Panzarini Lino “Pippo” comunista, confinato e partigiano
Lino Panzarini nacque il 16 aprile 1910 da Giovanni e Gasparini Carmela a Correzzo di Gazzo Veronese ( prov. di Verona), terzultimo dei loro cinque figli.
Il paese d’origine della famiglia affonda nella pianura padana e risulta più vicino a Mantova che a Verona, al centro di una zona delimitata dalle fortezze militari dello storico quadrilatero (quelle ‘Mantova, Verona, Legnago e Peschiera’ delle risorgimentali guerre d’indipendenza, che tutti a scuola abbiamo imparato a memoria) per cui il padre, sfollato dal territorio tra il 1914 ed il 1915 (gli anni della I guerra mondiale), emigrò ad Anzola con la moglie e i figli Dante, Maria e Aquilino (Lino) per lavorare la terra. Ad Anzola il padre Giovanni, che qui fu soprannominato in dialetto “Al Mant’ven” (il mantovano), e la moglie “Carmelina” si stabilirono nella borgata Salvagna, alla Cà del Macero, nei pressi delle scuderie Orsi-Mangelli, dove nacquero altri due figli, Antonietta (nel 1916) e Bruno (nel 1920).
Ad Anzola Lino frequentò le scuole elementari fino alla 4ª classe. Poi, subito al lavoro. Quando la questura stilò su di lui il primo rapporto, il 26 settembre del ’31, era ventunenne, viveva in via Madonna dei Prati ad Anzola, era celibe e faceva il muratore. Nella descrizione dei connotati, di lui sono segnalati la statura media, la piccola corporatura, i folti e lisci capelli castani, un viso squadrato con sopracciglia di disegno netto, orizzontale, la fronte sfuggente e la bocca piccola e lineare, un neo al lobo mandibolare ed il collo corto e grosso. Se ne descrive l’andatura disinvolta, l’abbigliamento da operaio, il carattere impulsivo, la discreta educazione, la poca cultura, l’assiduità al lavoro, il buon comportamento verso la famiglia, ma l’abitudine a frequentare la compagnia di sovversivi.
A quella data risultava infatti iscritto alla federazione giovanile comunista (F.G.C.I.) ormai dall’estate del 1930, per i primi due mesi con funzione di capocellula, poi come semplice membro, senza che a suo carico risultasse altro che la consegna ad altri compagni -per la diffusione- di stampa comunista clandestina in occasione del 1° agosto 1930, quando furono organizzate manifestazioni contro la guerra in tutta la provincia. Partecipò a diverse riunioni politiche, ma alla Questura non risultava che avesse animato manifestazioni o che ricoprisse incarichi organizzativi di rilievo.
Il 15 febbraio 1931, tuttavia, fu arrestato con tanti altri e deferito al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato “per attività comunista”, ma in base alla sentenza del 30-6-1931 della Commissione Istruttoria del predetto Tribunale Lino Panzarini fu assolto per insufficienza di prove dall’imputazione dei reati di appartenenza e propaganda comunista. Trattenuto ancora in galera, il 21 luglio del 1931 egli avanzò allora istanza alla Questura di Bologna per essere piuttosto inviato a svolgere il servizio militare.
Venne invece proposto per l’assegnazione al confino di polizia (ai sensi dell’art. 181 n. 3 della legge di P.S.), nonostante la precedente assoluzione per gli addebiti contestatigli, e il confino gli fu effettivamente assegnato per la durata di ben cinque anni, in base all’ ordinanza 4 settembre 1931 della Commissione Provinciale di Bologna; venne quindi destinato a Larino (in Molise, prov. di Campobasso), dove fu immediatamente tradotto, a seguito del telegramma ministeriale n.25570 dell’11 settembre 1931.
E lì rimase fino al 12 agosto 1932, per quasi un anno, finché le autorità decisero di trasferirlo sull’isola di Ventotene.
Del 21 dicembre 1932 è invece una lettera inviata dalla madre, Carmelina Gasparini, al Duce, che lasciava trasparire in modo ingenuamente scoperto il disappunto di non aver ancora visto tornare a casa il figlio, nonostante l’amnistia proclamata il 5 novembre del 1932 per tutti i detenuti, in occasione del decennale del regime.
In realtà Panzarini Lino non fu liberato dal confino e rimandato a casa per Natale, ma ben due mesi dopo, il 15 febbraio 1933, dopo due anni esatti esatti tra carcerazione e confino, munito di foglio di via obbligatorio e con l’ingiunzione di presentarsi subito ai carabinieri, dai quali continuò poi ad essere vigilato fino a che non fu chiamato sotto alle armi.
Nemmeno un anno dopo infatti, l’11 aprile 1934, figurava in un elenco di “militari schedati per cattivi precedenti politici”, che il Distretto Militare di Bologna, Ufficio Reclutamento e Mobilitazione, inviò alla Questura della città per avvisare i funzionari dell’assegnazione ai rispettivi Corpi di nove soldati schedati in precedenza come sovversivi: Lino Panzarini era tra di loro e venne destinato al 20° Fanteria “Brescia” di Reggio Calabria.
Mentre Panzarini Lino prestava servizio militare in Calabria, morì la madre Gasparini Carmelina, che dunque quel figlio vicino a sé poté tenerselo ben poco tempo, e in data 21 aprile 1934 Lino Panzarini chiese una licenza straordinaria per la morte della genitrice. La ottenne solo otto mesi dopo, il 23 dicembre 1934: trenta giorni, cioè fino al 21 gennaio 1935 quando, come specificato nel permesso, entro sera avrebbe dovuto fare rientro nella sua sede di appartenenza. Nel foglio inviato dal Colonnello Comandante del 20° Fanteria “Brescia” di Reggio Calabria, V. Della Mura, alla Questura di Bologna, per avvisare dello spostamento del fante Panzarini, ancora lo si qualifica come ex” confinato politico” anziché semplice fante, a rimarcare come il trattamento riservatogli fosse legato ancora ai suoi “cattivi precedenti politici”.
Verso la fine di quell’anno, Lino Panzarini il 30 novembre 1935 sposò Norma Bucchignoli, dalla quale ebbe poi due figli, Agostina nel 1938 e Paolo nel 1941.
Dopo il servizio militare Lino Panzarini riprese a fare il muratore, ma anche il bracciante all’occorrenza, lavorando a Bologna e stabilendosi a Borgo Panigale, in via del Faggiolo, cambiando spesso casa lungo la via, prima al n.55, poi al 41, quindi al 57 e 37.
Il 28 dicembre ’40, a guerra già iniziata, Lino Panzarini fu di nuovo richiamato sotto le armi e assegnato alla I Compagnia Mortai da 81 presso il battaglione di stanza a Minerbio (prov. di Bologna) fino all’armistizio, l’8 settembre 1943.
Dopo l’armistizio Lino Panzarini tornò al lavoro, continuando a fare il muratore , senza suscitare particolari sospetti nelle forze dell’ordine, che ufficialmente ancora lo tenevano d’occhio, tanto che a fronte della sua domanda del 28 marzo 1944 di poter essere autorizzato a circolare in bicicletta, il 5 aprile gli venne subito concessa, sulla base di una relazione stilata il 4 aprile ’44, dalla GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) di Anzola, in cui -oltre a riepilogare la storia dei trascorsi di Lino Panzarini- si dava il via alla concessione del permesso di circolazione in virtù del fatto che dopo il 1935 “lo stesso non ha dato luogo a rimarchi sulla sua condotta dimostrandosi pentito di essere stato trascinato durante la sua giovane età nelle correnti sovversive. (…) Dopo gli ultimi avvenimenti dell’8 settembre non ha dato luogo a rilievi sulla sua condotta né si è fatto notare in compagnia di elementi sovversivi o sospetti tali. (…)” e si concludeva con l’assicurazione rivolta alla Questura che Lino Panzarini “….non è ritenuto capace di commettere azioni terroristiche o delittuose in genere.”
Ma la realtà era ben diversa. Lino Panzarini aveva ripreso in pieno l’attività antifascista e la sua militanza comunista, che non aveva mai interrotto, stavolta però con la circospezione che i tempi richiedevano e che la matura responsabilità di un uomo con famiglia e figli gli imponeva.
Secondo la ricostruzione di una fonte basata su testimonianze dirette , alla fine di settembre ’43 la casa dei Panzarini, della sua famiglia d’origine, fu sede di una prima riunione a Ca’ del Macero, a cui parteciparono il capofamiglia dei Panzarini,” al Mant’ven”, i figli Antonietta, Bruno, che nella Resistenza prese il nome di battaglia “Orso”, Lino “Pippo” appunto, Duilio Carpanelli, appena tornato dal suo confino ed internamento, il 25 settembre 1943, Raffaele Buldini, che diventò sindaco di Anzola dopo la Liberazione, Erminio Melega, Clorindo Grassilli, Cesare Landuzzi, Duilio Tagliavini, per decidere il da farsi, riorganizzare le fila, riavviare l’attività antifascista secondo modalità coerenti con il nuovo scenario che l’armistizio aveva aperto.
Inserito nel battaglione, che dopo la morte di E. Melega prenderà il suo nome di battaglia “Tarzan”, della 7ª brigata GAP Gianni Garibaldi, con funzione di comandante di plotone ed operativo ad Anzola Emilia e a Bologna, Lino Panzarini, nelle vesti del partigiano gappista “Pippo”, condusse una doppia vita, in parte apparentemente regolare e in parte clandestina fino al luglio del ’44, quando ci fu un’irruzione dei repubblichini durante un’altra riunione alla Ca’ del Macero, organizzata per fare un bilancio della dimostrazione tenuta il giorno prima dalle donne contro il Podestà in località Immodena (frazione di Anzola Emilia –BO). I militi fascisti stavano facendo un rastrellamento della zona, con l’ordine di eseguire anche arresti mirati su segnalazione e cercavano tra gli altri lo stesso Lino Panzarini, che riuscì tuttavia a non farsi arrestare, spacciandosi per un contadino della casa confinante. Da quel momento “Pippo” entrò definitivamente in clandestinità, costretto a cambiare spesso residenza per sfuggire ai controlli dei fascisti, finché verso i primi di ottobre ’44, per tutti i partigiani giunse l’ordine del CUMER di radunarsi in città, a Bologna, per preparare ed attendere il momento dell’insurrezione e della Liberazione, quando gli alleati avessero dato il via libera.
Ubbidendo agli ordini del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna (CUMER), la 7ª brigata GAP Gianni Garibaldi cominciò segretamente a radunarsi in città e si insediò nei pressi di Porta Lame, in due edifici limitrofi : nel Macello Comunale di via Azzo Gardino, dove 75 uomini si sistemarono in alcuni stabili parzialmente distrutti dai bombardamenti, e nell’ex-Ospedale Maggiore di via Riva Reno, abbandonato dopo il bombardamento del 24 luglio 1943 e ridotto in macerie sui terreni in cui oggi sorge il Palazzetto dello Sport di Piazza Azzarita, nel quale furono acquartierati altri 230 uomini. Con la 7ªGap furono radunati anche i partigiani della 62ª bgt “Camicie Rosse” Garibaldi e la 66ª “Jacchia”, provenienti dalle alture appenniniche.
La 7ª Gap era stata chiamata a raccolta in tutte le sue componenti, che constavano di sei battaglioni (o distaccamenti): tra questi uomini in attesa c’era dunque anche Lino Panzarini, comandante di plotone nella “Tarzan” di Anzola Emilia, che perciò fu tra i protagonisti della battaglia di Porta Lame, che tutti questi trecento partigiani furono costretti ad affrontare il 7 novembre 1944, allorché furono scoperti mentre erano nascosti tra le macerie descritte, aspettando quell’ insurrezione che poi non venne mai, perché gli alleati -diversamente da tutte le previsioni ed aspettative- rimasero bloccati sulla Linea Gotica per tutto l’inverno del ’44 e non poterono dare avvio ad alcuna battaglia urbana nei tempi e nei modi attesi e programmati dal CUMER.
All’alba del 7 novembre dunque (erano appena le 5.30 del mattino), alcuni reparti delle BBNN (Brigate Nere), della Feldgendarmeria e dei Reparti d’Assalto della polizia attuarono un rastrellamento nella zona del Macello. Casualmente o su segnalazione, ancor oggi non lo si sa per certo. Fatto sta che ne nacque un combattimento che durò l’intera giornata e che, nonostante la sproporzione di uomini e mezzi in campo a favore dei nazifascisti, volse a favore delle forze partigiane.
Vistisi scoperti, i partigiani, che si trovavano al Macello divisi in due stabili, cominciarono a sparare con le armi leggere di cui disponevano, mentre a due giovani partigiane, Rina Pezzoli “Nadia” e Diana Sabbi, fu affidato il rischioso incarico di uscire dalla base per raccogliere informazioni sulla consistenza, sulla dislocazione e sulla dotazione di armi degli attaccanti. Entrambe però furono catturate e non riuscirono a rientrare per dare notizie. I militi fascisti fecero diversi assalti, nel tentativo di occupare gli edifici in cui erano rintanati i partigiani, senza però farcela, ma causando le prime perdite nelle file partigiane: Nello Casali “Romagnino”, fu il primo caduto tra i partigiani, mentre altri vennero feriti e furono affidati alle cure del medico, Luigi Lincei, “Sganapino”.
A metà mattina, verso le 10, i tedeschi della Feldgendarmerie, comandati da Hugo Gold, collocarono in una postazione di via Carlo Alberto (oggi chiamata via Don Minzoni) un cannone da 88 e una mitragliera pesante a due canne. Il cannone centrò uno dei due stabili in cui erano annidati i partigiani demolendolo, per cui i partigiani dovettero abbandonarlo, per rifugiarsi nell’altro, che era seminterrato e quindi più protetto dai colpi dell’artiglieria. Nel corso di questo blitz, altri quattro partigiani rimasero sul campo.
Nel primo pomeriggio, verso le 15,30, per i Tedeschi giunse anche un carro armato Tigre, fatto arrivare dal fronte, che cominciò a cannoneggiare anche il secondo edificio della base partigiana del Macello, perciò William Michelini -che aveva sostituito al comando del gruppo partigiano lì ricoverato Gualandi, rimasto gravemente ferito- decise di abbandonare la base. Divisi in tre gruppi, il primo e il terzo di partigiani armati, il secondo di partigiani che trasportavano i feriti, usando dei fumogeni per proteggersi, lasciarono l’edificio, scendendo nel canale Cavaticcio, che oggi non si vede più perché è stato interamente coperto e cominciarono a risalirlo fin verso via Roma (oggi via Marconi). I fascisti, che presidiavano i due argini del Cavaticcio, non li videro perché la loro postazione si trovava molto in alto sulle rive, ma anche perché i fumogeni e l’oscurità fecero da schermo e consentirono ai partigiani di giungere in piazza Umberto I (oggi Piazza dei Martiri) attraverso via Marghera (oggi via Fratelli Rosselli), dove però incapparono in un posto di blocco fascista, che riuscirono comunque in breve tempo a sopraffare. Dopo di che si divisero in quattro gruppi, ricoverando i feriti inizialmente in abitazioni private, poi nell’infermeria partigiana di via Duca d’Aosta 77 (oggi via Andrea Costa). Gli altri rientrarono nelle vecchie basi.
Contemporaneamente gli uomini sistemati nell’’ex Ospedale Maggiore attaccarono alle spalle i nazifascisti per permettere ai compagni del Macello di mettersi in salvo, credendoli ancora accerchiati, all’oscuro della loro decisione di allontanarsi attraverso il canale del Cavaticcio.
Colti di sorpresa i nazifascisti si sbandarono ed i partigiani riuscirono ad entrare negli edifici del Macello, ma non trovarono più i loro compagni, per cui senza por tempo in mezzo, prima che gli avversari potessero ritornare riorganizzati, abbandonarono l’area e rientrarono nelle loro vecchie basi.
Panzarini, ricoverato nell’infermeria partigiana, vi rimase fino a dicembre, col passare dei giorni vedendo attorno a sé aumentare il numero di feriti, con l’aggiunta dei partigiani bisognosi di cure reduci dalla battaglia della Bolognina, che si era svolta tra il 14 e il 15 novembre. Proprio per il numero crescente di ricoverati, si decise di trasferire in un’altra struttura tutti i partigiani ospitati, ma il 9 dicembre la delazione di una spia anticipò l’operazione di sgombero, portando alla cattura di tutti i presenti, tranne due che riuscirono a fuggire, mettendosi in salvo.
Non Lino Panzarini, che fu arrestato con gli altri dodici compagni, portato nell’ex caserma del VI Reggimento dei Bersaglieri in via Magarotti, ora via dei Bersaglieri, dove fu interrogato e seviziato, finché quattro giorni dopo venne trascinato con altri undici al Poligono di Tiro di Borgo Panigale, a poca distanza da casa sua e dai suoi familiari, dove fu giustiziato il 13 dicembre 1944.
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