Sull’emergenza rifiuti a Roma
Nelle ultime settimane, oltre alla manovra economica, alla questione della nave Sea Watch e all’arresto di Cesare Battisti, un’altra notizia si è spesso fatta largo all’interno di telegiornali e siti di informazione: l’emergenza rifiuti, in particolar modo quella riguardante città come Roma e Palermo.
Sono oramai familiari le immagini di cassonetti stracolmi e di marciapiedi invasi da buste dell’immondizia, di cittadini avviliti e lanciati in camminate di centinaia di metri alla ricerca di un “buchetto” in cui infilare il sacchetto con i rifiuti del giorno prima; sono anche tristemente note le pseudo-argomentazioni di coloro che ricoprono cariche istituzionali e che sarebbero preposti a risolvere la questione. Ciò che è fondamentale comprendere è che, al di là di fenomeni contingenti quali, ad esempio, l’incendio dell’ex TMB Salario, impianto di smaltimento dei rifiuti alle porte di Roma, e lo sciopero (sacrosanto) delle lavoratrici e dei lavoratori della Rap di Palermo, la questione della produzione e dello smaltimento dei rifiuti ricopre un’importanza non indifferente in tempi in cui si impongono, sempre più urgentemente, misure drastiche nella lotta alle emissioni e al cambiamento climatico. Quello dell’accumulo di rifiuti è, quindi, un problema strutturale, interno agli stessi meccanismi attraverso cui la nostra società riproduce se stessa e che coinvolge l’intero arco produttivo, dalla produzione industriale fino al consumo individuale.
Lasciano, perciò, il tempo che trovano le invettive moraliste nei confronti di chi, anziché avventurarsi nella ricerca di qualche cassonetto vuoto in giro per il quartiere, lascia il proprio sacchetto sul cumulo di immondizia formatosi nei pressi del cassonetto davanti al portone di casa e che, da giorni, non viene svuotato. E se questo genere di ragionamenti è lecito aspettarselo da un’opinione pubblica stanca e frustrata, avvilita dall’incapacità e dalla corruzione di amministrazioni susseguitesi nel tempo ma quasi per nulla distinguibili l’una dall’altra, meno lecito dovrebbe essere aspettarselo dalle stesse amministrazioni che, al fine di mascherare le reali dinamiche interne, puntano il dito contro il cittadino furbetto, immorale, disonesto. Ed è in questo clima che è andata formulandosi l’ultima proposta della giunta capitolina: la selezione, tra i cittadini, di volontari muniti della facoltà di multare colui o colei che, anziché vagare per il quartiere in cerca di un cassonetto, sono rei di aderire alla barbara usanza di lasciare la propria immondizia per la strada. Ciò, oltre a far da megafono allo sterile giustizialismo a cui oramai siamo abituati, pone un problema non indifferente: i cittadini e le cittadine selezionati sarebbero, a tutti gli effetti, lavoratori e lavoratrici non retribuiti, con tutto ciò che questo comporta in termini di diritto del lavoro e, non meno grave, in termini di sicurezza personale; è chiaro che questi, investiti di una mansione punitiva, sarebbero totalmente esposti alla frustrazione e alla rabbia popolare che, giustamente, vedrebbe in loro l’ennesimo attacco a una quotidianità che, in special modo nelle zone periferiche, si allontana giorno dopo giorno dalla soglia minima di vivibilità.
È pertanto inutile e fuorviante basare il ragionamento, e la conseguente ricerca di soluzioni, sul comportamento individuale, anche perché, se dovessimo risalire la scala dei comportamenti immorali al fine di identificare il “colpevole”, dovremmo considerare tutta una serie di passaggi che vanno ben oltre il momento in cui un sacchetto viene tristemente abbandonato accanto a un cassonetto. Dovremmo, ad esempio, domandarci cosa ci fosse dentro quel sacchetto e se fosse proprio necessario produrre quel determinato rifiuto; capire se al suo interno vi fosse della plastica (rifiuto domestico inquinante per eccellenza) e se l’alimento o il prodotto che conteneva non potesse essere acquistato magari sfuso al mercato di quartiere, in modo da non gravare sul bilancio dei rifiuti collettivo; scoprire la natura di quel prodotto e ragionare sull’impatto ambientale che esso, al di là dell’imballaggio, ha prodotto nel corso del ciclo produttivo; ragionare, infine, sul modo in cui è stato acquistato, se il negozio in cui lo si vendeva è stato raggiunto a piedi, con i mezzi pubblici o magari in auto, per quantificare l’emissione di gas serra che è andata ancor più a intorpidire l’aria metropolitana.
Chiaramente, questo sarebbe un esercizio inutilmente gravoso e del tutto sterile, non perché non abbia senso provare a riflettere su abitudini mai sottoposte a una critica seria, tutt’altro; piuttosto, perché è assolutamente irrealistico pensare che i singoli comportamenti siano il risultato di una libera scelta, come se non esistessero fattori quali il grado di istruzione e, quindi, una diversa possibilità di accesso a determinate informazioni, le possibilità economiche, i ritmi sempre più convulsi del quotidiano, una realtà lavorativa sempre più abbruttente e che poco spazio lascia a riflessioni di altra natura, magari concernenti ciò che accade al di fuori del nucleo familiare.
Proviamo, perciò, a metterci nei panni di un operaio o di un’operaia che abitano in una delle periferie romane oramai sommerse dai rifiuti; proviamo a immaginare che escano di casa alle 5 e 30 di mattina per recarsi sul posto di lavoro, che portino con sé la busta dei rifiuti del giorno prima e che ovviamente trovino il cassonetto dell’immondizia stracolmo; immaginiamo che, dopo aver camminato per decine di metri, si accorgano che non c’è modo di buttare il proprio sacchetto se non poggiandolo su un cumulo già esistente di rifiuti, pena la perdita del mezzo pubblico di una rete di trasporti che funziona a singhiozzo e che li porta quotidianamente a un lavoro precario che, però, è l’unico al momento disponibile e per cui un ritardo potrebbe rivelarsi fatale. Proviamo a immaginare che l’operaio o l’operaia (ma soprattutto l’operaia, vista la tremenda disparità di genere esistente) abbiano anche una famiglia e dei figli da accudire, da mandare a scuola e che, perciò, ancor prima di scendere a buttare l’immondizia, ci sia da preparare la colazione, magari anche il pranzo o, addirittura, per mancanza di tempo, la cena. Proviamo a immaginare che, proprio in virtù di quel lavoro precario sicuramente mal retribuito, l’operaio o l’operaia siano costretti ad acquistare, nel discount accanto al loro posto di lavoro, una confezione di insalata già lavata e imbustata piuttosto che una lattuga romana dai banchi del mercato rionale e che quest’ultima, a parità di peso, prezzo e tempo da impiegare nella preparazione, risulta sicuramente meno conveniente seppur con un minore impatto dal punto di vista dei rifiuti prodotti.
Quale assurdo ragionamento moralistico potrebbe applicarsi a questa ipotetica situazione?
La verità è che, nel ragionare sulla questione dei rifiuti, si perde di vista un enorme insieme di fattori che coinvolge dal primo all’ultimo dei tasselli che vanno a comporre il mosaico sociale in cui viviamo: da una rete di trasporti pubblici inefficiente all’abbassamento progressivo del salario medio, dalla precarizzazione del mondo del lavoro alla privatizzazione dell’istruzione pubblica, fino ad arrivare all’inefficienza infrastrutturale degli impianti di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti (vedi il caso dell’incendio all’ex TMB Salario) e a una politica non all’altezza e spesso coinvolta in girotondi di favori a beneficio dei grandi capitali del settore.
I cumuli di immondizia sui marciapiedi non sono che la punta dell’iceberg di un modo di produrre e di vivere totalmente irrazionale e che necessita di una gestione politica radicalmente diversa, una gestione politica che abbandoni, una volta per tutte, l’istinto repressivo e punitivo da scatenare addosso alle classi più disagiate e che, per prime, soffrono dei malfunzionamenti strutturali (come nel caso dell’ultima idea della giunta capitolina), e consideri i problemi contingenti come parte di questioni assai più ampie e di ben più articolata composizione.
Danilo Gatto, attivista e scrittore
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