
(Tracce di) Derive Autoritarie e Lamenti Antipopolari

L’inserimento dei licenziamenti collettivi da parte del governo nel Jobs Act nonostante pareri contrastanti all’interno delle commissioni parlamentari ha scatenato molte polemiche. Alcune (poche e piuttosto tenui) nel merito di cosa rappresentasse questa riforma per i lavoratori e per i giovani e altre (molte) rispetto al metodo utilizzato fuori dalla conformità istituzionale. Dalla Boldrini a Zagrebelsky si è alzato un coro di indignazione e preoccupazione per il rispetto delle regole della democrazia formale.
Già in sede di confronto rispetto alla legge elettorale il governo aveva  dato dimostrazione di interessarsi fino a un certo punto alla formalità  dei processi decisionali sanciti dalla costituzione o dalla tradizione  parlamentare italiana, facendo ulteriormente discutere rispetto alla  legittimità o meno del suo agire. Ci sono quindi effettivamente tracce  di deriva autoritaria nell’esecutivo renziano?
 Per rispondere è necessario guardare oltre al teatrino parlamentare e  confrontarsi con le strategie con cui il dispositivo comunicativo e di  iniziativa politica di Renzi si articola rispetto alla società.
 La figura del capo forte, “giovane”, dinamico e spregiudicato,  comunicatore e decisionista è centrale per quanto riguarda l’aspetto  comunicativo dell’assetto di governo, ma non è che uno degli elementi  che vanno presi in considerazione.
In generale in nome di una certa efficacia nell’azione di governo molte  forme classiche della politica vengono ad hoc attaccate, abbandonate o  riprese.
 Da un punto di vista istituzionale su alcune questioni specifiche e  circoscritte c’è il tentativo  (più volte andato a segno) di costruire  uno slittamento di legittimità dal parlamento al governo, giustificando  verso l’esterno questa operazione come uno snellimento delle procedure  granitiche e asfissianti che portano all’approvazione delle leggi.  Sostanzialmente muovendosi nella direzione di una critica  all’immobilismo parlamentare inadatto infine all’attualità  dell’emergenza.
 Se verso il parlamento questo slittamento viene utilizzato in occasioni  specifiche (ma ad uno sguardo lungo come prologo di una ristrutturazione  dell’istituzione che è già dentro l’Italicum), verso il partito la  rottura è più netta, Renzi e il suo governo costruiscono la propria  immagine di alterità rispetto alla politica “vecchia” proprio nello  scontro interno al PD. Uno scontro simulato spesso e utile per molti  versi proprio a mantenere lo status quo.
Qui il PD completamente destrutturato rimane in qualche modo uno  strumento utile a fasi alterne ma che è sostanzialmente al di fuori del  processo decisionale. E’ l’esecutivo il fulcro nodale dell’azione  politica renziana e Renzi stesso come incarnazione di esso e suo  strumento comunicativo.
 Al fianco di queste iniziative si inserisce una narrazione che salta  completamente i corpi intermedi per tentare “ri-organicizzare” al  proprio progetto alcune parti della società. Il presidente si rivolge  sempre direttamente ai giovani, alle famiglie, ai lavoratori, agli  italiani tranciando le linee di classe e contrapponendoli spesso agli  istituti di organizzazione classica (con molte colpe chiaramente) di  alcune di queste figure, come il sindacato, la politica vecchia, e anche  una certa concezione del mondo “superata”.
 Non stupisce infatti la chiarezza con cui il progetto neo-liberista  viene espresso in molti passaggi, senza camuffarlo o ridurlo  semplicemente come nei governi precedenti ad uno stato di emergenza  segnato dai sacrifici per poi ritornare ad un improbabile status quo.
La ricerca continua dello scontro con un nemico esterno (la Troika, la  Merkel: con cui poi nella realtà c’è unità d’intenti almeno in parte) e  di uno interno che a seconda delle situazioni è il M5S, la minoranza PD,  Landini ecc… ecc… ha il doppio utilizzo di compattare il discorso  sul proprio progetto come risoluzione dei problemi provocati dalla crisi  e contemporaneamente di canalizzare la rabbia e il disagio verso  soggetti terzi. Che questo tentativo riesca è tutto da vedere, ma per il  momento ha dimostrato una certa stabilità complessiva: d’altronde  l’aveva già capito Berlusconi che per governare in Italia bisogna farlo  dall’opposizione.
 Se a questi processi poi si affianca la questione strutturale dello  spostamento del comando da un piano nazionale a uno europeo, con la  difficoltà per i soggetti di identificare le controparti delle loro  condizioni di vita si completa il quadro.
Esistono tracce di deriva autoritaria quindi? Sì, ma la domanda che segue è: dove sarebbe la novità?
 Le democrazie liberali ormai sono in crisi da lungo tempo, per  l’incedere delle lotte da un lato e soprattutto per la ristrutturazione  capitalista conseguente ad esse. Lo stato liberale d’altronde non si  esprime necessariamente e unicamente attraverso un assetto democratico.  Tanto più dentro l’Europa della crisi e dell’austerity, tanto più dentro  la globalizzazione. Renzi semplicemente incarna questa tendenza di  ristrutturazione al meglio per quanto riguarda il contesto italiano con  le sue specifiche.
Gli astratti piagnistei sullo stupro della costituzione e sulla perdita di democrazia non servono a niente. Anzi spesso si connotano a loro volta come antipopolari, come nel caso di Zagrebelsky che cerca il soggetto della difesa della democrazia all’interno della società civile a fronte di un popolo, a suo parere, subordinato e assuefatto alle politiche di Renzi. L’elitismo culturalista della sinistra nostrana però si scontra col dato materiale delle condizioni oggettive di organizzazione del potere, a cui poco importa che qualche professore si indigni o che qualche carica istituzionale dopo un muto assenso a tutte le bestiali politiche fatte finora dal governo abbia un tenue strepito quando si va a toccare la prassi democratica.
Per l’ennesima volta tocca affermare che unicamente le lotte sociali dal basso, i progetti popolari possono portare a una ri-appropriazione di decisionalità collettiva. Certo, contro chi oggi devasta le nostre vite, ma anche contro un certo approccio alla politica che seduto sulla sua pila di sentenze, di idealizzazioni, di rigurgiti intelletualisti non vuole sporcarsi le mani dentro le contraddizioni vive del presente.
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