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Alekos Panagulis e l’attentato a Papadopoulos

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Il 13 agosto 1968 il poeta e rivoluzionario Alexandros Panagulis, insieme ad altri compagni della «Resistenza greca», mette in scena nei pressi di Varkiza l’attentato al dittatore Georgios Papadopoulos, salito al potere con un colpo di Stato militare, detto “dei colonelli”, nell’aprile del ’67. Alexandros (Alekos per gli amici – e per la polizia), nato nel 1939 ad Atene, era il secondogenito di tre fratelli, tutti democratici e antifascisti (il maggiore, Giorgios, fu anch’egli vittima del regime). Dopo essersi laureato in Ingegneria Elettronica al Politecnico nazionale di Atene, Alekos diserta il servizio militare, fonda il gruppo «Resistenza Greca» (movimento politico che i colonnelli non riuscirono mai a smantellare) e si auto-esilia a Cipro, dove per mesi progetta un piano d’azione per sbarazzarsi di Papadopoulos. L’attentato, tuttavia, fallisce: delle due mine che dovevano far saltare in aria la Lincoln blindata del dittatore ellenico ne esplode solo una. Per una banale disattenzione, imputabile ad un compagno di Alekos, i cavi di collegamento al detonatore si intrecciano e si strappano nel momento del posizionamento degli esplosivi. La distanza tra il detonatore e le mine si accorcia e, cambiando così i tempi di esplosione, ne esplode solo una dopo che l’auto blindata passa sul ponte che collega la zona di residenza di Papadopulos alla capitale greca. Panagulis, autore materiale dell’attentato, viene catturato e arrestato. Condotto nel famigerato palazzo dell’Esa (i servizi segreti greci), è torturato e seviziato per mesi, quindi sottoposto ad un processo farsa che lo condanna a morte. Sarà lo stesso Panagulis, durante un processo che resta nella memoria soprattutto per l’apologia di due ore che Alekos, difensore di se stesso, esporrà ai giudici, ad accusarsi, rammaricandosi per non essere riuscito nella sua impresa, e a proporre la sua condanna a morte per fucilazione: «Voi siete i rappresentanti della tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche che il canto del cigno di ogni vero combattente è l’ultimo singulto dinanzi al plotone di esecuzione». In realtà la condanna a morte, per quanto più volte rimandata, non fu mai eseguita, plausibilmente per non fare dell’uomo un eroe. Gli anni del carcere furono per lui un calvario disumano, ma Panagulis trovò sempre la forza per sopportare e per ribadire le sue convinzioni, anche attraverso la poesia:

Le lacrime che dai nostri occhi/ Vedrete sgorgare/ Non crediatele mai/ Segni di disperazione/ Promessa sono solamente/ Promessa di lotta (Promessa di Alekos, febbraio 1972). In una lettera dal carcere nell’ottobre del 1970 descrive così alcune delle torture, fisiche e psichiche (di quelle sessuali non volle mai parlare) a cui fu sottoposto: «frustato con fili di ferro e filo spinato su tutto il corpo; colpi sulle piante dei piedi con tubi; colpi con spranghe di ferro sul petto; bruciature di sigarette sulle mani e sugli organi genitali; introduzione nell’uretra di un ago sottile arroventato con un accendino; occlusione delle vie respiratorie fino all’asfissia; pugni; depilazioni; colpi della testa sul miro e sul pavimento; privazione del sonno; manette in permanenza; privazione di ogni possibilità di difesa con il rifiuto di consegnarmi le pratiche giudiziarie prima del processo».

È proprio nella “tomba”, una cella di due metri per tre, che scrive i suoi poemi migliori, spesso sulle pareti o su pezzi microscopici di coperta, a volte con il suo stesso sangue: Un fiammifero per penna / sangue gocciolato in terra per inchiostro / l’involto di una garza dimenticata per foglio / Ma cosa scrivo? / Forse ho solo il tempo per il mio indirizzo / Strano, l’inchiostro s’è coagulato / Vi scrivo da un carcere / in Grecia (Il mio indirizzo, giugno 1971). Milleottocentotrentadue giorni e milleottocentotrentadue notti. Alekos, tra tentativi di evasione, ripetuti scioperi della fame (che gli permettevano di ottenere carta e penna) e il rifiuto della grazia, resterà in carcere fino all’agosto del 1973; uscirà per l’amnistia e verrà in esilio in Italia con la compagna Oriana Fallaci. Ritornerà in Grecia solo l’anno successivo, dopo la caduta del regime dittatoriale. Alekos si candiderà alle elezioni e verrà eletto deputato. Ma non smetterà mai di combattere il potere e denunciare le collusioni tra il vecchio regime e il nuovo governo, in particolare quelle del ministro della Difesa Evangelos Averoff, capo dell’esercito ancora corrotto e con un potere maggiore del Presidente della Repubblica. Alekos era in possesso dei documenti che avrebbero provato i legami di Averoff con la dittatura ma, due giorni prima della presentazione in Parlamento di quelle carte, fu ucciso, il 1 maggio del 1976, in un incidente automobilistico. E mentre le perizie parleranno di un incidente costruito “ad arte”, l’inchiesta ufficiale affermerà che si era trattato soltanto di un errore dello stesso Panagulis, la cui vettura era finita nello scivolo di un’autorimessa.

«Zi! Zi! Zi!» (vive! vive! vive!). Questo il grido con cui un milione e mezzo di persone salutò al suo funerale, il 5 maggio del 1976, l’eroe-poeta della resistenza greca. Se per vivere, o Libertà/ chiedi come cibo la nostra carne/ e per bere/ vuoi il nostro sangue e le nostre lacrime/ te li daremo /Devi vivere (Devi vivere, dicembre 1971).

Guarda “Alekos Panagoulis – ALTRI SEGUIRANNO – presentazione dell’intervista inedita“:

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