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“No deal/ No way/ We fight until they pay!”. Sullo sciopero dell’università in UK

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Riceviamo e pubblichiamo da una compagna partecipe alla vertenza il resoconto di quasi tre settimane di sciopero nel mondo della formazione universitaria britannico, esploso attorno alla ridefinizione degli schemi pensionistici. I picchetti, cresciuti gradualmente per partecipazione e radicalità, hanno messo in difficoltà le rappresentanze sindacali tradizionali, aprendo scenari di possibilità e rompendo l’individualismo inculcato da decenni di ideologia neoliberale.

Martedì è stato un giorno importante (ed inatteso) nello sciopero indetto dal sindacato del personale universitario UCU che, dalla fine di febbraio, sta paralizzando le università britanniche intorno alla disputa sul sistema pensionistico. Arrivata ormai al 14° giorno in una settimana di serrata totale, l’azione è stata a buon diritto qualificata come una ‘industrial action’, laddove l’higher education britannica è ormai una vera e propria industria orientata al profitto, con un indotto da economia di scala. La svolta, tuttavia, non è stata innescata da qualche maldestra mossa repressiva della controparte, ma bensì da una vera e propria rivolta della base sindacale contro la proposta di un accordo avanzato dalla leadership. I dimostranti hanno infatti letteralmente e virtualmente picchettato il quartier generale UCU fino a costringere la direzione a fare marcia indietro e a tornare al tavolo delle trattative per strappare un accordo più ambizioso. Ma al fine di capire la posta in gioco e come si sia arrivati a questo punto di rottura della complicata, eppure comprensibile disputa, è necessario come nel gioco dell’oca ritornare alla casella di partenza.

Lo sciopero nasce dalla proposta della Conferenza dei Rettori Inglesi (UUK) di finanziarizzare lo schema pensionistico degli accademici, lo USS (Universities Superannual Scheme). Fino ad oggi pubblico e basato su un criterio contributivo, il fondo verrebbe ‘finanziarizzato’, portando ad una perdita del valore delle pensioni che si aggira intorno al 40 percento. La proposta avanzata dallo UUK si baserebbe su ‘report di rischio’ interni che predicono la non-sostenibilità del fondo pubblico entro dieci anni. Previsioni dubbie nel merito ed elaborate senza alcuna trasparenza e dati pubblici, e sotto la pressione esercitata dai rettori-manager legati al mondo delle corporation e dell’alta finanza. La sensazione, neanche tanto remota, è che tali discutibili dati servano solo ad avallare la privatizzazione di uno degli ultimi ‘bastioni’ pubblici rimasti in un sistema universitario in cui il processo di privatizzazione è stato particolarmente avanzato dal 2010 ad oggi. Basti pensare che, dalla stipula del Bologna Process nel 1999, il tetto per le tasse universitarie UK è passato da 1,000 al culmine delle 9,000 sterline sancite dal governo Cameron, che ha suonato il de profundis all’investimento pubblico nell’università. Da allora, la palla è passata in mano alle università-corporation e ad una gestione manageriale che ha trasformato le università in mercifici di titoli di lauree, aumentato esponenzialmente il divario di classe, precarizzato la forza lavoro, e trasformato gli studenti in clienti da soddisfare attraverso gli imperativi di performance e  customer satisfaction.

Di fronte al muro di gomma dei rettori sulla possibilità di rinegoziare i termini dell’accordo, UCU ha lanciato uno sciopero di 15 giorni a partire dalla fine di febbraio, che è passato dai 2 giorni della prima settimana alla serrata totale di quella in corso. Inoltre, i membri sono stati invitati allo ‘sciopero bianco’ durante l’orario lavorativo, ossia a non compiere alcun lavoro che esuli dai propri rigidi termini contrattuali, e ad attenersi scrupolosamente alle sole 8 ore lavorative giornaliere. Uno sciopero di questa portata è stato inizialmente accolto con un po’ di scetticismo e certamente incredulità dalla base UCU, abituata ad anni di rese incondizionate, scioperi stroncati sul nascere, ed accordi capestro. Nondimeno, la sensazione di essersi avventurati sul terreno di una battaglia campale ha risvegliato le pulsioni di mobilitazione che da tempo covavano sotto la cenere. I picchetti hanno visto anche nelle università ‘minori’ decine, se non centinaia di persone mobilitarsi quotidianamente sotto la pioggia, il vento e persino la neve. I cortei e le iniziative di lotta sono stati pressoché quotidiane; ancora più inaspettatamente, si sono moltiplicate a macchia d’olio le occupazioni solidali da parte degli studenti per fare pressione sui rettori e cogliere l’occasione dello sciopero per richiamare il mondo della formazione alla lotta per abbassare le tasse e rendere di nuovo l’educazione universitaria critica, libera e accessibile a tutt*.

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Lunedì sera, la svolta apparente. Tutti i membri della UCU hanno ricevuto via mail un ‘bullettin’ straordinario che, con toni tuttavia alquanto asciutti, annunciava che un accordo era stato raggiunto, e che quindi lo sciopero sarebbe stato revocato a partire dal giorno seguente. Il motivo di così tiepidi entusiasmi era ben chiaro alla lettura dei termini dell’accordo. La discussione vera sullo schema pensionistico sarebbe stata dilazionata di tre anni, prevedendo comunque una maggiore contribuzione (per un ritorno minore) da parte dei dipendenti. Tuttavia, il punto che più ha sollevato oltraggio è stata la richiesta congiunta di sindacato e rettori di ricalendarizzare tutte le lezioni e il lavoro non compiuto durante lo sciopero senza essere pagati, e anzi con lo stipendio proporzionalmente decurtato per ogni giorno di sciopero. Simili termini hanno da subito originato rabbia e sgomento negli accademici, che hanno interpretato il tutto come un tradimento, come l’essere stati venduti come ‘bargaining chips’ dal sindacato, nonché come un grave tentativo di minare alla base la credibilità dello sciopero come strumento legittimo di lotta. Insomma, come una vera e propria capitulation (resa) agli interessi della controparte, altro che accordo!

Partito (come spesso avviene) dai social network, il tam-tam ha acquisito prima forza in rete, e il giorno successivo nelle strade. Nei gruppi di base dei membri UCU in meno di mezz’ora è circolata una petizione che rigettava senza appello l’accordo, e che nel giro di 2 ore ha raccolto 3,300 firme, per collezionarne più di 10,000 entro la mattinata successiva. L’hashtag #NoCapitulation è subito entrato nei ‘trending topic’ coagulando non sono i cinguettii di indignazione, ma anche una vera e propria agenda delle assemblee di emergenza chiamate in tutto il paese per inviare il diniego ‘ufficiale’ al meeting londinese dei vertici di UCU che avrebbe dovuto ratificare l’accordo. Non solo: lo stesso quartier generale del sindacato è stato ‘assediato’ da una manifestazione partecipata da centinaia di persone armate di fischetti, vuvuzelas, striscioni e tutta l’intenzione di farsi sentire. Un gruppo di studenti e alcuni accademici hanno addirittura occupato gli accessi e i corridoi della sede per spingere la segretaria generale Sally Hunt a raccogliere la loro posizione.

Laddove la BBC e i media mainstream hanno cercato fin dal lunedì sera di far fare allo staff accademico il pesce in barile parlando di ‘accordo già siglato’ e di sciopero sulla via del tramonto, la forza della mobilitazione ha costretto Sally Hunt e il team di negoziatori a una resa senza precedenti ed irrituale nella forma. La macchinosa burocrazia sindacale prevedeva infatti che il primo ‘meeting’ della mattina raccogliesse le opinioni espresse dalle sezioni (branches) locali come parere non vincolante. In ultimo, una commissione ristretta avrebbe dovuto riunirsi per prendere la decisione finale a porte chiuse. Una volta ricevuto il diniego unanime verso l’accordo di tutte le sezioni locali UCU di Inghilterra, Scozia ed Irlanda, i vertici hanno loro sì capitolato, e annunciato che l’accordo sarebbe saltato. Insomma, una resa alla ragioni della base che Sally Hunt aveva cercato di blandire facendo appello alla trita e ritrita retorica della responsabilità con un comizio improvvisato di fronte al proprio quartier generale in cui aveva tentato di convincere una folla alquanto inferocita che questo fosse un buon accordo, il meglio che si sarebbe potuto strappare, e che fosse una posizione responsabile. Dichiarazioni accolte con grida di scherno, richieste di sfiducia e urla: “Then you don’t represent us!” (Allora tu non ci rappresenti!).

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Qualcun@ tra gli strikers italiani commentava sardonicamente che ‘Sally Hunt is the new Matteo Renzi’: le riforme e l’accordo sono molti buoni, siete voi che non capite!. Qualcun@ ancora più salace cinguettava: “Sally Hunt come Lama. Tocca solo capire quale sarà la sua Sapienza!” Ciò che è certo e che questa volta l’ideologia della moderazione non ha fatto breccia come sperato. Lo sciopero perciò è ripartito da mercoledì mattina ad oggi, come calendarizzato. La leadership di UCU ha inoltre annunciato che il team dei negoziatori tornerà a trattare con UUK solo quando una proposta più avanzata verrà messa sul piatto. Nel frattempo, verranno calendarizzate le nuove date di sciopero che, in mancanza di un accordo, coinvolgeranno il periodo delle sessioni di esame, vera testa di ponte verso la tanta evocata (ma in fondo temuta dalla leadership) maximised disruption (massimizzazione del disagio). Quali considerazioni si possono trarre dunque sulla portata e le implicazioni di questo sciopero al netto delle giornate appena trascorse?

E’ evidente, da un lato, che la opprimente burocrazia sindacale e la leadership moderata di Sally Hunt abbiano subito un duro colpo. Prova ne sia il fatto che il meeting a porte chiuse della Higher Education Committee non ha proprio avuto luogo visto l’unanime opposizione di tutte le branches (sezioni locali), e che il dissenso delle strade ha letteralmente travolto i magri risultati portati a casa nel tentativo palese di non inimicarsi completamente . Dall’altro lato, è lecito domandarsi quanto e se questa ‘fiammata’ di mobilitazione riuscirà ad essere spenta dai soloni (o, con una terminologia nostrana decisamente più verace e accurata, pompieri) che già si appellano al senso di responsabilità, al non rimettere in discussione la leadership del sindacato, a spegnere gli accenni più ‘radicali’ e ‘militant’ al fine di giungere un accordo e poter tornare ‘al più presto’ al lavoro. Inoltre, dopo #NoCapitulation, è anche legittimo domandarsi se e in che misura Sally Hunt e i cosiddetti ‘negoziatori’ riusciranno a strappare alla UUK un accordo davvero migliore, o se si limiteranno a sottoporre alla base qualche ‘vittoria di pirro’ sperando di prendere gli scioperanti per sfinimento.

Infatti, in queste settimane, il dibattito è aperto su se e come far proseguire lo sciopero, e produrre l’escalation decisiva. Se da un lato la componente più attiva, ‘radicalizzatasi’ nella quotidianità delle linee di picchetto, spinge per continuare l’azione di sciopero fino alla resa totale da parte di UUK, è inevitabile domandarsi se e quanto una simile azione di sciopero sia sostenibile nel lungo periodo, specialmente in un contesto dove UCU non sta mettendo in discussione le estremamente restrittive (e repressive) norme sullo sciopero inglese, e quindi il peso economico che l’azione di lotta sta avendo sui già magri salari delle fasce più precarizzate e sottoposte allo stillicidio dei casualised e zero-hours contracts. Per non parlare poi delle limitazioni allo sciopero dei lavoratori sottoposti al regime dei visti, e della ‘ricattabilità’ data dal mancato rinnovo dei contratti per gli accademici che più si sono esposti nell’organizzazione e nella continuazione dello sciopero. Infine, in un contesto dove il neoliberismo accademico è in fase così avanzata, presagire una inversione di rotta come auspicata dai tanti lavoratori e studenti che si sono mobilitati in queste settimane pare pressoché una tardiva utopia. Eppure, se c’è una frase che risuona frequentemente sulle picket line affollate di accademici, è: “Anche quando torneremo a lavorare, niente sarà più lo stesso”. Come a dire che quando si scopre di avere potere collettivamente, tornare indietro all’individualismo richiesto dal lavoro cognitivo sarà (forse) un po’ più difficile.

@policeonmyback

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