Morte di Antonio Gramsci e Danilo Montaldi
27 aprile: muoiono, a 38 anni di distanza, Antonio Gramsci e Danilo Montaldi
Il 27 aprile 1937 muore, nella clinica di Quisisana a Roma, Antonio Gramsci, dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste. Da anni soffriva di diverse gravi malattie, ma le richieste per la sua liberazione vennero accolte da Mussolini soltanto sei giorni prima della sua morte, quando ormai non era più in grado di muoversi da mesi. Arrestato (nonostante fosse protetto dall’immunità parlamentare) l’8 novembre 1926 durante l’ondata repressiva che seguì un attentato a Bologna contro il duce, fu accusato di attività cospirativa, incitamento all’odio di classe, apologia di reato e istigazione alla guerra civile: tutte accuse piuttosto fondate, data la sua decennale militanza sul fronte internazionale del comunismo rivoluzionario, ma che soltanto nel mondo capovolto del dominio capitalistico possono essere fonte di persecuzione, anziché di credito e onore.
Il 27 aprile 1975, in un mondo radicalmente mutato in soli 37 anni, moriva invece Danilo Montaldi, anch’egli, come Gramsci, militante comunista, intellettuale e scrittore. Apparentemente una distanza abissale separa i due personaggi: autore di fama mondiale, inserito ufficialmente nel canone della letteratura e della storiografia italiane, il primo, sconosciuto ai più il secondo; protagonista della stagione classica del movimento comunista (dal 1917 agli anni precedenti la seconda guerra) l’uno, partecipe della crisi storica del progetto marxista-leninista tradizionale (dopo il 1945) l’altro. Gramsci visse la fase ascendente della dittatura del proletariato nell’URSS, sposando anche una rivoluzionaria bolscevica, Julia Schucht, da cui ebbe due figli; Montaldi maturò la scelta di abbandonare il PCI nel 1946, proprio a causa della consapevolezza della degenerazione burocratica che aveva interessato successivamente il socialismo sovietico, nella sua fase discendente. Nonostante queste e altre differenze biografiche, culturali e politiche, molti aspetti permettono di accostare le due figure nel segno della caratteristica più importante e tipica dell’intellettuale militante/comunista tra primo e secondo novecento: il tentativo di precisare una strategia per la distruzione della società capitalista, regolarmente in contrasto con le stesse organizzazioni ufficiali della politica socialista e comunista.
Gramsci era nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, e si era trasferito a Torino per motivi di studio, in estrema povertà, nel 1911. Arrivò nella città sabauda con 45 lire in tasca, avendo speso 55 lire per il viaggio delle 100 dategli dalla famiglia; negli anni successivi sarebbe sopravvissuto grazie a una delle 19 borse di studio da 70 lire mensili messe a disposizione dall’università di Torino per gli studenti poveri del Regno. Negli anni dell’università supera le posizioni sardiste, immettendole nella più ampia e globale idea socialista; presso il numero 12 dell’odierno corso Galileo Ferraris frequenta la federazione giovanile socialista e la sede dell’Avanti, dove inizierà la sua carriera di scrittore grafomane, furioso e tenace, producendo in dieci anni migliaia di pagine di riflessione politica, filosofica e di costume. In quegli anni è anche molto impegnato come critico teatrale (anche se ignorato dal mondo ufficiale dell’arte), risultando il primo critico ad aver scoperto e valorizzato il teatro di Luigi Pirandello (ben prima del più noto critico Adriano Tilgher, come lo stesso Gramsci rivendicava con orgoglio).
Nel 1917 segue gli eventi russi e diviene fervente sostenitore della rivoluzione bolscevica; nel 1919 fonda il giornale Ordine Nuovo; tra il 1919 e il 1920 definisce la linea dei giovani militanti socialisti che, a differenza del ceto politico del partito, appoggiano e promuovono le lotte operaie del biennio rosso che, con particolare forza a Torino, Milano e Genova procedono all’occupazione armata delle fabbriche e in molti casi alla loro autogestione e direzione produttiva. Dopo che l’assalto operaio al potere di fabbrica fallisce a causa dell’immobilismo/tradimento della dirigenza socialista, nel 1921 è parte del gruppo di militanti che, a Livorno, accoglie le indicazioni dell’Internazionale Comunista, proclamando la necessità di formare un’organizzazione rivoluzionaria costituita da avanguardie dedite alla promozione del conflitto operaio, per una presa del potere di tipo sovietico, fondando il Partito Comunista d’Italia e, successivamente, il giornale l’Unità. Dopo aver compiuto diversi viaggi in Unione Sovietica come rappresentante della sezione italiana dell’Internazionale, e dopo aver trascorso periodi come esule, soprattutto a Vienna, a causa delle prime repressioni fasciste dopo il 1922, torna in Italia con l’immunità parlamentare, essendo stato eletto deputato il 6 aprile 1924.
Poche settimane dopo, il 10 giugno, una banda di fascisti uccide un deputato socialista, Giacomo Matteotti, e gran parte dell’opinione pubblica è turbata e scandalizzata dall’accaduto. Per protesta tutti i gruppi d’opposizione abbandonano i lavori parlamentari, ma tra essi è solo quello comunista, capitanato da Gramsci, che chiede di fare l’unica cosa sensata, ossia proclamare lo sciopero generale. I socialisti temono che il ricorso allo sciopero favorisca il desiderio diffuso di una rivoluzione di tipo bolscevico, i liberali e i cattolici temono socialisti e comunisti molto più dei fascisti, e si appellano sterilmente al Re come supposto garante di una legalità che il delitto Matteotti avrebbe infranto. Tutto questo produce uno stallo durante il quale aumenta la tensione reale nel paese, finché, il 12 settembre, il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram, per vendicare Matteotti, il deputato fascista Armando Casalini, e si scatenano le ondate della repressione più dura, con lo scioglimento di tutti i partiti d’opposizione e l’arresto di militanti e dissidenti. Lo stesso Gramsci sarà arrestato dopo due anni di sforzi nell’opposizione politica al fascismo, e si dedicherà in prigione alla scrittura della sua opera più famosa e internazionalmente conosciuta, i Quaderni del carcere.
Una delle tesi contenute nei Quaderni, quella della necessità di conquistare la direzione politica della società attraverso un’egemonia culturale antagonista, verrà riletta in modo moderato dal PCI del dopoguerra, passato nelle mani di Togliatti, interessato a bloccare, su ordine di Stalin, ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Una tesi ben più complessa e articolata viene banalizzata come grimaldello ideologico volto all’annacquamento della pratica rivoluzionaria (occorre conquistare l’egemonia culturale in primo luogo, quindi la presa del potere politico è rimandata…) a tutto vantaggio della coesistenza pacifica tra due superpotenze capitaliste, l’URSS (capitalismo di stato) e gli USA (capitalismo di mercato). È in questi anni che Danilo Montaldi, nato nel 1929 a Cremona, esce dal PCI di cui era militante e si dedica ad un’attività organizzativa continua e inusuale, attraverso la frequentazione attiva di gruppi cui non aderisce formalmente (Partito Comunista Internazionalista, Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) o la fondazione di gruppi che talvolta successivamente abbandona (Gruppo di Unità Proletaria, 1957, e Gruppo Karl Marx, 1966).
Se Gramsci concepì il suo compito come quello della fondazione del comunismo in Italia, inteso come prospettiva specifica nel panorama socialista (consistente, in base all’insegnamento di Lenin, nel rifiuto totale della guerra e nella direzione politica del conflitto sociale allo scopo di provocare una presa diretta del potere), Montaldi si mosse in un quadro dove la stessa soggettività comunista organizzata era divenuta compatibile con la società capitalista, trasformandosi in conservazione sociale burocratica dove era al potere e in involucro retorico di una sostanziale socialdemocrazia dove era all’opposizione. In particolare il compito del militante del dopoguerra è non solo costruire organizzazioni alternative (di qui le critiche di Montaldi ai trotzkisti, che a questo si limitavano), ma anzitutto indagare direttamente le condizioni di lavoro e di lotta della classe operaia. Negli anni della ricostruzione postbellica l’operaio è chiamato a vendere la sua forza lavoro al capitale in nome di uno sforzo presentato come trasversale alle classi, ma l’interesse alla ricostruzione è l’interesse del capitale, poiché l’operaio non può che trarre giovamento dalla distruzione del sistema esistente.
L’antagonismo operaio non va però, per Montaldi, imposto intellettualmente e astrattamente dall’avanguardia ai lavoratori; l’operaio non è oggetto di studio e di intervento dei comunisti, semmai soggetto, esattamente come loro. Egli si dedica quindi a una ricerca sul campo circa le reali condizioni e aspirazioni operaie e contadine, impegnandosi affinché fossero essi stessi a raccontarsi e ad esprimere la loro realtà, negli anni in cui la sinistra ufficiale maturava invece quel distacco reale dalla classe di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. Ne saranno risultato opere come Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati (1960, con Franco Alasia), Autobiografie alla leggera (1961) e Militanti politici di base (1971). Questo attivismo in cui l’agitazione politica e l’inchiesta diventano una cosa sola costituirà il nocciolo della pratica che verrà battezzata “con-ricerca” da Romano Alquati e, assieme alle analisi fortemente anticonformiste della soggettività operaia di Raniero Panzieri, apriranno la strada alla grande stagione dell’operaismo italiano che, mettendo al centro la classe e il suo conflitto reale contro l’accumulazione capitalistica (anche e soprattutto al di fuori dagli orizzonti del partito e del sindacato), imporrà all’attenzione delle nuove generazione il problema della conquista dell’autonomia operaia.
È qui, a ben vedere, che Gramsci e Montaldi si incontrano: entrambi hanno dovuto non soltanto vivere la contrapposizione del comunismo alle forze riformiste o democratiche – o fasciste – ma anche quella tra classe oppressa e organizzazioni esistenti della sinistra: in riferimento al tradimento del PSI durante il biennio rosso il primo, e in relazione al tradimento del PCI con la politica della coesistenza democratica il secondo. I germi dei loro scritti, come spesso accade, non hanno ancora prodotto tutta la potenza dei loro frutti (anche a causa di una loro banalizzazione scolastica, come nel caso di Gramsci, o della loro espulsione dai circuiti editoriali ed educativi, come nel caso di Montaldi) nonostante abbiano già influenzato molte generazioni; lette in prospettiva storica, restano un esempio irrinunciabile di abnegazione militante e di intelligenza rivoluzionaria. L’anticonformismo politico e l’autonomia di pensiero di entrambi è caratterizzata da ciò che il vero comunista sa di dover sempre far propria, ossia l’attitudine all’eresia, anche rispetto alla propria stessa tradizione di pensiero.
Per questo tra le righe più potenti di Gramsci resteranno sempre quelle, splendide, da lui dedicate all’Ottobre Rosso: “La rivoluzione dei bolscevichi è […] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico […] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili“.
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