La rivoluzione dei consigli in Ungheria
Il 21 marzo 1919 venne proclamata la Repubblica sovietica ungherese. Il 1° agosto, 133 giorni dopo, questo eroico capitolo della storia della classe operaia ungherese si concluse con l’entrata dell’armata bianca rumena a Budapest.
La Rivoluzione di Febbraio in Russia diede enorme slancio al movimento rivoluzionario in Ungheria. Il 1° maggio del 1917 partì una massiccia ondata di scioperi e manifestazioni che portarono, il 23 maggio, alla caduta del governo reazionario del conte Tisza. Venne formato un nuovo governo con a capo il conte Esterhazy, il quale tentò di manovrare tra le classi per evitare che la situazione sfuggisse completamente di mano. La coalizione di governo venne allargata per includere diversi gruppi borghesi, mentre i dirigenti del partito socialista diedero al governo un sostegno esterno.
La vittoria della Rivoluzione d’Ottobre in Russia ebbe un effetto elettrizzante sull’Ungheria. L’agitazione contro la guerra condotta da Trotskij durante i negoziati di pace a Brest-Litovsk incontrarono una pronta risposta tra le masse di operai, contadini e soldati stanchi della guerra. La rivendicazione di una “pace senza annessioni ed indennità” trovò un’eco nelle fabbriche, nei villaggi e nelle trincee. Sotto la pressione irresistibile delle masse, il partito borghese contrario alla guerra guidato da Karolyi, il “Kerenskij ungherese”, trovò nuovo coraggio per portare avanti le sue rivendicazioni.
Il fermento nelle fabbriche portò ad uno sciopero generale contro la guerra a Budapest, il 18 gennaio 1918, che rapidamente innescò una serie di assemblee di massa cui parteciparono anche numerosi soldati.
La profondità dell’ascesa rivoluzionaria era testimoniata dal risveglio dei settori più arretrati e tradizionalmente passivi delle classi oppresse, particolarmente le lavoratrici, che ebbero un ruolo eroico in questi eventi, come rivela una circolare segreta del ministero della guerra, datata 3 maggio 1918:
“Le operaie non solo tentano spesso di fermare le fabbriche interrompendo la produzione, ma tengono anche discorsi infuocati, prendono parte alle manifestazioni, marciando in prima fila con i loro bambini in braccio e comportandosi in maniera irrispettosa nei confronti dei rappresentanti della legge.”
Il 20 giugno 1918, dopo che venne aperto il fuoco su alcuni lavoratori, scoppiò un nuovo sciopero. Vennero istituiti soviet, o consigli operai, per condurre la lotta a favore delle rivendicazioni dei lavoratori: pace, suffragio universale e tutto il potere ai soviet. Lo sciopero si estese da Budapest agli altri centri del paese.
Le masse erano pronte a combattere per il potere, ma erano ostacolate ad ogni passo dai loro stessi dirigenti. Tuttavia le condizioni di vita insopportabili, il malcontento accumulato e le precedenti frustrazioni portarono inesorabilmente ad una nuova esplosione nell’autunno del 1918
Nel bel mezzo di scioperi, ammutinamenti e manifestazioni di piazza, la classe dominante era dilaniata dalle divisioni.
Il 28 ottobre ci fu una manifestazione di massa a Budapest a favore dell’indipendenza ungherese. Il 29 ottobre venne proclamata la repubblica in Ungheria. Il 30 ottobre ci fu un’insurrezione di operai, soldati, marinai e studenti a Budapest.
Il governo crollò come un castello di carte senza sparare un solo colpo in propria difesa. Le strade furono invase dagli insorti, che gridavano slogan come “Lunga vita all’Ungheria indipendente e democratica!”, “Abbasso i conti!”, “Basta guerra!”, “Solo il consiglio dei soldati può dare ordini!”… Entro la sera del 31 ottobre gli insorti avevano occupato tutte le posizioni strategiche e liberato tutti i prigionieri politici.
La massa di operai, soldati e contadini, pur essendo priva di un partito e di un programma rivoluzionari, si stava muovendo a tentoni verso un programma di questo tipo. Forse non sapevano esattamente quello che volevano, ma sapevano molto chiaramente quello che non volevano. Non volevano il dominio di un’oligarchia privilegiata e corrotta; non volevano la monarchia o un suo sostituto; non volevano rapporti feudali nelle campagne e l’oppressione nazionale.
I lavoratori chiedevano la repubblica. I politicanti liberal-borghesi p e i dirigenti della destra del movimento operaio resistettero di fronte a questa rivendicazione più che poterono. Questi “rivoluzionari” riluttanti vennero presi per la collottola e spinti al governo dal movimento di massa.
Una volta al potere, questi dirigenti si dedicarono ad un’accanita azione di retroguardia in difesa del sistema del dominio di classe e del privilegio. Il loro terrore delle masse era cento volte più grande della loro avversione contro la reazione feudale e si aggrappavano con tutte le forze a qualsiasi punto d’appoggio fosse loro rimasto nella lotta per mantenere lo status quo.
“Gli amici si riconoscono nel momento del bisogno” è un detto che vale nella politica come nella vita. Riconoscendo che il loro futuro di classe privilegiata si trovava nelle mani degli odiati liberali borghesi e dei loro alleati socialdemocratici, i banchieri, gli oligarchi feudali, i vescovi ed i generali si riunirono attorno al “Kerensky ungherese”, nascondendosi dietro le sottane della “democrazia”. Dall’altra parte, gli operai ed i soldati, come nella Russia dopo il Febbraio 1917, riposero le proprie speranze nelle loro organizzazioni sorte dalla lotta, i soviet
Come in Russia, anche in Ungheria esistevano elementi di dualismo di potere. A differenza della Russia, però, non esisteva un partito bolscevico in grado di guidare la situazione prerivoluzionaria verso una rivoluzione vittoriosa.
Da una parte il proletariato era l’unica forza organizzata all’interno della società: il potere era nelle mani degli operai e dei soldati, armati ed organizzati nei soviet. Dall’altra i leader “moderati” del partito socialista e dei sindacati bloccavano la loro avanzata con la falsa politica di “posporre la lotta di classe” per la “difesa della democrazia”, ecc.
La socialdemocrazia all’inizio crebbe a passi da gigante. Le masse, appena risvegliate alla vita politica, si riversarono nelle organizzazioni operaie. Non solo operai, ma anche molti intellettuali, professionisti, e addirittura poliziotti e funzionari pubblici entrarono nel partito socialista, alcuni con motivazioni sincere, altri con uno sguardo al futuro, per avere una sorta di “polizza d’assicurazione”. Improvvisamente i socialdemocratici e i repubblicani, perseguitati fino a poco prima come pericolosi estremisti, erano diventati i pilastri della rispettabilità e i salvatori della società.
Comunque le masse non furono lente a comprendere l’enorme divario che esisteva tra il tipo di repubblica che avevano voluto e quella che avevano ottenuto. Incoraggiati dal successo, gli operai scesero in piazza per portare avanti le loro rivendicazioni di classe, nonostante gli spasmodici appelli alla calma dei loro dirigenti. Il 16 novembre una gigantesca manifestazione con centinaia di migliaia di partecipanti si radunò davanti al parlamento per rivendicare l’instaurazione di una repubblica socialista.
Le masse non avevano rovesciato l’impero asburgico, vecchio di 400 anni, solo per restituire il potere ai vecchi padroni con nuovi nomi. I soldati affluivano a Budapest dal fronte e strappavano le mostrine dalle spalle degli ufficiali. Le strade della capitale si riempirono di truppe ammutinate – ben 300 mila – in attesa di essere smobilitate. Gli ufficiali e i borghesi venivano assaliti per le strade.
Il governo di Karolyi era un governo solo di nome, privo di una forza armata affidabile sulla quale basarsi. Le armi erano nelle mani dei lavoratori. L’economia era virtualmente collassata. Gli Alleati avevano imposto un blocco all’Ungheria. La situazione alimentare era critica.
In un tentativo di pacificare le masse il governo Karloyi elaborò un programma di riforma agraria, volto a distribuire tra i contadini le proprietà che superavano i 500 acri, dietro il pagamento di un indennizzo da parte del governo.
“Troppo poco e troppo tardi” sarebbe un degno epitaffio per la sfortunata democrazia borghese in Ungheria, arrivata al potere quando la storia aveva già posto all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria come l’unica soluzione ai problemi che la borghesia era incapace di affrontare. Al crescente malcontento all’interno del paese, si aggiunse ora una nuova minaccia esterna.
La classe dominante ungherese cercò di proteggersi dalla tempesta nascondendosi dietro le forme della democrazia parlamentare. Ma le convulsioni sociali messe in moto dalla guerra non ammettevano vie di mezzo. Il governo Karolyi rivelò la sua bancarotta molto più velocemente del Governo Provvisorio in Russia, e in maniera ancora più eclatante.
Come scrisse Lenin:
“La borghesia ungherese ammise di fronte al mondo di essersi ritirata volontariamente e che l’unico potere al mondo in grado di guidare una nazione in un momento di crisi era il potere dei soviet.”
La causa immediata della caduta del governo fu l’ultimatum del 20 marzo 1919, presentato dagli Alleati al regime di Karolyi, in base al quale l’Ungheria doveva accettare una nuova linea di confine. Al momento dell’armistizio, pochi mesi prima, l’Ungheria aveva già accettato un’umiliante perdita di territorio. Adesso i banditi alleati, riuniti a Parigi, chiedevano la cessione di territori occupati da altri due milioni di ungheresi.
L’inerme governo di Karolyi cercò di temporeggiare, avanzando la proposta di un referendum, che però venne accolta con un netto rifiuto. Gli Alleati pretendevano una risposta il giorno stesso. Indebolito dalla pressione interna ed esterna e riconoscendo la propria impotenza, Karolyi rifiutò di assumersi la responsabilità per le sorti della nazione e rassegnò le dimissioni.
Così facendo, l’intera borghesia ungherese ammetteva di essere totalmente incapace di guidare il paese in un momento decisivo. Il giorno seguente, il 21 marzo, venne proclamata la repubblica sovietica. Il proletariato era arrivato al potere senza sparare un colpo.
La caduta improvvisa di Karolyi comportò una svolta brusca e repentina nella situazione del Partito comunista ungherese, che dopo soli quattro mesi di esistenza si trovò improvvisamente ad affrontare il problema del potere. I dirigenti del partito erano giovani e del tutto privi di esperienza.
La loro impazienza li portava a sottovalutare le dinamiche del processo rivoluzionario e la complessa interrelazione tra la classe, il partito e la direzione. Il che era comprensibile per certi versi. Il partito bolscevico russo si era sviluppato nel corso di decenni e aveva alle spalle la rivoluzione del 1905 e un’esperienza di lavoro politico condotto nelle circostanze più disparate
I giovani dirigenti del partito comunista, per la maggior parte ex prigionieri di guerra recentemente tornati dalla Russia, mostrarono coraggio,
Ciononostante, nel clima prevalentemente rivoluzionario, i comunisti guadagnarono terreno velocemente, penetrando nelle caserme, nelle fabbriche e nei sindacati, fino a quel momento dominati dai dirigenti sindacali riformisti.
Considerato l’umore delle masse, il partito comunista registrò una crescita esponenziale nel giro di poche settimane. Non solo nella Budapest proletaria ma anche a Szeged, la seconda città più grande del paese, dove conquistò una grossa parte della partito socialista e molte guarnigioni locali esponevano apertamente le tessere del partito. Ancora più importante, l’organizzazione giovanile socialista passò in blocco nel partito comunista nel dicembre del 1918.
Allarmati dalla rapida crescita del partito comunista, che metteva a rischio la loro presa sempre più debole sulle organizzazioni operaie, i leader socialdemocratici iniziarono una campagna d’odio contro i bolscevichi “russi”, gli “scissionisti” e la “controrivoluzione di sinistra”. Come i menscevichi russi, i dirigenti della socialdemocrazia ungherese non consideravano l’Ungheria “matura” per la rivoluzione socialista.
Sfortunatamente per l’ideologia gradualista, il corso degli eventi si stava muovendo rapidamente in direzione completamente opposta. Vedendo il fallimento della democrazia borghese nell’affrontare tutti i problemi più pressanti, le masse passarono all’azione diretta. Ci fu un’ondata di occupazioni nelle fabbriche.
Il controllo operaio fu stabilito in molte località. C’erano continue manifestazioni di lavoratori, soldati e disoccupati. Alla fine di gennaio del 1919 ci furono scontri sanguinosi tra le truppe governative e gli scioperanti. Il malcontento si diffuse nell’esercito.
Seguendo l’esempio di Noske in Germania, dove in gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht erano stati uccisi su istigazione dei dirigenti socialdemocratici, la leadership del partito socialista scatenò una campagna anti-comunista che culminò in una provocazione simile a quella delle Giornate di Luglio in Russia, con l’arresto della direzione comunista. Bela Kun ed i suoi compagni furono sottoposti a brutali pestaggi in prigione.
Comunque il governo aveva fatto male i suoi calcoli. In una situazione rivoluzionaria, l’umore delle masse può cambiare rapidamente.
Il partito comunista passò da essere una piccola minoranza a conquistare il sostegno della maggioranza nelle zone chiave del movimento operaio. I lavoratori trassero una semplice conclusione: se questo governo è contro il bolscevismo, noi dobbiamo essere a favore. I leader del partito socialista si trovarono ora ad essere contestati nelle assemblee pubbliche.
Perfino un socialdemocratico di destra come Erno Garam successivamente ammise che
“l’arresto dei leader bolscevichi non solo non indebolì la loro capacità combattiva, ma la rafforzò.”
Il movimento stava ora scorrendo con forza in direzione del partito comunista. Gli arresti agirono come catalizzatore per tutto il malcontento accumulato e per la frustrazione delle masse. Per tutto il mese di marzo ci fu una tendenza indiscutibile verso l’insurrezione armata. Il 10 marzo il soviet locale prese il controllo di Szeged e l’esempio fu rapidamente seguito in altre città. I contadini occuparono le terre del conte Esterhazy, senza aspettare i decreti del governo.
I lavoratori trassero da tutta la situazione conclusioni rivoluzionarie. Avevano rovesciato 400 anni di dominio asburgico solo con la loro forza e la loro organizzazione. I soviet dei lavoratori non possedevano solo armi leggere, ma anche mitragliatrici ed artiglieria. Dall’altra parte il governo non aveva a disposizione una forza armata su cui fare affidamento per combattere le proprie battaglie.
Le masse erano passate attraverso la dura scuola della guerra, della rivoluzione e della contro-rivoluzione in forma democratica e ora erano pronte alla resa dei conti. Gli argomenti moderati dei leader del partito socialista non avevano più nessuna presa.
I lavoratori li interpretarono correttamente come tentativi di distrarre la loro attenzione dall’obiettivo centrale del potere. L’impazienza crescente degli operai rispetto al ruolo giocato dalla direzione socialdemocratica si espresse nel rifiuto dei tipografi di Budapest di stampare il giornale del partito socialista Nepszava. I tipografi scioperarono il 20 marzo, lo stesso giorno in cui gli Alleati inviarono il loro ultimatum a Karolyi. Il 21 marzo lo sciopero dei tipografi si trasformò in uno sciopero generale, che rivendicava il rilascio dei dirigenti del partito comunista e il trasferimento del potere alla classe operaia.
Questa manifestazione spontanea provocò una scissione nella direzione del partito socialista. Una parte della dirigenza, apertamente identificata con la borghesia, si preparava a svolgere lo stesso ruolo controrivoluzionario di Noske e Scheidemann in Germania. Altri, invece, erano più cauti. Il governo di Karolyi era al collasso dopo l’ultimatum degli Alleati.
Demoralizzati, i liberali borghesi consegnarono il potere ai dirigenti riformisti, che accettarono il dono con il cuore pesante e le mani tremanti. La borghesia pose tutto l’onere di risolvere la crisi sulle spalle dei socialdemocratici “moderati”. Ma questi ultimi, per quanto fossero sempre pronti ad assolvere al proprio “dovere patriottico”, si trovavano comunque in una posizione particolarmente debole.
La loro influenza tra le masse si stava velocemente riducendo a zero. Come avrebbero potuto mantenersi al potere? Quello che seguì fu un avvenimento senza precedenti nella storia: i capi del partito socialista, ancora al governo, si recarono in prigione per negoziare con i capi del partito comunista, arrestati con la loro connivenza poco tempo prima. Questo fatto di per sé dimostra i grandi cambiamenti nella correlazione delle forze di classe che si verificano in una situazione rivoluzionaria.
All’inizio i dirigenti socialdemocratici chiesero al partito comunista di appoggiare dall’esterno il loro governo. Quando questa proposta venne rifiutata, i riformisti proposero addirittura di fondere i due partiti! Quest’offerta equivaleva a formare un governo di coalizione camuffato da partito socialista “unificato”. Le astute vecchie volpi che guidavano il partito socialista erano pronte a firmare qualsiasi cosa, ad accettare qualsiasi cosa, non importa quanto radicale suonasse, pur di raggiungere un accordo.
Gli esponenti di lunga data del gradualismo si convertirono all’improvviso alla rivoluzione – a qualsiasi cosa – pur di ottenere la partecipazione dei comunisti al loro governo. A dire il vero i socialdemocratici non facevano altro che riconoscere la realtà della situazione, poiché mentre i leader del partito comunista stavano negoziando sull’unità con loro, i lavoratori di Budapest stavano portando avanti una rivoluzione alla quale il governo non era in grado di opporre resistenza. Il partito comunista e il partito socialista si unificarono quando il potere era già di fatto nelle mani della classe operaia armata.
I socialisti tirarono fuori l’idea di una fusione solo quando le loro fortune erano ai minimi storici e la rivoluzione un fatto compiuto. La loro idea era di preservare il loro prestigio e i loro privilegi salendo sul carro dei vincitori. Tra quelli che vi aderirono c’erano sia elementi onesti di sinistra che incalliti burocrati di destra.
Nonostante la mancanza di informazioni e la grande distanza che lo separava dagli eventi in Ungheria, Lenin si rese subito conto del pericolo insito in questa mossa:
“La prima comunicazione che abbiamo ricevuto a riguardo [sull’unificazione – AW] ci dà motivo di temere che forse i cosiddetti socialisti, traditori socialisti, abbiano fatto ricorso a qualche inganno, abbiano raggirato i comunisti, tanto più che questi erano in prigione.”
In un telegramma inviato via radio a Bela Kun, Lenin espresse i suoi dubbi sull’opportunità dell’unificazione in questi termini:
“Vi prego, informateci su quali effettive garanzie avete che il nuovo governo ungherese sarà realmente comunista, e non semplicemente socialista, cioè un governo di social-traditori. I comunisti hanno la maggioranza nel governo? Quando ci sarà il congresso dei soviet? In cosa consiste davvero il riconoscimento della dittatura del proletariato da parte dei socialisti?
Al di là di ogni dubbio, la semplice applicazione delle nostre tattiche russe, in ogni minimo dettaglio, alle condizioni particolari della rivoluzione ungherese, potrebbe essere un errore. Devo mettervi in guardia contro questi errori, ma vorrei sapere in che cosa vedete garanzie concrete?”
Bela Kun rispose alle richieste di Lenin con argomenti rassicuranti, ma Lenin non ne fu convinto. Al primo congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi poco dopo la rivoluzione ungherese, avvertì il comunista ungherese Laszlo Rudas:
“Giudico pericolosa questa unificazione. Sarebbe stato meglio formare un blocco in cui entrambi i partiti avessero preservato la propria indipendenza. In questo modo i comunisti sarebbero apparsi agli occhi delle masse come un partito indipendente. Sarebbero stati in grado di accrescere la loro forza giorno per giorno e in caso di necessità, se i socialdemocratici non avessero adempiuto ai loro doveri rivoluzionari, si sarebbero potuto prendere provvedimenti fino al punto di una scissione.”
I consigli di Lenin ai comunisti ungheresi non avevano nulla a che vedere con la sterile intransigenza settaria. Di fatto lo stesso Lenin difendeva l’idea di un’unificazione, a patto che fosse portata avanti in maniera appropriata, sulla base di un programma rivoluzionario ben definito ed escludendo tutti i vecchi dirigenti della destra. L’errore non era nel ricercare l’unificazione con i socialdemocratici, ma nel mescolare le bandiere e i programmi in maniera poco seria
La paura di rimanere “isolati”, di apparire agli occhi delle masse come “scissionisti” e “settari”, agisce come un forte peso che grava sulle spalle della direzione rivoluzionaria.
Il nuovo governo operaio in Ungheria godeva di importanti vantaggi. La rivoluzione, contrariamente a tutte le argomentazioni avanzate dai riformisti sulla violenza, fu del tutto incruenta. La borghesia era troppo scossa e demoralizzata per offrire resistenza. Le masse popolari si identificavano senza dubbio nel nuovo governo, non solo gli operai e i contadini poveri, ma, diversamente da quello che accadde in Russia, anche l’intellighenzia che, anche per via delle vecchie tradizioni nazional-rivoluzionarie, sostenne la rivoluzione.
In Russia il decreto sulla terra fu uno dei primi decreti emanati dai bolscevichi subito dopo aver preso il potere. In Ungheria ci vollero due settimane al nuovo governo per pubblicare il decreto sulla terra, un lungo lasso di tempo in una situazione rivoluzionaria, che diede agli elementi contro-rivoluzionari nei villaggi un’occasione d’oro per diffondere voci allarmiste e propaganda anti-socialista.
L’impazienza dei dirigenti del partito comunista li portò ad esagerare e idealizzare gli elementi di “coscienza socialista” tra i contadini ungheresi, un po’ come i populisti russi avevano fatto nel secolo precedente. Tibor Szamuely espresse queste illusioni ad una riunione in Russia nel Maggio 1919, con un discorso riportato sull’Izvestia del 5 Maggio:
“L’idea di organizzare comuni sta incontrando la più grande simpatia. Tra i contadini ungheresi non ci sono gruppi disposti a combattere contro quest’idea.
Le difficoltà della politica agraria ebbero ripercussioni anche in altri campi. Il governo, consapevole dell’indifferenza della maggioranza dei contadini, non aveva abbastanza fiducia in sé stesso per effettuare requisizioni di grano, come avevano fatto i bolscevichi in Russia. Questo comportò gravi difficoltà nel rifornimento di cibo e vestiario alle città e all’Armata Rossa nei mesi cruciali che seguirono.
La Repubblica sovietica ungherese, che aveva conquistato il potere con tanta facilità, si trovò ora in una posizione di debolezza di fronte all’offensiva della reazione. Il governo stesso era composto da tredici membri, di cui solo quattro erano comunisti. Imitavano tutte le forme esteriori della rivoluzione russa (una cosa che Lenin gli aveva consigliato di non fare), compresa la creazione di un ispettorato contadino e persino la nomina di Lenin a “presidente onorario” del soviet di Budapest! In compenso l’Armata Rossa, creata con decreto del 30 marzo, era in realtà il vecchio esercito con un nuovo nome, sotto il controllo del socialdemocratico Pogany, e composta da ufficiali del vecchio regime.
La milizia rossa comprendeva interi reparti presi in blocco dalla vecchia polizia e gendarmeria. In questo modo, invece di distruggere completamente il vecchio apparato statale, importanti elementi di esso vennero mantenuti con una nuova etichetta. Solo gradualmente i vecchi elementi reazionari vennero estromessi dall’esercito e dalla milizia.
Nei suoi 133 giorni di esistenza, la repubblica sovietica emanò non meno di 531 decreti. Se le rivoluzioni si vincessero e perdessero in base alle scartoffie, gli operai ungheresi non avrebbero mai perso. Sfortunatamente, i reazionari combattevano con proiettili veri, non di carta
Nel giro di un mese, non meno di 27.000 imprese vennero nazionalizzate, molte delle quali con meno di 20 dipendenti. Va detto che l’iniziativa per queste nazionalizzazioni di solito veniva dai lavoratori stessi. Il governo era sommerso di domande dei lavoratori che chiedevano di essere espropriati.
Senza una preparazione adeguata ed il sufficiente sviluppo tecnologico, la nazionalizzazione di migliaia di piccole aziende si rivelò una mossa avventata. Misure come il decreto di requisizione di tutti i taxi a Budapest e in altre città, senza tenere conto del numero di dipendenti impiegati, suscitarono l’ostilità di importanti settori della classe media, dei piccoli produttori e degli artigiani.
Le potenze imperialiste, riunite alla Conferenza di pace di Parigi, comprendevano fin troppo bene il pericolo posto dalla “questione ungherese”. Venne considerata la possibilità di un intervento armato, ma l’implicita debolezza dell’imperialismo in quel periodo è dimostrata dalla sua incapacità di intervenire direttamente contro la rivoluzione ungherese.
Gli imperialisti britannici, francesi e statunitensi furono invece costretti ad affidarsi ai servigi delle borghesie ceca e rumena per fare il lavoro sporco al posto loro. Il 16 aprile i rumeni lanciarono il loro attacco, che fece subito apparire quanto la repubblica sovietica ungherese fosse debole e impreparata. L’ “Armata Rossa”, formata da truppe ed ufficiali del vecchio regime, si sgretolò di fronte all’offensiva e numerosi reparti passarono al nemico
L’esercito rumeno penetrò in profondità nel territorio ungherese senza incontrare una seria resistenza. A peggiorare la situazione, i serbi, istigati dagli Alleati, invasero il sud dell’Ungheria, mentre la “democratica” borghesia ceca decise di intervenire attaccando la parte occidentale del paese con truppe comandate da ufficiali italiani e francesi.
Il Times del 7 maggio 1919, dando voce agli obiettivi degli imperialisti, chiese la resa dell’Ungheria, il disarmo dell’Armata Rossa, le dimissioni del governo e l’occupazione del paese da parte delle truppe alleate. Al primo segno di pericolo, i socialdemocratici al governo volevano gettare la spugna. Wilhem Bohm, uno dei principali dirigenti del partito socialista ed ex-comandante dell’Armata Rossa, preparò un piano per la capitolazione.
Le attività demoralizzanti di questi dirigenti del movimento operaio servirono a paralizzare il governo in un momento cruciale. Fosse dipeso esclusivamente da loro, Budapest sarebbe stata indubbiamente occupata dai Bianchi senza opporre resistenza.
Nonostante ciò, gli eroici proletari di Budapest presero ancora una volta in pugno la situazione, forzando il governo a cambiare rotta. In una serie di assemblee di massa, gli operai ignorarono le richieste di Bohm e soci e votarono per combattere. Furono organizzati reclutamenti nelle grandi fabbriche e colonne volanti furono inviate dai quartieri operai al fronte. In pochi giorni, grazie alla magnifica iniziativa dei lavoratori, migliaia di volontari si unirono all’Armata Rossa: operai, ferrovieri, impiegati, postini, fattorini, che trasformarono l’intera situazione nel giro di ventiquattrore.
L’Armata Rossa venne riorganizzata ed il 2 maggio gli operai di Budapest riuscirono a respingere gli invasori su tutta la linea. In una brillante campagna di sette giorni, condotta contro forze soverchianti, l’Armata Rossa proletaria passò dalla difensiva all’offensiva, riconquistando al nemico città e villaggi.
L’armata ceca venne gettata nel panico dall’offensiva. Vaste aree della Slovacchia vennero liberate ed il 16 Giugno venne proclamata una Repubblica sovietica slovacca.
Ciò nonostante gli sforzi eroici degli operai ungheresi vennero costantemente ostacolati dai leader socialdemocratici al governo, che ora iniziarono una campagna sistematica di critica ai “metodi brutali” ed alla “crudeltà gratuita”. Guardando ai fatti nessuno avrebbe potuto accusare gli operai ungheresi di eccessiva crudeltà. Casomai era il contrario.
La rivoluzione era stata di gran lunga troppo indulgente con i suoi nemici e ora ne stava pagando un prezzo terribile. Chiedere di rinunciare ai “metodi brutali” nel bel mezzo di una guerra civile terribile e sanguinosa era come chiedere di arrendersi al nemico. Nemmeno il più democratico dei governi parlamentari borghesi tollera propaganda disfattista in tempo di guerra. Invece gli operai ungheresi furono costretti a combattere su due fronti: sia contro il nemico di classe dichiarato al fronte, sia contro gli agenti del nemico camuffati e ipocriti, che utilizzavano le loro posizioni chiave nel governo per sabotare lo sforzo bellico.
I dirigenti del partito comunista compresero troppo tardi che l’unificazione era stata un errore. Bela Kun si lamentò dei socialdemocratici e accennò alla necessità di una scissione proprio nel momento in cui c’era bisogno del massimo di unità e risolutezza per combattere la guerra. Il governo era lacerato dalle divisioni. I socialdemocratici costituivano la maggioranza in tutti gli organismi dirigenti del partito “unificato”, con pochissime eccezioni. Controllavano anche il “consiglio governativo rivoluzionario”.
Questi carrieristi consumati, che avevano sostenuto la “dittatura del proletariato” solo per salvare le proprie posizioni, ora decisero di non puntare sul cavallo sbagliato e lavorarono alacremente a “ricucire i rapporti” con l’altra parte. Stavano cercando di mettere quanta più distanza possibile tra loro ed i bolscevichi, sui quali erano decisi a gettare tutte le colpe per quanto era accaduto, e di rinnovare le loro credenziali di rispettabili politici “democratici” borghesi, che non avevano voluto fare niente di male e avevano partecipato alla rivoluzione solo per “evitare gli eccessi” e impedire che le cose andassero completamente fuori controllo. Su iniziativa del “campione dei popoli”, il presidente Wilson, la Conferenza di pace di Parigi, ora alquanto allarmata dai successi dell’Armata Rossa, inviò un ulteriore ultimatum a Budapest l’8 giugno, in cui si chiedeva la fine dell’avanzata dell’Armata Rossa e si invitava il governo ungherese a Parigi per “discutere delle frontiere ungheresi”. La nota fu seguita da un secondo ultimatum, che minacciava l’utilizzo della forza se questi termini non fossero stati accettati.
Con le armate nemiche ancora sul territorio ungherese, alla rivoluzione veniva richiesto di disarmarsi in base ad un pezzo di carta. Eppure il 26 giugno cominciarono i negoziati e l’Armata Rossa iniziò a ritirarsi.
Ci sono dei momenti psicologici decisivi nella storia di una rivoluzione, come in uno sciopero. La resa di posizioni ottenute a caro prezzo senza sparare un colpo ebbe un effetto disastroso sull’Armata Rossa. La sfortunata Repubblica sovietica slovacca venne consegnata nelle mani dei suoi nemici. Il morale degli operai e dei contadini scese sotto i tacchi. Lenin aveva messo in guardia contro il pericolo di illusioni nella “buona fede” degli Alleati, e ora gli ungheresi erano caduto in pieno nella trappola. Come lo stesso Bela Kun successivamente dovette ammettere:
“Non abbiamo risposto alle manovre di Clemenceau con contro-manovre. Non abbiamo provato a guadagnare tempo tirando per le lunghe i negoziati. Non abbiamo neanche cercato di costringerli ad accettare questi negoziati, ma semplicemente abbiamo fatto tutto quello che ci avevano chiesto, senza la minima garanzia e senza considerare la possibilità di una disintegrazione dell’esercito in caso di ritirata.”
Il destino della rivoluzione ungherese era oramai segnato. Il 24 giugno ci fu un tentativo di insurrezione controrivoluzionaria a Budapest, guidata dagli autoproclamati “socialdemocratici nazionali”, che venne soppresso nel giro di ventiquattrore. Il 20 luglio Clemenceau inviò una nuova nota, nella quale si dichiarava che il governo ungherese non era “competente a negoziare” e si chiedeva la formazione di un governo composto da “leader responsabili del movimento operaio”, con l’esclusione del partito comunista. Com’era prevedibile, i dirigenti socialdemocratici accettarono prontamente questa richiesta.
In precedenza si erano fatti scudo dietro il partito comunista, ma adesso il pendolo stava oscillando dalla parte opposta. I dirigenti comunisti in difficoltà Invece di condurre una battaglia forte per svelare le macchinazioni dei socialdemocratici (che peraltro erano in contatto diretto con le missioni militari francese, britannica, italiana e statunitense a Budapest), alla fine accettarono di dimettersi per evitare “inutili spargimenti di sangue”.
Il colpo di Stato venne così portato a termine senza sparare un colpo. I leader “responsabili” del movimento operaio concentrarono tutto il potere nelle loro mani, con la prospettiva di restituirlo ai proprietari terrieri ed ai capitalisti.
Con questo avvenimento, lo scivolamento verso la controrivoluzione assunse un carattere irreversibile. Il nuovo governo socialdemocratico si affrettò ad abrogare tutte le misure adottate nel corso della rivoluzione. Le aziende nazionalizzate vennero restituite ai loro precedenti proprietari. Le conquiste degli operai e dei contadini furono spazzate via. Molti membri del partito comunista furono arrestati, mentre gli elementi controrivoluzionari vennero rilasciati dalle prigioni. Nella loro cecità riformista, i dirigenti della destra socialdemocratica immaginavano che queste azioni avrebbero consentito loro di ingraziarsi i Bianchi e siglare la pace con la reazione trionfante. Vana illusione! Il 6 agosto, anche il nuovo governo fu rovesciato da un pugno di militari e avventurieri. Disorientato e senza una guida, l’eroico proletariato di Budapest era incapace di opporre resistenza.
Con l’entrata dell’esercito rumeno a Budapest, ebbe inizio un regno del terrore contro la classe operaia ungherese. I proprietari terrieri ed i capitalisti si vendicarono per la paura che avevano provato, senza tentennamenti o scrupoli di coscienza rispetto agli “spietati atti di crudeltà”. I soldati feriti dell’Armata Rossa vennero trascinati fuori dagli ospedali ed uccisi. I Bianchi utilizzarono i più barbari metodi di tortura medievali: 5.000 persone persero la vita in questo periodo. I Ponzio Pilato del “gradualismo”, quei dirigenti riformisti che avevano protestato rumorosamente per i cosiddetti “eccessi” degli operai e dei contadini, ora guardavano dall’altra parte, giustificando l’assassinio e la repressione nella maniera più codarda, pur di mantenere i propri impieghi e i propri privilegi.
La sconfitta della rivoluzione ungherese del 1919 fu un colpo pesante per la classe operaia internazionale.
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