Francesco Calcagno – Nel segno della rivolta
27 dicembre 1943
Sembrava una normale mattinata di guerra, quella del 27 dicembre 1943 e le donne che abitavano alla Strà, stavano scendendo in città a portare il latte fresco, com’era d’abitudine.
Tuttavia, c’era qualcosa che non andava: poche ore prima avevano udito colpi di mitraglia provenire dal vicino Forte della Madonna degli Angeli e tutto intorno c’era uno strano movimento, poi videro passare per quella strada un corteo di auto e moto che stavano scortando un carro funebre verso Savona. Poco dopo, notarono che quest’ultimo aveva lasciato una lunga scia di sangue sul suo tragitto.
Un manifesto murale del Tribunale Militare Speciale poco dopo annunciava che erano stati passati per le armi sette detenuti politici antifascisti, tra cui Francesco Calcagno di 26 anni.
Il giovane era uno degli otto ‘precursori’ della lotta partigiana che si erano riuniti sui monti di Roviasca al Teccio del Tersé per organizzare la Resistenza ai nazifascisti.
‘Checco’, così per i compagni, aveva fatto il contadino ed era uno stimato operaio, insofferente alle ingiustizie sociali e desideroso di vivere in un mondo più libero e democratico. Era stato esonerato dal servizio della Marina Militare su richiesta della direzione dello stabilimento dove lavorava come tracciatore e, nel gruppo del Tersé, si era presto assunto, per le sue capacità e per i suoi modi espressivi, chiari e convincenti, il ruolo di “istruire i più giovani agli ideali di libertà e democrazia”.
Calcagno venne catturato dai nemici durante il rastrellamento del 19 dicembre ’43: sorpreso alle spalle e arrestato, venne condotto nella caserma dei Carabinieri di Quiliano, dove passò l’intera notte; trasferito al comando tedesco di Savona il giorno dopo, fu interrogato e torturato per tre giorni finché giovedì 23, fu trasportato nelle carceri di Sant’Agostino.
Francesco non poteva saperlo, ma quella stessa sera sarebbe avvenuto il fatto per cui verrà condannato alla pena capitale: alle 21 alla Trattoria della Stazione di via XX Settembre, l’esplosione di una bomba causò il ferimento dello squadrista Bonetto – noto per le sue spedizioni punitive – e di altri quattro camerati. In mancanza dei veri colpevoli, i fascisti indicarono sette nominativi come ‘mandanti morali’ dell’attentato.
Si trattava degli avvocati Astengo e Wuillermin, di Carlo Rebagliati, Arturo Giacosa, Aurelio Bolognesi e dei giovani Aniello Savarese e Francesco Calcagno.
Il Tribunale Militare che si era riunito in tutta fretta nei locali della caserma della Milizia in Corso Ricci, decise, in una seduta straordinaria e irregolare senza rispettare le regole per la sua composizione, senza nominare un collegio di difesa di imputi estranei al fatto, senza procedere a interrogatori regolari, di emettere una sentenza scontata. “Condanna a morte mediante fucilazione. Esecuzione immediata”.
All’alba del giorno che passerà alla storia come la data del ‘Natale di Sangue’ o ‘Eccidio della Madonna degli Angeli’, i sette condannati ignari della loro sorte, furono fatti salire sul torpedone grigio scuro della Questura e condotti fino al piazzale del forte della Madonna degli Angeli. Qui, gli antifascisti vennero fatti scendere e, coi ferri ai polsi e incatenati alle caviglie, disposti accanto al muro di cinta, davanti al quale prese posizione il plotone d’esecuzione, composto da ben quaranta militi, reclutati nei riformatori di Cairo e Finalborgo e agli ordini del capo manipolo Pietro Messa di Ceriale.
Impartito l’ordine di far fuoco, ci furono tre sventagliate di mitra, a cui tuttavia Francesco Calcagno resistette: toccherà al seniore della milizia Rosario Previdera di Catania – un uomo piccolo di statura e di pelle scura, che calzava estate e inverno un paio di sandali e che si distinse per la ferocia e l’abilità di segugio nella caccia agli antifascisti – dargli il colpo di grazia.
Per oltre un’ora le salme rimasero addossate al muro del forte, poi caricate una sull’altra, su un furgone funebre che partì sovraccarico alla volta di Zinola, sbandando più volte nella ripida discesa verso la Rocca. Arrivato a destinazione verso mezzogiorno i corpi furono gettati sul nudo pavimento di una stanzetta. Soltanto il giorno dopo verranno consegnati alle famiglie.
Dopo la tragica morte di Calcagno, iniziò lo scioglimento del gruppo dei partigiani di Roviasca che, dopo un iniziale momento di sbandamento, continueranno la lotta civile e contribuiranno a formare, nel marzo 1944, il primo distaccamento garibaldino che porterà il nome dell’amico ‘Francesco Calcagno’. “Checco”, un amico, uno dei primi.
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