Se l’università diventa un Mc Donald’s…
Nel mondo anglosassone, dove non si fa mistero di considerare il mondo della formazione come una branca dell’economia, vige una concezione aziendalistica degli istituti del sapere che determina una selezione di classe nell’accesso all’istruzione, posponendo al possesso di denaro ed alla posizione sociale quello che la tradizione continentale europea considera un diritto di base dei propri cittadini senza distinzioni di sorta, almeno sul piano teorico.
Poteva l’Italia non importare questo modello negli anni della più lunga e duratura crisi economica dell’ultimo secolo? Ma certo che si! Tuttavia come sta avvenendo in generale con l’adozione delle politiche di austerity, che mirano al drenaggio di risorse pubbliche e al saccheggio delle buste paga e del capitale sociale dei lavoratori dipendenti, questo avverrà in una società assolutamente impreparata e priva di meccanismi di compensazione. Addirittura la chiesa si sta piegando al saccheggio capitalista delle rendite famigliari, di cui bisognerà coglierne subito l’ambivalenza come in tutti i casi in cui il genere e la razza vengono slegati dalla divisione del lavoro… Nelle società anglosassoni, invece, i dispositivi della valorizzazione economica si sono determinati rispetto ad un paradigma differente, che ha configurato anche una spinta dal basso del mondo del lavoro nei decenni scorsi molto più distante dal discorso statalista, con pesi e contrappesi molto diversi dai nostri.
Per questo motivo le politiche neoliberiste di Renzi nel contesto dell’austerità sono politiche classiste di impoverimento che mirano ad attaccare le conquiste del “lavoro” nei confronti del “capitale”. In questo senso l’università e l’istruzione diventano funzionali agli interessi del capitale in absentia di una moltiplicazione delle risorse disponibili, ma nella loro concentrazione. Solidificato questo passaggio il “lavoro” avrà fatto un grosso passo indietro, rifinanziato l’accumulazione e aumentato sensibilmente il plusvalore che, come forza di classe, non riesce a trattenere a sé.
Il problema italiano è sostanzialmente normativo, per questo i ricatti della BCE sono sempre volti alla messe in campo delle “riforme”. L’interesse principale dei poteri forti, rappresentati oggi da Renzi, è quello di riscrivere le regole per dotare il padronato e le agenzie semi-statali che gestiscono la riproduzione sociale degli strumenti normativi adeguati al nuovo corso. Quando Renzi dice che le leggi dello stato in materia economica si possono scrivere senza consultare i sindacati, già si proietta in una nuova costituzione che non è più “fondata sul lavoro”, ma su altre basi che rompono fortemente con un certo tipo di modello di società che, è bene dirlo, evidenziava già i suoi limiti e la cui difesa a spada tratta mostra oggi più che mai tutti la sua inconsistenza.
Ecco quindi che l’università di Dionigi si dota del suo strumento normativo: il Nuovo Codice Etico, pietra miliare della trasformazione definitiva in azienda. E bene qui aprire una breve parentesi determinata dal fatto che, come in ogni circolo di potere, la battaglia per il suo possesso e il suo mantenimento sono combattute nei livelli alti delle gerarchie. Dionigi in qualche modo prepara già la sua successione in stile pienamente emiliano, da vero demokratico con la k. Da una parte, col progetto Staveco, sbandiera ai quattro venti di avere a cuore il diritto allo studio. E lo fa – col plauso della fazione umanista che torna all’opposizione – per mettere in difficoltà, un futuro rettore dell’area scientifica, che invece (ponendo una ipotesi di pura fantasia…) vorrà farne un polo delle eccellenze. Dall’altra con la promulgazione del Nuovo Codice Etico a fine mandato – condizione questa che rende difficile pensare che se ne voglia servire in prima persona – consegna nelle mani del suo successore, che così non sarà compromesso, uno strumento già esistente di cui potrà servirsi alla bisogna e che costituirà in qualche modo lo “spirito” della “costituzione aziendale” della futura Unibo.
Il cuore semantico del Nuovo Codice Etico è proprio l’immagine dell’università di Bologna, il suo “marchio” che deve ispirare fiducia e in quanto “patrimonio collettivo” deve essere tutelato a norma di legge. E un po’ come nel mondo degli spot pubblicitari in cui è vietato che la Pepsi possa denigrare le qualità della Coca-Cola, ma mentre è molto difficile che La Sapienza di Roma possa fare ciò con il Sigillum Magnum dell’Alma Mater è molto più probabile che lo facciano i suoi studenti, i suoi lavoratori organizzati in sindacati, oppure qualche professore temerario che decide di non tenere la bocca chiusa.
Di fatto è il compimento di un processo di espropriazione di un pezzo di patto sociale rappresentato dagli enti dello stato a beneficio del capitale finanziario privato, che spesso viene creato con una nuova lottizzazione del pubblico tra le caste a spese dei contribuenti, come accaduto dopo la caduta del muro di Berlino, qui rappresentato dal welfare state. Qui sta l’origine di molta confusione su quelli che vengono chiamati beni comuni che non sono per nulla elementi di uguaglianza democratica, ma solamente dispositivi un po’ più accessibili di quelli con cui stanno venendo sostituiti. La sopravvalutazione delle lotte del “lavoro” del ‘900 ha determinato in un certo campo dell’analisi teorica la credenza che la società avesse prodotto delle basi per una ipotesi di convivenza egualitaria; quale abbaglio riproduzionista! E’ proprio l’assenza di lotte di classe-parte sul nodo della produzione che sta consentendo questo arretramento! Solo qualche anno di tregua è bastato per dimenticare la durezza del bastone, e si è coltivato le proprie carote, invero assai poco nutrienti rispetto al fabbisogno sociale.
Così sul brand Alma Mater viene caricata tutta la valorizzazione aziendale nella quale si completa la trinità con la sacralizzazione del rettore-general manager e del suo consiglio di amministrazione che potrà addurre ogni calo degli utili a bilancio alla cattiva reputazione del marchio. E qui torniamo al paragone coi fast-food. Avvalendosi delle severe norme antidiffamazione anglosassoni, da anni Mc Donald’s, forte dei suoi milioni di utili e di uno stuolo di avvocati, tiene in ostaggio i mezzi d’informazione e limita in maniera determinante l’iniziativa sindacale quando non la rende proprio semi-illegale, come accade negli Stati Uniti. Col fatto che un panino qualsiasi possa essere valorizzato solo in quanto marchiato Mc Donald’s la lotta dei lavoratori per i propri diritti e per strappare un salario e condizioni di lavoro migliori diventa immediatamente devalorizzante per il marchio. Ma questo è una conseguenza di cui il capitale, esplorando nuovi meccanismi di valorizzazione, deve accettare. Con le buone o con le cattive. Il diritto di sciopero implica una perdita di profitti da parte del padrone, il sogno del capitale nel XXI secolo è che questo non accada più.
Questo è il nocciolo della questione da cui discendono poi i dispositivi attuativi della meritocrazia, del nuovo cottimo mascherato coi premi di produttività, individualizzati nel concetto di proattività, nel attribuzione all’individuo delle nuove insegne della nobiltà, che passano anche per una bella laurea targata Collegio Superiore dell’Alma Mater. Se ci sono dei torbidi intorno al marchio rappresentato dal Sigillum Magnum, quell’attestato varrà di meno e, anche se la differenza salariale tra manager e dipendenti è di 1000 a 1, si dovranno abbassare gli stipendi di questi ultimi. Lavoratori e studenti sono avvisati! Il confronto deve essere regolamentato anche sui social network in quanto si configurano come una sorta di nuove ferrovie con cui i prodotti delle aziende raggiungono i mercati e un hashtag molesto è come una squadra di ferrovieri che incrocia le braccia.
Ma non è un livello superiore, è un livello integrato ai meccanismi di circolazione consolidati delle merci. Una protesta che si avvale dei social network non intacca però materialmente la riproduzione sociale del “lavoro vivo” perché in quel livello è virtuale e quindi si configura solamente come perdita di capitale. Se per le lotte, costrette in un momento storico di grande difficoltà, lo spazio dei social network è stata una boccata di ossigeno, per il capitalismo globale in crisi non può continuare ad essere un terreno in cui non è mai il lavoro a rimetterci. La sfiga è che potendo essere davvero pericoloso solo se agito da forme strutturate di lotta e organizzazione, che per forza di cose sono situate nel mondo “reale” e predispongono i “contatti”, il capitale sta già correndo ai ripari prima che queste possibilità siano state sfruttate a pieno.
Per i poteri forti bisognerà, di conseguenza, riconfigurare la società su una nuova scala valoriale per permettere che la “politica stia fuori dai social network” e organizzare i nuovi krumiri della rete che difenderanno la cosificazione dei rapporti sociali e di estrazione di valore ricalibrata nell’interazione dei marchi che permetterà di estrarre valore al capitale finanziario privato nel suo insieme e non solo a Facebook o Twitter che, riprendendo il paragone con le compagnie ferroviarie, guadagnano sul prezzo del biglietto, rappresentato dagli introiti pubblicitari, e offrono beni e servizi ormai sempre più a pagamento. La rete è si un bene comune, ma per il capitale! Grazie Dionigi per avercelo così chiaramente dimostrato.
tratto da UnivAut.org, portale del C.U.A.di Bologna
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