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La dipartita di Montanelli

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Milano, 2 giugno 1977 – «Quella mattina sono in due nei giardini di piazza Cavour, a Milano. Uno mi spara alle gambe. L’altro mi tiene nel mirino della sua pistola. I primi due-tre proiettili entrano nelle mie lunghe zampe di pollo. Non devastano né ossa né arterie. Ma sarebbero sufficienti per far cadere a terra qualsiasi cristiano».

Quella mattina del 2 giugno 1977, la raccontò così nei suoi diari Indro Montanelli. Alle dieci di mattina, un commando delle Brigate Rosse aspettò che il direttore uscisse dall’Hotel Manin dove dormiva, e mentre stava per attraversare verso piazza Cavour lo raggiunse alle spalle. In quel momento uno di loro fece fuoco, sparando alle gambe del più noto giornalista italiano che da pochi anni aveva lasciato il Corriere della Sera, secondo lui ormai troppo spostato a sinistra, per fondare il Giornale che in molti ritenevano non solo di destra ma «fascista».

Le BR fecero un uso poco parsimonioso del piombo, qualche volta anche discutibile; in questo caso fu l’opposto, gli permisero di vivere ancora per più di un ventennio, visto che Montanelli morì in un letto il 22 luglio 2001.

 Indro Montanelli una figura disgustosa per tanti e tante. Raccontiamo uno delle sue azioni di cui andava orgoglioso: “Montanelli colonialista fascista e stupratore”. Destà, bambina etiope di dodici anni, la vittima. La sposa bambina acquistata con un contratto di compravendita dall’ufficiale fascista Montanelli.

Quello di Montanelli è uno stile provocatorio, pesante e volgare.

Il Montanelli che “scrive bene”. Prendiamo a modello l’articolo che scrisse (nel 2000, non nel 1935) sulle colonne del Corriere della Sera per raccontare quel lontano episodio della sua vita coloniale. Parole come “faticai a superare il suo odore” (del “docile animalino”, come Montanelli definì la ragazza in un’intervista televisiva del 1982). Oppure: “Non era un contratto di matrimonio, ma – come oggi si direbbe – una specie di leasing, cioè di uso a termine”. E quando il malcapitato ventiseienne ufficiale dell’impero si accorse che la ragazza era infibulata, descrive in parole povere (davvero povere) come “ci volle per demolirla il brutale intervento della madre”.

In quelle righe trovano spazio parole di ravvedimento? Di affetto per la povera bambina schiavizzata? Pietà, partecipazione? Niente, solo comprensione per sé stesso. In due parole una riproposizione cruda e orgogliosa del buon italiano alle colonie, un misto di buon padre, di padrone umano, di invasore gentile (della serie: “Abbiamo costruito le strade”).

“Bisogna contestualizzare la storia,” è il refrain degli adulatori di Montanelli oggi. E sì, la storia è che un’aggressione fascista ai popoli africani portò con sé massacri, armi chimiche, stupri, violenze e anche quello sciovinismo colonialista che permetteva all’ufficiale Montanelli di comprare (insieme a un cavallo e a un fucile, per 350 lire) il “docile animalino”. Insomma, faccetta nera, carne fresca per i conquistatori. Beh, è la storia, si dice. Esatto. È proprio quella storia, perché in Italia, anche nell’Italia del 1935, fascista e imperiale, se toccavi una bambina di dodici anni andavi in galera, mentre in terra di conquista era lecito e accettato. Basterebbe questo a contestualizzare.

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