Gli scioperi di Porto Marghera
Nel luglio–agosto 1970 ci fu uno dei più importanti momenti di organizzazione autonoma all’interno delle fabbriche del nord est. Questo ciclo di lotte, che ha il suo apice nelle giornate che vanno dal 2 al 5 agosto 1970, riguarda la tragica situazione delle imprese d’appalto a Marghera, in cui le prime forme di delocalizzazione e outsourcing vengono messe in atto dal padronato nel totale silenzio/assenso del sindacato e dei partiti.
Dei quasi quindicimila dipendenti di queste imprese, spesso cooperative “rosse”, circa 4500 lavorano nel settore petrolchimico nei reparti più nocivi, svolgendo lavori di pulizia o piccola manutenzione e venendo privati di ogni mezzo di protezione, oltre che di servizi come la mensa aziendale, e arrivando a lavorare fino a 10-12 ore al giorno percependo comunque uno stipendio decisamente inferiore a quello di altri dipendenti.
Agli inizi di agosto i lavoratori hanno già sulle spalle 200 ore di sciopero. Nel mese di luglio la loro azione è stata intensa e si è incrociata con quella degli operai dei grandi complessi che si battono contro ritmi, orari e cottimi. Le richieste sono quelle di una maggiore garanzia e di un forte aumento del salario. Il 3 agosto, durante uno dei tanti scioperi di due ore, alcuni operai di Lotta continua propongono di andare in corteo fino al cavalcavia per poi bloccarlo insieme alla stazione. Al cavalcavia che collega Mestre con Marghera, la polizia in grandi forze sbarra il passo al corteo e inizia le cariche. Sul momento i caroselli di camionette, le bombe lacrimogene, i getti di idrante, disperdono la massa. Ma dopo un certo smarrimento gli operai si raggruppano e reagiscono alle cariche costruendo barricate, occupando la stazione e dando fuoco alle traversine. Si accendono gli scontri: è dalla fine della guerra che la polizia non interviene così duramente. La polizia insegue gli scioperanti sin al quartiere Ca’ Emiliani, praticamente attaccato al Petrolchimico, e la popolazione aiuta i dimostranti. Alla fine la polizia decide di ritirarsi, non senza trarre dieci operai in stato di fermo.
Nel frattempo la notizia degli avvenimenti si propaga per le fabbriche. I primi ad uscire sono gli operai della SAVA , che accorrono a dare manforte ai loro compagni di lavoro. Seguono gli operai della Breda e Italsider. Alla Chatillon, Azotati, Siasi, Leghe Leggere, Petrolchimico, viene bloccata la produzione, non senza qualche scontro con i crumiri, e si formano, davanti ai cancelli, gruppi di operai pronti ad intervenire. Il sindacato inizialmente dà solidarietà a parole, ma poi tramite mezzo stampa, “l’Unità” compresa, si affretta ad accusare dei disordini i “gruppuscoli” di Lotta continua e Potere operaio. L’indomani, in tutte le fabbriche di Porto Marghera avvengono riunioni operaie. I sindacalisti tentano di placare gli animi e alla fine viene deciso uno sciopero di 24 ore. Alle 10 i 2000 dipendenti della SAVA sono già davanti ai cancelli ma sul Piazzale trovano uno schieramento di 600 poliziotti in assetto di guerra, fatti affluire in nottata da Trieste, Padova, Verona. Gli operai chiedono l’allontanamento della polizia mentre alcuni agenti imbastiscono le prime provocazioni.
Nascono i primi violenti scontri, mentre la popolazione aiuta gli operai a ricostruire le barricate che la polizia aveva rimosso nella notte. Dopo un massiccio lancio di lacrimogeni cominciano i caroselli, cui segue una vera caccia all’uomo che si protrae fin dentro le case.
La polizia, costretta ad indietreggiare dalla furia dei manifestanti e dal ferimento di alcuni agenti, perde la testa: in via Pasini un agente spara a freddo sulla folla ferendo gravemente tre dimostranti. Subito gli operai disarmano il poliziotto e rendono inservibile il fucile. La notizia che la polizia spara si sparge per la zona. Dalle fabbriche accorrono gli operai. Gli scontri si riaccendono mentre nei quartieri si erigono barricate e le azioni si svolgono lungo un fronte di 5 Km. Anche a fronte di ciò, la polizia batte in ritirata. Il 5 agosto è il giorno del corteo indetto dal sindacato fino in piazza Ferretto. Due mestieranti sindacalisti prendono la parola e affermano che per merito anche di queste aspre lotte, cui loro non avevano preso parte, si è aperta una trattativa con il padrone. L’unica soluzione possibile per placare quell’ondata di rabbia autonoma di classe infatti è aumentare gli stipendi, cosa che puntualmente avviene pochi giorni dopo.
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