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Tristezza e sottomissione

 

 

Fin dalle prime pagine del primo romanzo di Houellebecq la solitaria tristezza metropolitana domina la scena.

“Plus tard dans la soirée ma solitude devint douloureusement tangible.”

scriveva in L’extension du domaine de la lutte nel 1994.

La solitudine diviene un dolore che si può quasi toccare, come una ferita purulenta.

Il senso di una corporeità contratta o marcescente emerge dall’opera di questo autore di cui oggi si parla tanto per l’involontario tempismo: La soumission è infatti uscito il giorno stesso in cui i giornali portavano la notizia di un crimine efferato e demente compiuto nel centro di Parigi da tre militanti islamisti, in cui fra l’altro è morto un suo amico ed estimatore, l’economista Bernard Maris.

Anche se la solitudine è il suo tema principale, Houellebecq non è affatto uno scrittore intimista: il dolore tangibile di cui parla in tutti i suoi romanzi non è solo il suo personale dolore, ma la chiave attraverso cui raccontare un’epoca.

 

“Del resto, scriveva ancora in L’extension du domaine de la lutte, frequento poco gli esseri umani… Sotto i nostri occhi il mondo diviene uniforme: i mezzi di comunicazione progrediscono, l’interno degli appartamenti si arricchisce di nuovi apparecchi. Le relazioni umane divengono progressivamente impossibili, e questo riduce la quantità di aneddoti di cui si compone una vita. A poco a poco appare il volto della morte, in tutto il suo splendore. Il terzo millennio si annuncia bene.”

 

 

La mamma e la tristezza della carne


Come spiega sul suo sito, a sei anni i genitori “perdono ogni interesse nei confronti della sua esistenza” e lo affidano alla nonna paterna, Henriette Houellebecq, da cui adotta il cognome. Studia agraria a Parigi, inizia a fare il ricercatore, finisce per fare il programmatore informatico e cade in depressione: “Ho conservato il punto di vista del depresso, ma non ero triste. Ero inattivo.” dichiarò in un’intervista al giornale italiano La Stampa nel 2001.

Non mi interessa psicoanalizzare Michel Houellebecq partendo da queste sue dichiarazioni, e non mi interessa il grado di autobiografismo dei suoi romanzi. Mi interessa ciò che i suoi personaggi e il suo mondo poetico ci permettono di capire del presente.

Quando lessi Les particules elementaires (1998) ebbi subito la percezione che Michel Houellebecq fosse capace di cogliere qualcosa di molto profondo del divenire psichico contemporaneo, e quindi anche del divenire sociale, politico.

In quel romanzo racconta di due fratelli, Michel e Bruno. E della loro mamma, che non compare mai nel romanzo, perché (la puttana) se n’è andata con un amante californiano quando i due erano bambini. Il feroce anti-femminismo di Houellebecq è tutto già contenuto in questa mamma, una mamma bellissima, sensuale, dai lineamenti mediterranei. Guardate la tristezza dei suoi lineamenti e dei suoi occhi per capire quanto lo scrittore odia la sensualità del sud e al tempo stesso la desideri (penso a Lanzarote, il più banale dei suoi libri). Il desiderio di cui racconta Houellebecq è quello del turista in cerca di prostitute, del frequentatore di siti porno, un desiderio fin dall’inizio triste. Perché?

La risposta la dà lo stesso Houellebcq in una pagina di Les particules elementaires:

“Se gli aspetti fondamentali del comportamento sessuale sono innati, la storia dei primi anni di vita ha un posto importante nei meccanismi del suo manifestarsi, particolarmente nei mammiferi. Il contatto tattile precoce con i membri della specie sembra vita per il cane, il gatto, il porcellino d’India e il macaco. La privazione del contatto con la madre durante l’infanzia produce gravissime perturbazioni nel comportamento sessuale.” (Les particules elementaires, pag. 76. traduzione mia).

 

Il mondo di cui parla Houellebecq è un mondo di individui cui è stato interdetto il contatto con il corpo della madre. Lo scrittore attribuisce la colpa di questo diradarsi del contatto al femminismo e al movimento hippy, ma questo mostra semplicemente che il Nostro, pur essendo un grande scrittore non ha capito niente della storia culturale degli ultimi cinquant’anni, al punto da identificare (ma non è il solo a far questo) femminismo e socializzazione lavorativa della donna, come se la sussunzione del lavoro femminile da parte del ciclo di lavoro salariato fosse la liberazione di cui parla il femminismo (movimento peraltro contraddittorio e troppo ricco per potersi ridurre a una definizione univoca).

Naturalmente la storia è molto complicata e tutte le generalizzazioni sono fuorvianti, ma possiamo dire che il femminismo esalta culturalmente e politicamente la corporeità che si trasforma in socialità felice. Il femminismo emancipazionista vuole ed ottiene nell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro: integrazione delle energie del corpo (e della mente) femminile al ritmo della produzione. La conseguenza è una rarefazione della disponibilità fisica (e mentale) della madre al contatto coi figli.

Ecco diffondersi allora nella prima generazione connettiva una incompetenza sociale e psichica alla felicità, una tendenza autistica, una paralisi dell’empatia.

I due fratelli di cui racconta Les particules elementaires vivono in una condizione di isolamento dalla storia del loro tempo. Appaiono come monadi senza finestre sul mondo, perché la capacità di sentire il mondo non è stata attivata dal contatto con la pelle di un essere umano (che sia la madre biologica poco importa) in tenera età.

Uno di loro (Michel) fa il biologo, che vive in un mondo di particelle elementari e tende a percepire l’ambiente in cui vive come viscida marcescente composizione e decomposizione di materiale organico. L’altro (Bruno) fa il professore in un liceo ed è un maniaco sessuale ossessionato dall’idea di avere un sesso piccolo e inadeguato. Ha un’amante saltuaria con cui non scambia praticamente una parola, e rischia di mettersi nei guai perché non riesce a impedirsi di mettere le mani sulle cosce delle allieve adolescenti.

Per i due fratelli il mondo circostante non ha forma storica, e i corpi non sono riconoscibili come corpi coscienti, perché non hanno storia ma solo deprimente biologia. Proiettare piacere non fa parte del mondo dell’esperienza possibile.

Resta lo spasimare di umide mucose e lo schizzo di liquidi organici, il contrarsi di muscoli, l’eccitazione vergognosa e lo scarico inconfessabile. La coscienza desiderante è morta prima di nascere, per colpa della mamma odiosa, per colpa della sua fuga (figa) libertaria e crudele.

Colpa dell’egoista generazione che ha consumato tutto il piacere disponibile. Naturalmente questa è la versione di Houellebecq, la sua razionalizzazione politica fondata su una serie di colossali fraintendimenti. Ma non siamo qui per raddrizzare le idee di Houellebecq, né per fargli la psicoanalisi. Siamo qui per cercar di capire il mondo attraverso i suoi occhi, perché questo è quello che ci interessa della letteratura. Non che ci confermi nelle nostre idee,  ma che ci permetta di vedere il mondo con gli occhi di qualcuno altro, perché il mondo è fatto di innumerevoli sguardi. E lo sguardo di uno scrittore (di un grande scrittore come a mio parere è Houellebecq) è un modo per estendere la nostra comprensione del mondo.
Les particules elementaires è un libro che ha il coraggio della disperazione, il coraggio di guardare negli occhi la genesi del fascismo contemporaneo. Il fascismo che nasce dalla solitudine del corpo maschile spregevole e disprezzato, schifoso ed aggressivo. 
E’ un libro che fa a pezzi l’idealismo della cultura moderna, l’idealismo ipocrita dei maschi che erigono altari ai valori del lavoro della patria della guerra della terra e del sangue. perché non sanno nulla del piacere delle carezze e del dialogo fra corpi consapevoli.

 

 

La finestra di Houellebecq: cosa chiediamo alla letteratura


L’odio per la cultura del ’68 e l’odio per le donne sono due costanti esplicite dell’opera di Michel Houellebecq. Nonostante questo lo amo, e penso che si tratti di uno dei più grandi autori del nostro tempo. Perché ci permette di avere accesso allo scenario psichico forse decisivo dell’epoca in cui viviamo. Penso che Houellebecq non abbia capito quasi niente della storia dei movimenti, né della storia sociale del nostro tempo. Ma non mi interessa quel che Houellebecq pensa del mondo, mi interessa il mondo che mi permette di capire, il mondo che percepisce, che proietta, perché è gran parte del mondo (disperato e triste) in cui viviamo.

La sofferenza personale di Houellebecq non è il mio problema, dato che ho deciso di non atteggiarmi a psicoanalista. Ma mi interessa moltissimo il modo in cui racconta la sofferenza della generazione che è cresciuta troppo tardi per poter vivere la condivisione felice dei corpi e delle menti e troppo presto per poter congelare pienamente la sfera sensuale ed emotiva nell’astrazione virtuale.

 

Cosa chiediamo alla letteratura? Tante cose, naturalmente, anche in conflitto fra loro. Ma non possiamo chiedere agli scrittori di dirci la verità perché ogni scrittore ci dice la sua verità, che naturalmente è la sua menzogna, il suo punto di vista, il suo sdegno trasformato in sdegno universale, la sua sofferenza trasformata in sofferenza universale, la sua irresponsabilità che diviene leggerezza condivisa, o la sua gioia che illumina il mondo di singolarità.

Importante è quanto ampia sia la visuale che un autore ci permette di cogliere, quanto larga è la sua finestra. La finestra di Houellebecq è grandissima perché ci permette di cogliere alcune delle correnti più profonde del gelo contemporaneo, della barbarie incipiente, della devastazione irreversibile che si è insediata al centro della vita psichica collettiva, e incombe sulla scena storica.

 

 

Cassandre

Del suo ultimo romanzo si è parlato subito male. Dicono che si tratta di una visione poco realistica, che al massimo la trovata narrativa de La sottomissione può servire per far quattro chiacchiere a cena fra amici. Qualcun altro lo accusa di portare sfiga perché fa previsioni troppo oscure.

Houellebecq ha risposto a queste obiezioni in un brano de La soumission:

 

Le Monde, come tutti i giornali di centrosinistra aveva regolarmente denunciato le Cassandre che prevedevano una guerra civile tra gli immigrati musulmani e le popolazioni autoctone dell’Europa occidentale. Come mi aveva spiegato un collega che insegnava letteratura greca, quell’impiego del mito di Cassandra era alquanto curioso. Nella mitologia greca Cassandra si presenta inizialmente come una ragazza bellissima simile a un’Afrodite d’oro, scrive Omero. Innamoratosi di lei, Apollo le accorda il dono della profezia in cambio dei loro futuri trastulli. Cassandra accetta il dono ma si nega al dio, il quale, furioso, le sputa in bocca, e questo le impedirà per sempre di farsi capire e di essere creduta da chicchessia. Così Cassandra predice il rapimento di Elena poi lo scoppio della guerra di Troia, e avverte i suoi compatrioti troiani del sotterfugio (il famoso cavallo di Troia). Finisce assassinata da Clitennestra non senza aver previsto il suo assassinio, così come quello di Agamennone, che aveva rifiutato di crederle. Insomma Cassandra incarnava l’esempio delle profezie pessimiste costantemente realizzate, e sembrava chiaro che i giornalisti di centrosinistra non facevano che replicare l’accecamento dei troiani. Accecamento che non aveva niente di inedito: lo si sarebbe potuto ritrovare, identico, tra gli intellettuali degli anni trenta, unanimemente persuasi che Hitler sarebbe addivenuto a miti consigli.” (La soumission)

 

La storia che racconta Houellebecq, si dice, è una storia “improbabile”: è improbabile che un partito islamico moderato vinca le elezioni in Francia.  Ma la poesia non racconta mondi probabili, racconta gli incubi e le illusioni, perché di questa materia (cioè della materia impalpabile dell’immaginazione) è fatta la storia del mondo. La sottomissione racconta l’Europa del nostro tempo, anzi proprio l’Europa dell’11 gennaio, il giorno in cui si è svolto un gigantesco trompe l’oeil sulla scena mediatica globale.

In quel giorno la borghesia parigina (i sette milioni di persone che abitano dentro la città) ha sfilato per esorcizzare il terrore che prova quando pensa all’altra Parigi (i sette milioni di persone che abitano intorno alla città, nelle banlieux).

 

 

L’odio


In un film del 1995 di Mathieu Kosowitz che si chiama La haine un gruppo di ragazzi (africani, maghrebini) escono dalla loro giungla di miseria violenza droga disoccupazione e razzismo, per trasferirsi all’altro mondo, nel centro parigino che dista solo qualche fermata di metro. In quel film c’erano tutti gli ingredienti che hanno preparato l’attentato a Charlie Hebdo.

Le parole spese nei giorni successivi all’orrendo massacro islamista sulla stampa occidentale girano intorno a questa rimozione: parlano di difendere la libertà d’espressione (negli stessi giorni in cui un altro idiota di nome Dieudonné viene arrestato per le sue ripugnanti battute antisemite). Ma il punto non è la libertà di parola, il punto è l’odio e la paura, l’emarginazione e la violenza.

In un servizio dedicato alla biografia dei tre assassini islamisti pubblicata dal New York Times del 18 gennaio, leggiamo che uno di loro (Cherif Kouachi) ha dichiarato che il suo disegno omicida cominciò a formarsi nei giorni in cui vide le immagini di Abou Ghraib. I suoi insegnanti di un tempo hanno detto che la sua conversione religiosa segue e non precede lo shock provocato da quelle immagini. Di che meravigliarsi?

Ricordo perfettamente quel che pensai nel 2004, quando vidi le immagini di tortura e di umiliazione filmate da soldati e soldatesse dell’armata civilizzatrice americana: in questo momento milioni di ragazzini arabi di dieci anni, guardano la televisione e aspettano di avere venti anni per poter tagliare la testa a un occidentale. Ecco:

quei ragazzini oggi hanno venti anni, non hanno prospettive di integrazione sociale, e vivono in un ambiente in cui ogni giorno la pubblicità gli ripete che solo chi vince ha diritto di esistere. Come meravigliarsi se si arruolano in un esercito che gli dà un salario di quattrocento dollari, oltre alla speranza di tagliare la gola a qualcuno?

Non dovrebbe forse l’intero ceto politico che ha voluto la guerra iraqena, a cominciare con Blair e Bush chiedere umilmente scusa, prima che si possa ridurre l’odio che arma la mano di milioni di giovani, l’odio che poco alla volta finirà per incendiare il continente europeo come già ha incendiato il Medio Oriente e larga parte dell’Africa?  Non chiederanno scusa perché l’intenzione di Bush e di Blair era esattamente questa: iniziare una guerra (non a caso chiamata infinita) che nessuno può interrompere prima che abbia bruciato e ridotto in cenere quello che ancora rimane della civiltà.

 

La marcia dell’ipocrisia


Alla testa della marcia parigina dell’11 novembre c’era un cordone di autentici cavalieri della libertà. Si distinguevano Victor Orban, che in Ungheria ha zittito le voci di dissenso e vuole tassare l’accesso a Internet. C’era Davitoglu ministro della Repubblica turca che incarcera gli attori di una telenovela sgradita al regime, e spalleggia l’armata Daesh per colpire il popolo curdo. C’era l’ambasciatore dell’Arabia Saudita che da sempre eccelle nella liberalità e nel rispetto dei diritti civili. C’era il premier israeliano Netanyahu che guida il popolo ebreo verso il fascismo e la guerra permanente. E c’era Jean-Claude Juncker, oggi incaricato di ridurre il salario dei lavoratori europei per far quadrare i conti delle banche, mentre ieri come Presidente del Lussemburgo invitava le grandi corporation che operano in Europa a non pagare le tasse europee depositando i capitali nel forziere del suo paese.

La marcia dell’ipocrisia ha rilegittimato il governo socialista che da tre anni si segnala per la sua totale subalternità dal potere finanziario. Hollande sembra addirittura recuperare parte del sostegno che si era dileguato, in nome dell’unità repubblicana. Quanto a lungo durerà?  L’effetto che l’attacco a Charlie Hebdo innesca nell’opinione europea è quello di un moto identitario paradossale: crescono insieme il nazionalismo contro i migranti e la rabbia per l’impoverimento che viene sempre più associato all’idea di Unione europea.

L’identità europea era fondata un tempo sulla prosperità come valore condiviso. Sicurezza economica e democrazia sociale erano la differenza specifica dell’Unione europea, ma l’aggressione neoliberale e finanziaria ha trasformato l’Unione in una macchina di impoverimento. Ora per sopravvivere l’UE deve costruirsi un’altra identità. Sarà il nazional-europeismo le cui avanguardie sono i “patrioti europei” contro l’islamizzazione dell’Occidente che sfilano a Dresda ogni settimana?

 

 

La depressione europea


La sottomissione racconta il processo di islamizzazione dell’occidente, una fantasia paranoica che ha motivato il norvegese Anders Breivik a uccidere 77 adolescenti e che cresce nei recessi dell’inconscio collettivo del continente. Naturalmente non vi è nessun processo di islamizzazione dell’occidente in corso. Però in compenso c’è la guerra che tende a diffondersi dall’Ucraina, dal Medio Oriente dal Nordafrica, la guerra in cui l’Europa sta sprofondando.

Se lo vogliamo leggere come profezia politica, il romanzo di Houellebecq non sta in piedi. Racconta di una Francia governata da un partito islamico, racconta di ricevimenti parigini in cui non c’è neppure una donna (potete immaginarlo?). Racconta che la Sorbona viene comprata e finanziata dall’Arabia Saudita, e i professori licenziati e riassunti se si convertono all’Islam.

Racconta di un’Unione europea che ingloba l’Algeria il Marocco la Turchia e l’Egitto. Poco realistico.

Ma il punto non è questo. Philip Dick ha raccontato delle storie non molto credibili quando tratta di geopolitica, ma ha colto qualcosa di più essenziale.  Anche Houellebecq parla di un argomento più interessante che il destino politico della Repubblica francese: parla della depressione europea.  All’origine di questa depressione a mio parere c’è il disprezzo di sé, che è anche il nucleo più profondo della poetica di Michel Houellebecq. Non la paura, ma la depressione è la forza negativa che alimenta l’identitarismo aggressivo degli europei, come quello degli islamici naturalmente.

La depressione di Houellebecq non ha i caratteri della malinconia romantica, non risuona del sublime di Novalis, né si lascia trascinare dalla dolcezza panica dell’infinito leopardiano. Quella contemporanea, che Houellebecq esprime genialmente è una tristezza sordida, che nasce dal disgregarsi della simpatia dell’umano per l’umano, e che si manifesta come pulsione sessuale disagevole, autistica, vergognosa di sé, repulsione del corpo ridotto a materia organica.

 

Nietzsche islamizzato


Dopo aver colto questo nodo profondo della depressione contemporanea, La sottomissionelo scioglie, avviandolo verso un elogio (questo davvero geniale, dal punto di vista filosofico) della sottomissione. Nel romanzo di Houellebecq la sottomissione costituisce la forza culturale, la forza psichica e quindi politica che rende l’Islam così potente da conquistare l’Europa. Rediger, Rettore della Sorbona islamizzata, convertito all’Islam e avviato verso una carriera politico-accademica di altissimo profilo si esprime così: “Vede, l’Islam accetta il mondo e lo accetta nella sua integrità, accetta il mondo così com’è, per dirla con Nietzsche. Per il buddismo il mondo è dukkha, inadeguatezza, sofferenza. Il cristianesimo stesso manifesta serie riserve, Satana non viene descritto principe di questo mondo? Per l’Islam invece la creazione divina è perfetta, è un capolavoro assoluto, Cos’è in fondo il Corano se non un immenso poema mistico di lode al Creatore e di sottomissione alle sue leggi?”

 

Nel caotico nulla universale la sottomissione è proposta come unica condizione della pace dello spirito, e anche come unica condizione del successo.

Infatti la sottomissione alla volontà suprema (quella di Allah o quella del Mercato) non esclude affatto (anzi implica) la sopraffazione dell’uomo sull’altro uomo, e particolarmente la sopraffazione dell’uomo sulla donna. Il rettore della Sorbona al soldo dei Sauditi spiega la poligamia in termini islamico-darwinisti. Il maschio dominante può avere molte spose mentre il maschio perdente deve accontentarsi di donne pubbliche o della masturbazione, perché in questo modo si migliora la specie.

 

“Nel caso dei mammiferi, tenuto conto del tempo di gestazione delle femmine in rapporto alla capacità di riproduzione quasi illimitata dei maschi, la pressione selettiva si esercitava innanzitutto sui maschi. Se alcuni si vedevano concesso il godimento di più femmine altri dovevano necessariamente esserne privati – andava dunque considerata non un effetto perverso della poligamia bensì come il suo vero scopo. Era così che si compiva il destino della specie.” (228)

 

 

Umanesimo e teologia


Il nemico ideologico di Houellebecq è l’umanesimo.

“la sola parola umanesimo mi metteva una leggera voglia di vomitare.” (213) dice il personaggio principale del libro.

Naturalmente occorre capirsi quando parliamo di umanesimo.

Intendo qui l’Umanesimo come condizione di indeterminatezza ontologica dell’agire umano, come indipendenza del destino storico da ogni principio teologico.

In questo senso l’umanesimo è la negazione di ogni teologia, non solo delle teologie religiose tradizionali, ma anche della teologia economica neoliberista che si fonda sul principio “there is no alternative”.

Pensiamo al modo in cui Pico della Mirandola inizia il movimento umanistico all’inizio del secolo XV. Nella Oratio de dignitate homini Pico mette cortesemente alla porta Dio, e lascia all’uomo l’ebbrezza angosciosa di scegliere il suo destino al di fuori di ogni disegno prestabilito.

Il depresso professore protagonista del suo romanzo di Houellebecq disprezza l’umanesimo perché per lui l’umano si riduce al biologico, al pulsionale, e perché gli sfugge la genesi culturale del desiderio. La libertà umanistica è consapevolezza, immaginazione, costruzione linguistica in assenza di un fondamento ontologico.

In questa dimensione si fonda la libertà dell’avventura moderna, che solo secondariamente è libertà politica, ma prima di tutto è libertà ontologica, autonomia del divenire da qualsivoglia essere.

Il matrimonio dell’economia con la tecnica ha costruito però le condizioni di una nuova teocrazia. La macchina globale del mercato, l’economia come destino implicito senza alternative è il ritorno di dio nell’epoca della tecnica. La sottomissione è il destino dell’uomo nell’epoca post-umanistica in cui viviamo. E l’Islam non è che il controcanto alla sottomissione liberista.

L’islamizzazione che descrive Houellebecq è neoliberismo più sharia. E’ l’Islam moderato che piace tanto ai giornalisti occidentali, e che i Fratelli Islamici hanno tentato di costruire in Egitto. Una doppia teocrazia: quella islamica però rispettosa di quella liberista. Quando il partito Islamico ha preso il potere nella Francia immaginaria di Houellebecq, il suo leader, Muhamad Ben Abbes, punta alla liquidazione definitiva della spesa pubblica e alla privatizzazione generalizzata.

 

“La sinistra aveva sempre avuto la capacità di far accettare riforme antisociali che se fossero venute da destra sarebbe state vigorosamente respinte; ma quello sembrava ancora essere ancor più il caso del partito musulmano….

nel nuovo sistema l’istruzione obbligatoria valeva solo fino alla fine delle scuole primarie, ossia fino all’età di dodici anni; veniva ripristinato il diploma di fine studi che diventava il normale coronamento del percorso educativo. Di lì in poi si incoraggiava l’indirizzo dell’artigianato; quanto al finanziamento dell’istruzione secondaria e superiore diventava interamente privato.”

 

Identità o singolarità


Leggendo La soumission si prova l’impressione che l’autore stia descrivendo un mutamento impossibile della società europea. Inimmaginabile quindi impossibile. Anche io l’ho pensato leggendolo. Ma è sbagliato.

Dieci anni fa era inimmaginabile quel che è accaduto in Europa negli ultimi cinque anni. Non potevamo immaginare che la vita di un terzo della società sarebbe stata distrutta, che un paese come la Grecia sarebbe stato ridotto in condizioni di miseria e disperazione, che un quarto del patrimonio industriale italiano sarebbe stato azzerato, che la disoccupazione avrebbe raggiunto livelli come gli attuali, che la recessione si sarebbe impadronita stabilmente del futuro. Non lo immaginavamo però era possibile, tanto è vero che è accaduto.

La follia teocratica imposta dal capitalismo finanziario ha realizzato l’inimmaginabile.

L’impoverimento selvaggio che il capitale finanziario ha portato alla società europea scatena reazioni identitarie in conflitto fra loro.

Il premier italiano, il quale spesso parla perché ha la lingua in bocca, ha detto che l’identità è una bellissima cosa.

Occorre invece dire che identità è un concetto senza contenuto e senza senso. Cosa sarebbe l’identità? Sarebbe ciò che ti differenzia dagli altri? Sarebbe ciò che ti rende uguale ad alcuni? L’identità è un mito che confonde la visione: la differenza risiede nel singolare, non nell’appartenenza a un popolo, a una nazione o a una razza.

Il singolare si congiunge ad altri singolari, non per appartenenza, ma per condivisione solidale.

L’identità è un costrutto psico-politico che serve generalmente a rinsaldare un corpo sociale che ha perso il senso della solidarietà. L’identità si afferma attraverso l’aggressione, quando i lavoratori perdono coscienza del loro comune interesse e sanno riconoscersi soltanto come serbi o come croati, come bianchi o come neri, come islamici o come cristiani. Hanno perso la guerra sociale, e si preparano per altre guerre.

La singolarità fraterna è il punto di partenza per la ricostituzione della solidarietà sociale: la libertà dell’amicizia che non riconosce appartenenze e non accetta riduzioni identitarie. Su questa disidentità si fonda una comunità non oppressiva. Non la comunità dell’essere ma la comunità del sentire, non la comunità territoriale ma la comunità dei nomadi che si incontrano in un luogo per poi disperdersi e ritrovarsi dove gli pare.

 

gennaio 2015

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