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La storia di Maurizio Biscaro, la mamma e una lettera.

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Nasce a Milano il 4 maggio 1957

-Frequenta il liceo classico a Milano

-Si diploma all’Istituto linguistico internazionale come traduttore-interpreste nel 1981

-Lavora come precario

-Collabora con la rivista Controinformazione ed è attivo nel consiglio di zona 13 per D.P.

-milita nel movimento dell’autonomia

-milita nelle Brigate Rosse-Walter Alasia

– muore cadendo dal sesto piano, a Cinisello Balsamo, il 13 novembre 1982, quando i carabinieri vanno nella casa in cui vive per arrestarlo.

 

Avrebbe dovuto essere ucciso e tirato fuori dal mio grembo a pezzi, perché all’ultimo momento il ginecologo si è reso conto che ho l’osso iliaco storto e il bambino non riusciva a venire fuori. Mi hanno tagliata, mi hanno messo metà forcipe da sveglia perché dovevano lasciarmi le forze per le spinte, visto che non si poteva più procedere al taglio cesareo.

E’ nato, e solo la Madonna sa come. Era il 4 maggio 1957 […]

Il ’68 lui lo vive da ragazzo romantico, ammirava i ragazzi del Movimento Studentesco e spesso li seguiva nelle manifestazioni. Per lui erano degli eroi, ma in mezzo alla calca un giorno si piglia una manganellata da un poliziotto. Non doveva essere stato un gran colpo, non m’ha chiesto di fargli impacchi e in più si sentiva importante: aveva partecipato alla guerriglia. […]

Siamo nei primi anni ’70. Il liceo classico Berchet era uno dei più quotati di Milano e nella classe del mio Maurizio c’erano i rampolli delle migliori famiglie della città.

Ogni tanto marinava la scuola perché voleva stare con i facchini, accanto agli uomini di fatica che lavoravano all’ortomercato o trasportava cassette insieme a loro.

Un giorno, dopo tanta fatica il capoccia gli mette in mano la metà della cifra pattuita. Maurizio si ribella ed incita gli altri alla ribellione dicendo che quello era sfruttamento dei padroni verso i lavoratori. Una coltellata gli ha fatto un sette sulla camicia, fortunatamente senza ferirlo. Da quel momento non c’è più stata pace […]

Un pomeriggio, era il periodo della morte di Allende, mio figlio mette le scarpe da tennis e se ne va in fretta prima che gli possa chiedere dove va. Ricordo che il tempo era brutto, pioveva e mi seccava che si andasse a prendere un malanno. Torna per la cena e mi dice che deve uscire di nuovo, di non aspettarlo perché rientrerà tardi. A notte fonda rientra, bagnato come un pulcino.

– Dove sei stato? Che hai fatto?

– Mamma io non ho fatto nulla, però ho assistito ad una cosa grossa, domani lo saprai dalla tv.

In quella notte era avvenuto l’incendio della Face Standard, per protesta contro gli americani che avevano favorito la fine di Allende. Maurizio si rese conto che i compagni non andavano bene, parlavano di rapine per finanziare il movimento e il mio ragazzo non voleva passare da ladro.

Insomma il comportamento degli autonomi lo aveva deluso. […] Io mi ricordo che ogni giorno aumentavano le simpatie e il proselitismo a causa della pubblicità che alcuni giornali davano alle azioni terroristiche.[…]

Durante l’anno faceva il muratore e metteva da parte i soldi per girare l’Europa durante le vacanze.

E’ stato in Portogallo, quando c’è stata la rivoluzione dei garofani, per rendersi conto che nulla era cambiato, la musica era sempre la stessa. La rivoluzione -diceva- non si può farla con i fiori.

Anche in Spagna era stato ospite di ragazze basche, le sue vacanze erano politiche. […]

Intanto è arrivata la cartolina: lo Stato lo chiamava a fare il suo dovere. Mi aspettavo l’obiezione di coscienza, sarebbe stata in carattere con il personaggio, invece fa domanda per entrare nei paracadutisti. Questo suo desiderio di imparare a paracadutarsi e ad usare le armi nasceva da una ormai radicata speranza nella rivoluzione. Mi dispiaceva che fosse così lontano a fare il soldato e che soffrisse per tante cose che non andavano ma per me è stato un periodo di calma. Potevo dormire senza l’angoscia della perquisizione, senza il timore che mio figlio finisse morto ammazzato.

Si vede che io di pace non dovevo averne perché alla fine del servizio militare, quando Maurizio torna, mio marito si ammala e in breve muore.[…]

Maurizio inizia un lavoro politico con i compagni del quartiere. Lavora insieme a Democrazia Proletaria. Scrive articoli, prepara relazioni, alcune sere va alle assemblee e si va avanti così. Per me la scuola e per lui lo studio di giorno e la politica, che non rende niente, la sera.

Gli domando se ha intenzione di farsi mantenere dalla madre per tutta la vita, in attesa di una rivoluzione che non verrà mai.[…] Io con mio figlio ho parlato, ho ricevuto le sue confidenze e ho tentato di convincerlo a considerare pericolose illusioni i suoi ideali ma, alla fine, è riuscito lui a farmi condividere in parte i suoi ideali di giustizia, di uguaglianza, di fraternità.

Comunque io potevo comprendere questo desiderio di pulizia, questa voglia di una società più giusta, questa delusione per il comportamento dei partiti politici, ma le azioni violente no, quelle non le ho mai comprese, non le ho mai giustificate.

[…]Mi stupisce in quel periodo la sua prudenza. Non si faceva vedere in giro, non fa mai una fotografia e si fa crescere i baffi spioventi alla mongola. E’ un comportamento di persona che non vuol lasciare nulla dietro di sé, non vuole essere identificata. […] Maurizio mi sta cercando. E infatti lo vedo. Sono molto brusca, incattivita dal suo comportamento e gli chiedo chi vuol prendere in giro!

– Dove sei e con chi, si può sapere?

– Sono con le Brigate Rosse.

Queste parole mi arrivano come uno schiaffo d’acqua gelida.

– Verrò a riconoscerti all’obitorio- è la mia raggelante profezia.

Ora che Maurizio si è confessato viene spesso a casa, di nascosto dai compagni. Cerca di non incontrare gente, e quando torno da scuola, se non trovo lui in casa, trovo un suo scritto. Le lettere che ci scrivevamo purtroppo le ho distrutte perché temevo da un momento all’altro la perquisizione, ed ora vorrei averle perché erano belle, erano interessanti, anche se per indicare l’organizzazione, scriveva “L’azienda”. In una sua lettera mi dava notizia del suo innamoramento per una compagna di latitanza! Fra tante ragazze che ha conosciuto di bell’aspetto, di buona famiglia, va ad innamorarsi di una brigatista! Così ragionavo sul momento.

Poi, pensandoci bene, dicevo a me stessa che tramite quella ragazza la sua vita di disperato forse diventava più sopportabile, forse riusciva a godere ancora qualche gioia dell’amore e finivo per simpatizzare con questa sua innamorata.

[…]

Prende un libro di poesie di Prévert dalla biblioteca e si confida:

– Mamma ho bisogno di nutire l’anima e l’intelletto.

Sono le sue ultime parole.

Lo accompagno all’ascensore. Mi abbraccia. Ci scambiamo un bacio e io gli dico:

– Tesoro attento a venerdì, c’è l’allineamento degli astri: porta disgrazia.

Sorride della mia superstizione e, scuotendo la testa, se ne va. […]

Intanto arriva venerdì notte 13 novembre 1982. Verso le sei e mezza suona il campanello. So già chi può essere: c’è una perquisizione in vista, quella è l’ora canonica. Domando: Chi è?

– Carabinieri, aprite!

Prendo fiato, poi apro la porta. Come bolidi si infilano in casa col mitra spianato molti carabinieri in borghese. Girano per tutta la casa, guardano in tutti gli angoli, poi il comandante mi fa sedere e mi interroga.

– Ha una foto di suo figlio?

– No. Ho solo questa che gli è stata fatta da militare, mentre cavalca.

La guarda, e poi mi chiede di telefonare. Sono spaventatissima, hanno individuato Maurizio e lo stanno cercando.

– Dov’è suo figlio?

– In Inghilterra per lavoro, ma per l’amor di Dio che cosa è successo?

– Nulla, signora, solo che suo figlio non è in Inghilterra. Chiami il suo avvocato perché dobbiamo fare una perquisizione.

– No, non ho l’avvocato e non ne ho bisogno, in casa non c’è nulla di compromettente.

Entrano nella camera del mio Maurizio e con un’occhiata il comandante fa capire ai suoi uomini che devono comportarsi educatamente. […]

Lunedì mattina, molto presto, corro a comperare i giornali.

Al ritorno in cortile incontro un vicino di casa che sconsideratamente mi grida:

– E’ suo figlio quello che è caduto dal sesto piano di Cinisello!

Arrivano intanto alcune mie colleghe […] e anche l’alto ufficiale dei Carabinieri che aveva comandato il blitz di Cinisello e che era venuto a far la perquisizione. Gli dico:

– Perché non mi ha detto che mio figlio era morto? Avrei autorizzato il prelievo dei suoi organi, perché lui, che era generoso, ne sarebbe stato contento.

Chissà, forse non sarebbe stato possibile, perché credo che il corpo del mio Maurizio sia rimasto a terra tutta la notte e cioè fino a quando non è arrivato il magistrato per constatarne il decesso. […]

Ho cominciato ad attendere una chiamata per il riconoscimento del cadavere che era stato portato all’obitorio di Monza. Passano i giorni, rotolano via lenti e dolorosi. Nessuno mi chiama. Non so chi mi riferisce che qualcuno a Radio Popolare dice che quel povero cadavere è stato abbandonato, nessuno si presenta per il riconoscimento. ma cosa posso fare io, a chi mi presento? Mentre sono disperata a pensare al da farsi un caro amico mi propone di portarmi a Monza dal mio Maurizio. Abbiamo perduto tutto il pomeriggio, però sono riuscita a fare questo riconoscimento.

I giorni passano e non si riesce a fare il funerale. L’impresa di pompe funebri mi dice:

– Signora, se fosse morto un cane avrebbero più riguardo. Attendiamo l’ordine non so da chi. […]

Trascorrono altri giorni, poi finalmente mi avvertono che il funerale avrà luogo il lunedì mattina. […]

Arrivati a Lambrate, trovo la cassa mortuaria sotto una volta del cimitero, sola, abbandonata.

Con il mio arrivo si avvicinano molte persone, tutte con un garofano rosso in mano. Gli operai che avevano diviso le fatiche con mio figlio, quando faceva il muratore, erano tutti lì, con il pianto negli occhi. Erano stati loro a trovare i fiori e lo sa Iddio dove, perché al lunedì il cimitero è chiuso, per cui non arrivano i mezzi pubblici e non ci sono banchetti di fioristi. Ma loro li avevano trovati e distribuiti alle persone presenti.

Ed erano tante, malgrado le previsioni ed il desiderio delle autorità che avrebbero voluto fare le cose alla chetichella. Ad un certo punto, dopo il lancio dei garofani nella fossa i compagni si sono riuniti, col pugno alzato, a cantare sommessamente l’Internazionale. Allora, in quel preciso istante, molte persone, di idee anche opposte, si sono avvicinate al gruppo e si sono unite con le loro voci al coro.

 

[…]Spesso pensavo a quella Daniela di cui mio figlio si dichiarava innamorato, avrei tanto voluto conoscerla, parlarle, ma come fare? Fra tutte le brigaste arrestate quale poteva essere? Cercavo di immaginarmela.

Un mattino, precisamente il 22 febbraio 1983, mi arriva una lettera dal carcere di Voghera.

“Gentile signora, se avessi seguito l’istinto avrei scritto questa lettera qualche mese fa ma un sacco di preoccupazioni che mi rimbalzavano nella mente di volta in volta, mi hanno impedito di farlo. La paura più grande è quella di riaprire ferite comunque non rimarginabili, di far riemergere sentimenti e sensazioni incancellabili, le stesse che con grande sforzo si tenta quotidianamente di razionalizzare e nascondere e soffocare nei meandri più reconditi del pensiero e della memoria. Ho amato Maurizio profondamente e questo filo che mi accomuna a lei contiene in sé il motivo che mi ha spinta a scriverle.

La mia intenzione è quella di renderla partecipe dell’amore genuino nato tra me e Maurizio e sviluppatosi nel tempo, nella maniera più felice possibile. Ci siamo conosciuti, amati, plasmati giorno per giorno a vicenda, ci siamo dati e abbiamo dato insieme il massimo di noi stessi e ciò che mi fa felice anche oggi è l’essere stata il soggetto di quell’amore, così come lo è stata diversamente lei. Vorrei trovare altre parole e suoni in grado di comunicare tutta la bellezza di quell’amore ma non le conosco e forse non esistono. Sono sicura, però, che lei saprà cogliere da questa mia il dolore che si sa esiste senza bisogno di dirglielo, ma almeno un po’ della gioia vissuta. Un abbraccio con tanto affetto.”

Dopo questa missiva ci siamo scritte per tutto il tempo in cui è rimasta prigioniera. Non solo, ma ho ottenuto il permesso di andarla a trovare. Non saprei raccontare la prima volta, davanti a quell’immenso carcere bianco, in mezzo ai campi, con un carro armato che faceva il giro dell’isolato e tante guardie carcerarie con grossi cani lupo. Come sono entrata nel cortile, ho sentito un coro di voci:

– Vittoria, Vittoria, ciao!

Le voci venivano da lontano, io non vedevo le ragazze, ma forse loro vedevano me. Mi sono sentita commuovere fino alle lacrime. Erano in sei o sette dietro ai vetri. Le ho guardate tutte: belle, carine, spavalde. […] Per cinque anni sono andata regolarmente a trovare Daniela, prima a Voghera e poi a San Vittore. Mi sono legata a lei come se fosse mia figlia. […]

 

_Vittoria Dilda Biscaro, “L’ultimo caduto della Walter Alasia”, Milano 1992. Frammenti di un dattiloscritto dell’Archivio Progetto Memoria

 

Quando entrò in clandestinità non lo vidi più. Lessi della sua morte sul giornale, andai al funerale.

C’erano i garofani rossi e cantammo l’Internazionale. Ma erano gli anni ottanta, tempo di tradimenti.

Il cielo era livido come il cuore di tutti noi.

Là presenti a testimoniare che quel ragazzo che era morto era stato capace di sognare.

Non aveva difetti? Ne aveva. Ma è morto giovane, non ho fatto in tempo a riconoscerli.”

_Rossella Simone, testimonianza al Progetto Memoria_

 

entrambi i testi sono tratti da “Sguardi ritrovati” , vol. 2 del Progetto Memoria _Ed. Sensibili alle Foglie 1995_

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