Jean Paul Sartre
Jean-Paul Sartre (1905-1980) nacque a Parigi il 21 giugno 1905.
Studiò filosofia e psicologia all’Ecole Normale Supèrieure, dove conobbe Paul Nizan, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Aron.
Nel 1929 conobbe Simone de Beauvoir, che sarà la sua compagna sino alla fine della vita.
Dopo aver insegnato filosofia al liceo di Le Havre, nel 1933-1934 Sartre ebbe una borsa di studio presso l’Istituto di cultura francese di Berlino e si dedicò allo studio della fenomenologia di Husserl; sotto l’influenza di essa, ma anche dell’esistenzialismo di Heidegger, scrisse i suoi primi lavori: L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939), L’immaginario (1940), il celebre romanzo filosofico, La nausea (1938), e la raccolta di racconti Il muro (1939).
Richiamato alle armi, nel giugno del 1940 Sartre fu fatto prigioniero dai tedeschi, ma fu poi liberato e potè tornare a Parigi, dove nel 1943 pubblicò la sua opera filosofica più impegnativa, L’essere e il nulla, e il suo primo lavoro teatrale, Le mosche.
Subito dopo la guerra lavorò alla serie di romanzi intitolati I cammini della libertà e, insieme a Marleau-Ponty, Aron, Camus fondò la rivista Les temps modernes.
Agli inizi degi anni ’50, con I comunisti e la pace, pubblicato su Les temps modernes, Sartre si avvicinò come ‘compagno di strada’ al Partito Comunista Francese: di qui la rottura con Camus e Marleau-Ponty, che nelle Avventure della dialettica (1955) definì Sartre ‘ultrabolscevico’.
Nel 1956 il rapporto Kruschev al XX congresso del PCUS e la repressione della rivolta antisovietica in Ungheria incrinarono pesantemente i rapporti fra gli intellettuali ed i partiti comunisti europei, ed il netto distacco di Sartre dal PCF avvenne con la pubblicazione dell’articolo Il fantasma di Stalin.
È l’inizio di una profonda riflessione critica sul marxismo, affidata al saggio Questioni di metodo, poi incluso nella Critica della ragion dialettica, pubblicata nel 1960.
Lo scritto autobiografico Le parole (1963) gli valse il conferimento nel 1964 del premio Nobel, che rifiutò.
Del 1972 un’imponente biografia di Flaubert, L’idiota di famiglia.
Sartre si schierò contro la politica coloniale francese in Algeria, entrò a far parte del Tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam e nel 1968 appoggiò il movimento studentesco, criticando ferocemente il PCF e dirigendo il giornale La cause du peuple.
Sartre morì a Parigi, nel quartiere latino, il 15 aprile 1980.
Le prime ricerche di Sartre sono indirizzate alla costruzione di una psicologia fenomenologica contrapposta alla psicologia e alla filosofia francesi dominate da una concezione naturalistica dei fatti psichici e dal primato indiscusso assegnato al problema della conoscenza.
Sartre ritiene che la fenomenologia * di Husserl consenta di cogliere il significato dei fenomeni psichici, grazie al concetto di intenzionalità, che permette di evitare la riduzione sia del soggetto all’oggetto, sia dell’oggetto al soggetto, cioè gli scogli antitetici del realismo e dell’idealismo. A differenza di Husserl, però, Sartre è convinto che il rapporto tra la coscienza e il mondo non sia in maniera privilegiata di tipo conoscitivo. E proprio per questo Sartre concentra le sue indagini sui temi dell’immaginazione (L’immaginazione e L’immaginario) e delle emozioni (Abbozzo di una teoria delle emozioni), cioè su sfere non controllate direttamente dalla ragione, alle quali guardavano con un certo interesse anche i surrealisti.
L’ego è solo una modalità della coscienza e, più precisamente, la modalità riflessa, secondaria rispetto a quella irriflessa, mentre le emozioni sono non manifestazioni imperfette o disturbate della coscienza, ma modalità essenziali in cui la coscienza si rapporta al mondo esterno e gli conferisce significato.
Sartre, influenzato da Heidegger, insiste sull’essere-nel-mondo proprio dell’uomo: le emozioni coinvolgono e modificano la totalità dei rapporti umani col mondo.
Con un occhio di riguardo alla psicologia della forma (Gestalt), Sartre mette in evidenza che ogni fatto psichico è forma ed è dotato di una struttura, non è la semplice composizione di elementi antecedenti isolati. L’errore della psicologia associazionistica è di frantumare la continuità della corrente psichica. Per Sartre, invece, l’immagine non è un elemento che entra a far parte della corrente della coscienza: “l’immagine è un atto e non una cosa”, è coscienza di qualcosa, ma il suo contenuto non deriva dal mondo esterno. L’immaginazione, infatti, non è la copia o la rappresentazione di una cosa che non è più presente materialmente, ma è un’attività libera, volta a fini diversi da quelli della percezione. Essa non ha dunque una mansione conoscitiva e non è valutabile secondo i parametri del vero e del falso; la sua funzione è invece derealizzante, cioè consiste nel tenere il reale a distanza, nell’essere liberi di fronte ad esso e nel negarlo, in modo da dar luogo alla costituzione di un oggetto di coscienza autonomamente caratterizzato. Condizione essenziale per l’esercizio dell’immaginazione e quindi per la formazione delle immagini è infatti il trascendere della coscienza, il suo andare al di là delle cose e della realtà particolari, cioè un atto di libertà nei confronti del mondo: del resto, spiega Sartre, è l’uomo che dà senso al mondo, mentre il mondo, di per sé, non ha alcun senso.
Fin dall’inizio della sua riflessione, Sartre pone dunque al centro il problema della libertà e individua nell’immaginazione, cioè nella negazione dell’esistente per qualcosa di altro rispetto ad esso, l’elemento fondamentale per l’esercizio della libertà stessa.
L’esistenzialismo
L’idea di libertà è al centro de L’essere e il nulla: l’essere della coscienza, che Sartre definisce il per-sé, è caratterizzato dall’intenzionalità; la coscienza è sempre coscienza di qualcosa che non è coscienza. Il correlato è l’in-sé, cioè l’essere delle cose e dei fenomeni nel loro aspetto massiccio e opaco, alieno a ogni rapporto e caratterizzato dalla sua semplice presenza. Diversamente da quanto proposto dalle filosofie idealistiche, l’essere dei fenomeni è irriducibile alla coscienza, ma anche la coscienza, in quanto capacità di trascendere le cose e le situazioni, è irriducibile all’in-sé. La coscienza, quindi, non si identifica mai con l’in-sé, è esistenza, è sempre fuori di sé, azione e movimento permanentemente proteso in avanti, senza poter mai coincidere con la propria essenza. In questo senso, la coscienza è sempre incompiutezza e mancanza alla ricerca del proprio completamento: il nulla è la condizione necessaria del per-sé, che fa sempre l’esperienza del nulla in ogni atto dell’esistere e dell’agire.
Ogni risposta che il soggetto fornisce alle proprie domande è anche sempre negazione. Il nulla è dunque intrinsecamente legato all’essere, pur non essendo da esso generato: è generato da quell’essere in cui si fa questione del nulla del suo essere, cioè dall’essere della coscienza, che si eterna a non essere l’in-sé, e la cui condizione indispensabile è la libertà; essere libero vuol dire decidere direttamente dei propri atti ed esserne totalmente responsabili.
L’atto originario in cui la libertà si cala è la scelta: essa non è tipica solo degli atti riflessivi, ma di tutti gli atti, dal momento che non è determinata solo dalla ragione, ma anche da pulsioni e intenzioni che esulano dalla riflessione; la ragione stessa, d’altronde, non è altro che una scelta possibile. La libertà della scelta crea però l’angoscia di fronte al possibile, che è indeterminato. L’esistente si scopre così condannato ad esistere sempre al di là della propria essenza, cioè ‘condannato alla libertà’: “non siamo liberi di cessare di essere liberi.”
Da qui nasce la tendenza a fuggire da se stessi, evadendo dalla propria libertà e responsabilità e reificandosi, cioè riducendosi ad una cosa tra le altre: è questa la malafede, con cui si costruisce un’immagine fasulla di sé e della propria condizione, e si recita una parte. Questa parte consiste nel mentire a se stessi, ma non si tratta di una menzogna deliberata, dato che il me che viene ingannato fa parte dello stesso io che inganna: si genera così una scissione che crea infelicità.
La coscienza incontra l’essere non solo nella realtà massiccia e opaca delle cose, ma anche nell’altro, nell’altra coscienza, e mediante essa le si presenta la speranza di poter evadere dal proprio stato di mancanza. Ma anche l’essenza dell’altro è negazione: esso è l’io che non è me.
Anche il rapporto con l’altro è, dunque, segnato da una netta negatività. L’esperienza originaria tramite la quale si istituisce questo rapporto è data dallo sguardo, nel quale l’altro mi appare in un primo tempo come una cosa, poi come una cosa che ha rapporto con altre cose e, infine, come l’altro che mi guarda. Col suo sguardo, l’altro conosce me meglio di quanto io possa conoscere me stesso, dato che io non posso mai oggettivarmi, distanziarmi come un oggetto da me stesso. In questo modo, arrivo alla conclusione che “io sono quel me che un altro conosce” e mi sento trasformato in un oggetto inerme e nudo davanti all’altro. Con lo sguardo, l’altro aliena le mie possibilità, cosicché non sono più padrone della situazione: affiorano così le emozioni del timore, del pudore, della vergogna, dell’orgoglio. I rapporti tra l’io e l’altro, cioè i rapporti tra le coscienze, sono dunque, nella loro essenza, conflittuali e Sartre può ironicamente affermare che “l’inferno sono gli altri”. Le polarità del rapporto con l’altro assumono la forma dell’odio e dell’amore, ambedue fondati sul rapporto sessuale, che svolge una mansione fondamentale nei rapporti intersoggettivi; ma sia l’odio, come tentativo di annullare l’altro nella sua alterità, riducendolo a corpo e strumento e privandolo di ogni reciprocità, sia l’amore, come tentativo di possedere l’altro senza oggettivarlo e ridurlo a cosa o a strumento, si rivelano impossibili. Naufragati i progetti di raggiungere l’unione con l’altro, tramite il suo annullamento o la conciliazione con esso, il rapporto con l’altro può assumere le vesti della cooperazione nell’essere insieme del gruppo o della classe sociale, ma anche in questi casi l’altro rimane inafferrabile e il rapporto tra le coscienze continua a configurarsi come conflittuale.
L’oggetto del desiderio dell’essere umano si ubica sempre al di là del suo essere, è un non essere, ma nel momento in cui lo desidera l’uomo lo fa essere: in questo consiste il valore, il cui senso consiste nell’essere quello in direzione di cui un essere va oltre il suo essere. I valori, dunque, non esistono oggettivamente in sé, ma nascono con l’uomo, con il per-sé, non in quanto egli li pone come qualcosa che viene ad esistere in sé, come un fatto o una cosa, ma in quanto essi si correlano alla coscienza come qualcosa che si pone sempre al di là di essa. Questo vuol dire che l’uomo è caratterizzato da una mancanza costruttiva, per la quale non raggiunge mai la piena identità con se stesso, la conciliazione del per-sé con l’in-sé, ma vive sempre nel possibile: ed è per questo che all’uomo è dato di scegliere e agire in base a valori, cercando di realizzarli nel tempo, progettandosi e trascendendo incessantemente verso un’altra situazione.
La comprensione delle scelte e dei progetti che costituiscono l’essere dell’uomo è il compito di quella che Sartre definisce “psicanalisi esistenziale”; Sartre è d’accordo con Freud che ogni gesto e ogni parola hanno senso se sono riferiti alla totalità dell’uomo, ma è del parere che Freud rimanga ancorato ad un’impostazione materialistica e deterministica, che imprigiona l’uomo nella sua natura e nel suo passato, privandolo della capacità di scelta. A suo parere, invece, la coscienza può elaborare ogni sorta di desideri, non determinati a priori, i quali si specificano in progetti particolari. L’insieme dei dati coi quali questi progetti si scontrano costituisce la situazione, che i progetti cercano incessantemente di trascendere, ma senza potersi mai sottrarre ad una situazione. Sotto questo profilo, la libertà umana è non essere e alienazione, che di volta in volta viene superata, ma mai definitivamente. La totalità cui l’uomo tende è la conciliazione di in-sé e per-sé: perciò “‘uomo è l’essere che progetta di essere Dio”, ma Dio è altro dall’uomo e pertanto risulta inattingibile.
L’uomo è dunque un ‘Dio mancato’ e una “passione inutile” e tutte le sue azioni e le sue scelte risultano assurde e negativamente equivalenti.
In L’essere e il nulla Sartre spiega che l’esistenza umana, che ha come dimensione costitutiva la coscienza, non è un dato né è riducibile ad un dato; essa è anzi continuo superamento e trascendimento del dato, dell’essere in-sé, in vista di fini e risultati che si collocano sempre oltre, che rinviano al non ancora esistente. In quanto tale, essa è dunque sempre annullamento di quel che soltanto è nella sua massiccia presenza: tramite essa, il nulla viene al mondo. Proprio per questo, il nulla è condizione della libertà come possibilità e scelta continua di trascendere il mondo. Il marxismo L’essere e il nulla fu oggetto di critica, da parte dei marxisti e dei cattolici: i cattolici vi scorsero una filosofia atea e materialistica, mentre i marxisti lo imputarono di idealismo e di pessimismo.
Nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo (1946), Sartre si difese da queste accuse, rifiutando le interpretazioni del suo esistenzialismo in chiave pessimistica e individualistica. L’esistenzialismo è una filosofia dell’uomo libero, legato da rapporti costitutivi con gli altri uomini e dalla responsabilità nei loro confronti. Egli ha dunque la sua fondamentale componente morale nell’impegno verso sé e verso gli altri, al fine di rendere più umano il mondo. In L’esistenzialismo è un umanismo Sartre cerca di smorzare il pessimismo delle sue tesi precedenti. Anzi si dichiara apertamente per l’esistenzialismo e lo considera una dottrina dell’impegno e della responsabilità.
L’esistenzialismo viene da lui definito come quella dottrina per la quale “l’esistenza precede l’essenza”, nel senso che l’uomo, in primo luogo esiste, cioè si trova nel mondo, e dopo si definisce per quello che è o vuole essere. Se dunque l’esistenza precede l’essenza, non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura umana data e immodificabile. In altre parole, non c’è determinismo, l’uomo è libero, l’uomo è libertà. E se l’uomo è libero, è anche responsabile di quello che fa. Così, dice Sartre, il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E quando l’uomo sceglie, sceglie anche per tutti gli uomini. Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché essa obbliga l’umanità intera.
“Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. È ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.”
In conclusione, l’esistenzialismo è una dottrina ottimistica perché afferma che il destino dell’uomo è nelle mani dell’uomo stesso e che l’uomo non può nutrire speranza se non nell’azione. È questo il presupposto che guida la costante denuncia sartreiana delle forme di oppressione: in questo egli ripone il compito dell’intellettuale come latore di valori universali e difensore della libertà.
In Che cos’è la letteratura? (1946-1947) Sartre delinea la figura dello scrittore impegnato e una concezione della letteratura come azione, guidata dal progetto di distanziarsi dall’esistente, mostrando la realtà quale è e conducendo all’assunzione di responsabilità nei confronti di essa. Il marxismo per Sartre, in questa fase rappresenta una teoria dell’azione rivoluzionaria, ma coniugata con una filosofia errata, materialistica e deterministica, la quale porta al settarismo e all’eliminazione della soggettività. Fedele ad una costante anarchica del suo pensiero, sebbene si schieri con gli oppressi, Sartre si sente alieno all’apparato organizzativo del partito comunista francese, subordinato all’egemonia sovietica. Ma a partire dall’opera teatrale Il diavolo e il buon Dio (1951) egli mette in luce la vanità dell’opposizione e della rivolta meramente individuale e la necessità di operare in collegamento con la classe oppressa, organizzata in partito. I fatti di Ungheria e il disgelo dopo il 1956 portano al centro del dibattito marxista in Francia, grazie anche alla riscoperta del giovane Lukàcs, i temi dell’alienazione e della reificazione. In questi anni, Sartre perviene alla conclusione, illustrata nelle Questioni di metodo (1957), che “il marxismo è l’insuperabile filosofia del nostro tempo”, dal momento che fornisce gli strumenti concettuali che permettono di comprenderlo e di trasformarlo.
Il marxismo, però, si è sclerotizzato sul piano teorico, perché i partiti comunisti, temendo che le discussioni e i dissensi potessero minacciare l’unità della lotta politica, lo hanno trasformato in un insieme dogmatico di dottrine, con la conseguente scissione fra teoria e pratica politica. Questo marxismo dogmatico, interpretando in chiave deterministica il rapporto struttura-sovrastruttura, si è privato di un’autentica capacità esplicativa dei fenomeni storici e culturali: famosissimo in questo senso è l’esempio addotto da Sartre, secondo cui Valèry è un intellettuale piccolo borghese, ma non ogni intellettuale piccolo borghese è Valèry. Questo vuol dire che per comprendere un autore e i suoi lavori non è sufficiente far riferimento alle sue condizioni socio-economiche, ma bisogna tener presente anche la sua personalità e la sua storia familiare. Di qui l’importanza che Sartre attribuisce alla psicoanalisi e alle scienze umane: su queste basi, egli costruirà in seguito la biografia di Flaubert (L’idiota di famiglia).
Si tratta allora di ricostruire il rapporto dialettico tra l’uomo e la sua situazione storica nella complessità delle sue componenti. Sotto questo profilo Sartre ritiene necessario integrare il marxismo con l’antropologia esistenzialista, capace di elaborare una teoria del soggetto della storia contro tutte le forme di meccanicismo e antiumanismo.
Il problema centrale, invece, cui ruota attorno la Critica della ragion dialettica è la comprensione della storia. Hegel e Marx hanno messo in evidenza che il motore di essa sono i conflitti e che la dialettica è il principio del movimento storico. Il marxismo dogmatico, però, ha inteso la dialettica come una legge della natura stessa; bisogna però liberare il marxismo da questa metafisica naturalistica, ritornando a porre al centro l’uomo come soggetto agente.
La dialettica, infatti, più che rappresentare la connessione oggettiva tra gli uomini, le cose e le istituzioni economiche, sociali e politiche, è in primis prassi, cioè attività totalizzante che si articola in progetti. Questa totalizzazione è sempre in corso, non coincide mai con una totalità già data: questa rappresenta piuttosto quello che Sartre definisce il pratico-inerte, il residuo della prassi, cioè la realtà oggettiva che si configura come mera oggettività, dato che l’uomo si trova a subire l’azione delle cose che egli stesso ha prodotto. Sartre condivide, in una certa misura, la tesi di Hegel dell’identificazione dell’alienazione con l’oggettivazione. La realtà materiale infatti è alterità assoluta rispetto al soggetto: essa è una minaccia incombente su ogni azione umana, la quale è costretta a esteriorizzarsi e oggettivarsi e, pertanto, non può presumere di operare con assoluta libertà e di poter realizzare tutti i propri fini: ogni azione dà luogo a risultati imprevisti e a controfinalità negative.
Il fondamento dell’azione umana è il bisogno, che costringe il soggetto ad istituire un rapporto con il mondo oggettivo: questo rapporto assume la forma del lavoro come mezzo per soddisfare quel bisogno, ma comportando un rapporto materiale diretto con le cose, impone all’uomo di farsi egli stesso oggetto. D’altronde il lavoro rappresenta anche il modello di una prassi orientata verso un fine, cioè di una totalizzazione e di un progetto volto al superamento dialettico della situazione data. Sotto questo profilo, la prassi individuale si intreccia con la prassi degli altri e la mediazione con l’altro assume la modalità fondamentale della reciprocità, cioè del riconoscimento dell’altro come soggetto anch’egli della prassi e, al tempo stesso, come mezzo per il raggiungimento di un fine, rispetto al quale anch’io sono un mezzo. La penuria, cioè la scarsità oggettiva di beni materiali per il soddisfacimento dei bisogni umani, rende però questo rapporto intersoggettivo una lotta dell’uomo con l’uomo e fa soggiacere al dominio del pratico-inerte. In questa situazione, gli uomini formano un semplice aggregato, una “pluralità di solitudini” senza alcun rapporto di reciprocità e potenzialmente conflittuali tra loro. Il modo di essere di questa molteplicità, che caratterizza la vita degli uomini nella società contemporanea, dall’attesa dell’autobus alle mansioni svolte in ufficio, è quello della serie, in cui ogni individuo ha scopi ed esercita mansioni impostegli dall’esterno ed è dunque intercambiabile con ogni altro individuo.
La reazione spontanea contro l’impossibilità di vivere come serialità è il gruppo, in quanto prassi intenzionale di soggetti umani collegati tra loro allo scopo di rovesciare questa situazione storica, sfuggendo alla passività e all’inerzia. Esso è movimento che nasce da un pericolo comune, al quale intende reagire mediante una prassi comune. Nel momento caldo iniziale si realizza una integrazione reale degli individui, che si scoprono capaci di agire secondo fini e liberi membri di un insieme organico, in cui nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti sono pervasi da una comune volontà di lotta contro comuni nemici. È il gruppo in fusione, quale si costituisce nelle fasi iniziali dei movimenti rivoluzionari. Quando però viene meno la pressione del pericolo esterno, l’evidenza di scopi e la necessità di una prassi comune tendono a sparire.
Per impedire che l’individuo ricada in forme di prassi meramente individuali, il gruppo, che prima era il mezzo per il raggiungimento di fini comuni, propone sé stesso come fine. La cosa importante diventa salvaguardare l’esistenza del gruppo e a questo provvedono l’organizzazione e poi l’istituzionalizzazione del gruppo, ma, così facendo, il gruppo ricade nella serialità. La violenza contro l’esteriorità viene allora trasferita all’interno del gruppo, per salvaguardare la fratellanza, ma a condizione di un regime di crescente terrore, in modo simile a come avvenne nella Rivoluzione Francese nella fase giacobina. Il gruppo organizzato infatti scorge negli individui liberi un ostacolo e un pericolo per la sua unità e pertanto si trasforma in una istituzione, rispetto alla quale l’individuo è inessenziale e deve essere subordinato. In questa situazione, l’individuo, a cui è sottratto ogni potere, non si sente più in un rapporto di trasparenza e di reciprocità con il gruppo organizzato, ma asservito ad interessi superiori.
È questo lo scacco nel quale si concludono i movimenti rivoluzionari e che appare a Sartre esemplificato nell’esperienza sovietica. Anche nella ricostruzione della dialettica della storia continuavano ad operare presupposti che avevano sorretto l’analisi dell’esistenza nell’Essere e il nulla: la centralità del soggetto dell’azione, la descrizione della prassi in termini di libertà e di progetto e la contrapposizione tra il polo soggettivo, che conferisce senso alle cose, e l’oggettività, come momento meramente negativo.
Nell’ultima sua grande opera di contenuto teoretico, la Critica della ragione dialettica, Sartre ci presenta la teoria dell’azione e della storia come una reinterpretazione originale dei rapporti tra esistenzialismo e marxismo. In primo luogo, la libertà, che nelle opere precedenti era stata considerata da Sartre come assoluta e incondizionata, viene adesso ridimensionata. L’uomo è sempre dichiarato libero ma la sua libertà dipende anche dagli altri e dal contesto sociale in cui si trova.
“Dire di un uomo ciò che egli è, significa dire ciò che egli può e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità … così il campo del possibile è lo scopo verso il quale l’agente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica.”
Perciò Sartre dice di accettare la concezione materialistica di Marx, per cui “il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale.” Egli rifiuta però nettamente il materialismo dialettico di Engels. Sartre rifiuta in primo luogo le leggi della dialettica della realtà proposte appunto da Engels dicendo che “questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova”. Egli insomma non accetta le leggi proposte da Engels come regole che guiderebbero lo sviluppo della natura, della storia e del pensiero. L’ammissione di quelle leggi, secondo Sartre, implicherebbe un “beato ottimismo” che proclama un finalismo di tipo hegeliano e, cosa ancora più inammissibile, ridurrebbe l’uomo ad un semplice strumento passivo della dialettica, incapace di sottrarsi al più rigido determinismo.
Guarda “Sartre parte 1: l’essere e il nulla“:
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