capitalisti nei periodi di affari particolarmente vivaci (come è evidente in Inghilterra), benché nei periodi di affari cattivi o mediocri è pagato sotto il valore del suo lavoro ed è occupato irregolarmente o va a carico dell’assistenza pubblica. In ogni caso, l’esercito industriale di riserva serve a infranger la resistenza degli operai regolarmente occupati e a tener bassi i loro salari. «Più è la ricchezza sociale […] più è la sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito industriale di riserva. Ma più sarà tale esercito di riserva rispetto all’esercito operaio attivo (regolarmente occupato) più massiccia sarà la sovrappopolazione consolidata: gli strati operai la cui miseria sta in rapporto inverso al tormento del loro lavoro. Infine maggiore lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva, maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica» [XXIII, 4].
Ecco alcune delle leggi fondamentali del sistema sociale moderno, capitalistico, provate in modo rigorosamente scientifico (e gli economisti ufficiali evitano perfino di tentar una confutazione). Ma con ciò è detto tutto? No. Con quanto acume Marx esibisce i lati negativi della produzione capitalistica, con altrettanta chiarezza prova che tale forma sociale era uopo per sviluppar le forze produttive della società a un livello che renderà possibile uno sviluppo umano eguale e degno per ogni membro della società. Per questo scopo tutte le forme sociali passate erano troppo povere. Solo la produzione capitalistica crea le ricchezze e le forze produttive a ciò necessarie, ma parimenti essa crea nelle masse operaie oppresse la classe sociale che sempre più è costretta a esiger l’uso di tali ricchezze e forze produttive per tutta la società, anziché per una classe monopolistica come accade oggi.
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