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La statua per Denmark Vesey

 

Un paio di settimane fa a Charleston, seconda città del South Carolina, un gruppo di attivisti ha inaugurato una statua facendo emergere dal latente oblio una memoria impolverata, che affonda le radici nella storia americana. Sulla persona che l’opera raffigura sono poche le certezze. Polarizzato il campo di interpretazione storiografica. Alcuni la dipingono come un combattente per la libertà e quale precursore delle battaglie per i diritti civili. Altri come un terrorista. Probabilmente hanno a loro modo entrambi torto. Stiamo parlando di Denmark Vesey. Impiccato nel 1822. Un nero libero che pianificò una delle più grandi rivolte di schiavi e neri nella storia degli Stati Uniti.

Se il genocidio degli indiani continua ad essere un grande rimosso nella memoria collettiva, con la schiavitù invece la “coscienza americana” pare aver fatto maggiormente i conti. Però se guardiamo all’idea che potremmo definire come egemone o consolidata su quel periodo, essa ci rimanda ad una lettura storica assolutamente falsante. Dalla letteratura alla cinematografia, passando per i testi di Storia, la narrazione ed il senso che emergono sono sostanzialmente quelli di masse inermi e docili, liberate dalla violenza schiavista grazie a qualche anima bella abolizionista. E dalla guerra civile, dunque da un gioco di bianchi. Poche e purtroppo grandemente sconosciute le testimonianze sopravvissute che raccontano con sguardo differente la schiavitù. Una storia scritta oggi come se si trattasse di vittime passive. Mentre essa è stata una costante ed attiva resistenza, costellata di insubordinazioni, rivolte, insurrezioni, resistenze e rotte di libertà. Dei pochi episodi riportati dal mainstream si può pensare, cinematograficamente, al film Amistad, di Spielberg. Che tuttavia decide di raccontare quell’episodio soprattutto focalizzandosi sull’epilogo, dentro ai tribunali. Ossia ancora una volta dal punto di vista dei bianchi.

Ma torniamo a Denmark Vesey. E proviamo ad afferrare brevemente questo frammento di una storia altra che come tutte le storie popolari, di classe, dal basso, o come meglio preferiamo definirle, si basa su fonti all’oggi per lo più vaghe, dense di incongruenze, ricche di miti e di tentativi di cancellazione. Di lui sappiamo che nacque attorno al 1767. Forse a St. Thomas, un’isola caraibica ai tempi sotto il controllo danese (a questo probabilmente si deve il suo nome). Comprato da Joseph Vesey, uno schiavista trasferitosi a Charleston poco dopo la rivoluzione americana, acquistò la libertà per 600$ nel 1799 grazie a un colpo di fortuna. Vinse infatti 1500$ alla lotteria cittadina. Denaro che tuttavia non fu sufficiente a riscattare la moglie ed i figli. Negli anni successivi aprì una attività come falegname, che gli garantì uno stile di vita relativamente agiato. Pare avesse sette mogli e una vasta prole. Tuttavia Vesey, dopo una decina d’anni di vita tranquilla, iniziò ad elaborare un piano. Quello che all’epoca venne definito come complotto, congiura, cospirazione. Gli storici divergono significativamente nell’interpretarlo. C’è chi dice che il suo fine fosse liberare i neri (alcune stime ritengono che all’epoca gli schiavi e i neri nell’area fossero oltre 250 mila -contro i circa 20 mila bianchi- per lo più impiegati in piantagioni di cotone). Altri sostengono che volesse ammazzare tutti i bianchi.

Tutti tranne uno. Quello utile a dirigere una nave. Una cosa abbastanza condivisa è infatti che il piano prevedesse come conclusione il salpare verso l’Africa, o più realisticamente verso la vicina Haiti. Qui un paio di decenni prima una vittoriosa rivoluzione nera aveva trionfato. Anche questa vicenda è passata largamente sottotraccia. Perché le due rivoluzioni da ricordare per la Storia sono quelle bianche degli Stati Uniti e della Francia. Le cui truppe “rivoluzionarie” mandate sull’isola per riconquistare la colonia, come racconta C.L.R. James ne “I Giacobini neri”, si trovarono spiazzate di fronte ad un esercito di ex schiavi che combatteva intonando i canti rivoluzionari francesi e reclamando Liberté, Égalité, Fraternité. Ma questa è un’altra storia…

Dicevamo del piano di Denmark. A mio avviso è plausibile che la versione “cattiva” sia anche la più plausibile: lui e gli uomini che aveva radunato volevano agire di notte. Impadronirsi dell’arsenale della città. Uccidere tutti padroni, probabilmente senza risparmiare donne e bambini. Per poi appunto arrivare al porto e salpare. O forse no. Se infatti fossero corrette alcune ipotesi sul numero di persone sulle quali pensava di contare il progetto di rivolta, si tratterebbe di circa 9 mila. Difficilmente trasportabili su una nave. Oppure, come vogliono alcuni storici più edulcorati, il suo intento era quello di un piano un po’ ingenuo per liberare i neri e poi andarsene. Ma la storia non si fa con i se. E in fondo poco importa stabilire Una verità. Ciò che successe è che per una serie di tradimenti il piano venne scoperto. Assieme a decine di seguaci Denmark Vesey verrà catturato e impiccato. Nelle carte del processo, si riporta come assistette impassibile alle testimonianze contro di lui. Quando ebbe la parola, dichiarò che l’insurrezione sarebbe andata avanti. Con i più stretti compagni si promisero di morire in silenzio. E così fecero. Il suo corpo rimase esposto sulla piazza per giorni. La paura che attanagliò i bianchi, impressa per molto più a lungo.

Prima di questo avvenimento c’erano già stati almeno altri quattro tentativi di sollevazione a Charleston (ai tempi la quinta più grossa città del continente) a partire dal 1739, e durante la rivoluzione americana circa 25mila schiavi erano fuggiti con gli inglesi. Ma il fallito piano di ribellione del 1822 lacerò e intimorì particolarmente la Charleston bianca perché a promuoverlo, come abbiamo visto, fu un uomo (descritto dal suo ex padrone come “beauty, alertness and intelligent”) libero. Che aveva scelto di rimanere. Nonostante il mito dell’esodo fosse parte integrante dell’immaginario politico degli schiavi neri. Denmark Vesey d’altronde era immerso ed aveva contribuito ad elaborare un’ideologia che mischiava diverse culture: alla generale attitudine anti-bianca legava la rigida moralità del vecchio testamento; storia degli Israeliti e costumi della religiosità africana s’incontravano assieme alle idee della rivoluzione haitiana e ai discorsi antischiavisti. Parlava della necessità dei neri in lotta, per essere più uniti, di riconoscersi in un unico Dio che predica col gospel, e di questo si proponeva a volte come officiatore, a volte come messia.

Sarebbe bello poter dare ulteriori informazioni su Vesey e la sua trama, ma in un articolo non ci si può dilungare troppo. Ancora più bello sarebbe poter suggerire qualche libro, ma in Italia nulla è stato tradotto su di lui e su questa vicenda storica. L’unica cosa che si può trovare è un’edizione vecchia cinquant’anni in una biblioteca de La Sapienza di Roma. Anyway, apprestiamoci quindi alla conclusione, tornando all’inizio e sviluppando alcune considerazioni.

Sarà ormai chiaro che Denmark Vesel è un personaggio dalle tinte forti. E’ dunque normale che la sua memoria divida. Il dibattito pubblico scatenatosi sull’inaugurazione della statua a Charleston ha polarizzato voci di “destra” (che chiedevano perché a questo punto non fare una statua anche ad altri terroristi e dittatori…) e di “sinistra”. Se sulle prime non ci interessa soffermarci, riprendiamo invece una frase da un articolo di Douglas R. Egerton sul New York Times, che ragiona su “quanto lontano debba ancora viaggiare la società americana prima di poter raggiungere una comprensione adeguata del suo passato”. L’autore del pezzo ricorda a chi ha quali figure di riferimento personaggi come Martin Luther King, quanto sia necessario considerare che nel 1820 “l’unico cammino per la libertà stava nell’affilare la spada” (http://www.nytimes.com/2014/02/26/opinion/abolitionist-or-terrorist.html?_r=0). Il punto è infatti che un sistema come quello della schiavitù di allora era chiaramente non riformabile, solamente abbattibile.

Un’affermazione se vogliamo ormai banale. Cerchiamo allora di problematizzarla, con un rapido sguardo per istantanee agli Stati Uniti di oggi. Nonostante questi rappresentino appena il 5% della popolazione mondiale, detengono una quota del 25% sul totale dei carcerati nel mondo. Poco meno di un americano su trenta è sottoposto al carcere o a forme di custodia cautelare. Il Dipartimento della Giustizia Usa ne conta 7,2 milioni. Di questi la schiacciante maggioranza sono neri e latinos. Pochi giorni fa ricorreva il secondo anno dalla morte di Trayvor Martin, sedicenne nero ucciso per strada in quanto “sospetto” (portavo il cappuccio alzato di una felpa) a colpi di pistola da un poliziotto, George Zimmerman. Il quale è stato assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio colposo. E purtroppo la storia di Trayvor, lungi dall’essere un’anomalia, si ripete con regolare frequenza. Più di 45 milioni di americani sopravvivono grazie al Supplemental Addition Assistance Program. Sostanzialmente dei buoni pasto. A New York, la città più grande del paese, è in corso da anni un programma chiamato Stop and Frisk. Una forma legislativa secondo la quale si può essere arbitrariamente fermati e perquisiti dalla polizia, cosa che accade a circa 700mila persone l’anno, ça va sans dire quasi solo neri e latinos.

Certamente tutto è cambiato, e sono linee sottili e per lo più invisibili quelle che collegano l’oggi all’epoca di Denmark Vesel, duecento anni orsono. Ma questa enorme “macchina” di controllo della popolazione che abbiamo tratteggiato per veloci pennellate –i cui effetti attivisti locali definiscono di “lento genocidio”… è veramente riformabile?

E in questa luce, per chiudere con una nuova citazione filmica, suonano ora forse più comprensibili alcune frasi che Spike Lee mette a chiusura di Do the Right Thing, ambientato nella Brooklyn anni ’80. Dopo una citazione di Luther King, sono infatti le parole di Malcom X, un personaggio cardine della storia nera che tuttavia il giornalista del New York Times non menziona mai, a fungere da stacco prima dei titoli di coda: “I don’t even call it violence when it’s in self defense; I call it intelligence”. A cui potremmo aggiungerne un’altra: “I am for violence if non-violence means we continue postponing a solution to the American black man’s problem just to avoid violence”.

 

Nc across the Atlantic

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