In morte di Romano Alquati, operaista e inventore della ‘conricerca’
E’ mancato all’età di 75 anni, Romano Alquati, esponente di spicco del pensiero operaista (di cui fu uno degli iniziatori, partecipando alla redazione dei “Quaderni rossi” prima e di “Classe Operaia” poi), esperienza intellettuale e politica che negli anni ’60 del grande boom economico innovò profondamente la cultura marxista italiana, inventando categorie di analisi ancora oggi fondamentali come quella di composizione di classe; individuando la nuova figura trainante dello scontro di classe nell’operaio-massa; proponendo un approccio di studio/intervento nuovo alla/sulla realtà della classe operaia nel neo-capitalismo con il metodo della “conricerca”.
Proprio l’invenzione della conricerca, iniziata da Romano con Pierluigi Gasparotto e Romolo Gobbi già nei primi anni ’60 con operai della Fiat Mirafiori e di altre fabbriche piemontesi (l’Olivetti d’Ivrea, la Lancia di Chivasso, la Stura ricambi…) può ritenersi il lascito più grande di Alquati. Non solo attività d’inchiesta, ma pratica insieme di conoscenza e trasformazione reciproca (in circolarità virtuosa) di quella che già allora si cominciava a chiamare “soggettività operaia”. Pratica d’intervento che ebbe un ruolo fondamentale nella preparazione dei primi scioperi del ’61 a Torino che rilanciarono un nuovo ciclo di conflittualità operaia che sfocerà nella rivolta di piazza statuto del 7 luglio ’62 (come ricordava lo stesso Romano: “noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata!”).
Guardando sempre oltre lo stretto orizzonte dell’immediato presente, Romano fu uno dei primi a individuare lo spostamento della baricentralità produttiva di un capitalismo che, già nei primi anni ’70, usciva dalla fabbrica per farsi “sociale”. Atipico professore universitario, per nulla interessato alla carriera accademica, Alquati concentro molto presto la sua attenzione allo studio della nuova intellettualità di massa e ai fenomeni di terziarizzazione e quaternarizzazione della forza-lavoro, non stancandosi mai di ripetere la centralità politica che, anche da un punto di vista antagonistico, andavano assumendola formazione, i formatori (riproduttori di capacità-umana-vivente-merce) e l’Università. Le lotte costruitesi in questi ultimi anni sul terreno della formazione sono in qualche modo la riprova della lunghezza d’onda dello sguardo di Romano.
Da 3 aprile 2010 la città di Torino è certamente più povera, orfana com’è di un pensatore lucido e autenticamente contro-corrente, dimenticato dalla sua città d’adozione ma riconosciuto a livello mondiale come uno dei più raffinati studiosi e teorici della soggettività operaia e della composizione di classe.
I funerali di Romano si sono tenuti, con una camera ardente allestita al centro sociale Askatasuna.
Qui un estratto dell’intervista realizzata da Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero per il volume “Futuro anteriore. Ricchezze e limiti dell’operaismo italiano”, studio di quell’esperienza teorica che molto deve all’impostazione di Romano Alquati.
Perché hai parlato di “secondo operaismo politico”?
L’operaismo italiano degli anni ’60’70 era definito “politico” dai protagonisti stessi. Perché ci sono stati altri operaismi ai quali essi si sono espressamente contrapposti e dai quali sono stati anche duramente attaccati. C’è stato e c’è ancora fra l’altro l’operaismo populista ed assistenziale (di derivazione cristiana), e l’operaismo sindacale, e una combinazione dei due; e questi si sono caratterizzati nel considerare gli operai, i proletari operai, come una “quota debole” della popolazione, e quindi bisognosa d’aiuto; e questi operaisti amavano gli operai, l’operaità stessa. Gli operaisti “politici” al contrario s’interessavano ai proletari operai perché contro ogni universalismo, li vedevano come una parte forte, una forza. Una forza di parte almeno potenziale da cercare di mobilitare per ottenere la trasformazione generale e radicale del sistema sociale capitalistico complessivo e da conseguirsi mediante una capacità d’influire, un potere, sui centri di decisione dell’intero movimento del sistema sociale, e in specie di riuscirci mediante il partito politico, come organizzazione di quella parte contro il capitalismo detentore dell’insieme. Ci sono stati però pure movimenti (come ad esempio poi la CISL ed in specie la FIM di Carniti, la FIOM un poco, e frange del PCI) che si sono mossi almeno a tratti al confine fra i due operaismi italiani degli anni ’60’70.
Inoltre si trattava di un secondo operaismo politico appunto perché proprio per questo aspetto decisivo e “politico”, anche per certe condizioni di ritardo ed arretratezza del capitalismo italico ancora agli inizi degli anni ’60 e nella reindustrializzazione post-bellica, in specie nella rivista Quaderni Rossi si guardò molto al primo operaismo politico, ossia all’operaismo social-comunista a cavallo fra i due ultimi secoli, col suo modello di partito di massa non più solo di opinione ma di organizzazione dell’agire politico, riferita agli operai di mestiere. Ed in specie al modello bolscevico. Per questo aspetto decisivo si trattò di una ripresa, di un ritorno, o di una regressione. Però ci tengo a precisare che a Torino nel ’60-’61, prima ed al di fuori della nascita dei Quaderni Rossi di Panzieri, il gruppo dei con-ricercatori si era mosso esplorativamente, sperimentalmente, sia forzando la tradizione consigliare verso nuovi modelli, sia cercando di andare oltre la politicizzazione di peculiari momenti della lotta e dei movimenti più propri dell’operaio-massa (dell’addetto linea di grande serie) dove ci fu e cercando strade per farla convergere verso questi nuovi modelli. Questo è importante ancora oggi.
Formulerei la seguente ipotesi generale sul secondo operaismo politico e sulla notevole importanza che ebbe in Italia (ma la vicenda italiana interessò pure operaisti politici di altri paesi europei ed anche extraeuropei), malgrado l’esiguo numero iniziale di coloro che davvero tirarono la carretta…
La sua importanza è stata soprattutto nell’anticipazione, nel fatto che, anche per il ritardo dell’ingresso generalizzato dell’industria italiana nella “seconda fase” (che oggi si dice) tayloristico-fordista, alcuni peculiari intellettuali piuttosto comunisti seppero anticipare di alcuni anni l’arretrato movimento operaio “istituzionale” italiano funzionando come una vera avanguardia a partire da alcuni punti davvero traenti. Avvertendo fin dagli anni ’50 che ci si trovava in una transizione verso una nuova industrialità capitalistica ormai anche in Italia, che si stava generalizzando un’organizzazione scientifica di nuova concezione del lavoro industriale, inteso non come un settore ma come una trasversalità tendenzialmente universale, una nuova maniera di lavorare e condizione del lavoratore operaio sia negli stabilimenti che nella società complessiva, e per alcuni operaisti anche una nuova soggettività operaia. Questi “secondi operaisti politici”, ed in particolare quelli che erano passati per la conricerca dal ’57 al ’62, compresero studiando direttamente il come e le conseguenze, che sia il cosiddetto taylorismo come quell’organizzazione scientifica di massa del lavorare operaio, sia il cosiddetto fordismo come nuova politica di salari meno bassi per il consumo di massa della nuova produzione di massa cambiavano la società industriale capitalistica anche italiana introducendo una nuova ambivalenza, in cui criticare e combattere la faccia negativa ma valorizzare quella positiva della medaglia! Una nuova rappresentazione della nuova società industriale capitalistica fu introdotta in una sinistra in cui sia l’intellettualità sia la leadership italiana (e non solo) era ancora ferma ad una visione ottocentesca del capitalismo e della società, dell’industrialità e del lavoro. Inoltre ciò avvenne pure attraverso la conoscenza (rarissima a sinistra) di un’importante letteratura internazionale anche di grande-destra. Questi giovani intellettuali di peculiare operaismo comunista erano già convinti che la vecchia visione e strategia socialcomunista che aveva come referente la prima antica operaità dell’operaio “professionale” (il quale si muoveva nella stessa cultura dell’altra parte dell’artigiano dimidiato, ossia della borghesia imprenditoriale; e quindi era scientista, tecno-scientista, sviluppista, per la programmazione totale ed autoritaria, e sacrificista ed universalista, ecc. ecc.) era come chiusa in un labirinto che ritroviamo anche nel pensiero e nella strategia di Marx e della socialdemocrazia classica e poi degli stessi bolscevichi, e non avrebbe mai potuto trovare la strada per uscire dal capitalismo uscendo anche dalla classe operaia stessa, senza una nuova teoria e strategia e un nuovo soggetto sociale per farla camminare. E pertanto era necessario trovare un nuovo referente sociale, socio-economico, per avviare il superamento del capitalismo.
Ma il nuovo referente sociale forte, potente e collettivamente forte anche se singolarmente debole ormai c’era, era lì anche in Italia: era proprio quello che fu chiamato l'”operaio-massa” di nuova e seconda operaità e soggettività operaia, che la nuova organizzazione scientifica e così razionalizzata del lavorare stava diffondendo pure in Italia. Giovani operai senza qualificazione singolare, unskilled, ma abbastanza scolarizzati, provenienti da famiglie di contadini e piccola borghesia proletarizzati che il movimento operaio socialcomunista riteneva a torto estranei e refrattari alla lotta di classe contro il capitalismo stesso, eso-aggregati scientificamente dal nuovo capitalismo. Questi nuovi operai avevano per slogan “più soldi e meno lavoro”, e potrebbero essere definiti dei nihilisti fordisti, potenzialmente mobilitabili pure contro sé stessi. La “rude razza pagana” che tanto ha scandalizzato il populismo; e così pagana (malgrado ad altri livelli di realtà fosse anche religiosa) pareva proprio necessaria! Ben poco li identificava profondamente con la tecno-scienza ecc. Così i secondi operaisti politici sulla scorta delle precedenti esperienze internazionali, scommisero sulla possibilità, la potenzialità di un loro coinvolgimento in una lotta di classe per la trasformazione complessiva del sistema sociale. Ma da farsi col partito. Nuovo. Che non c’era. E su questa strada in quegli anni si ebbero in effetti movimenti (e ricomposizioni e risoggettivazioni) di forza straordinaria, per una serie di condizioni anche contingenti tardive, e per il fatto che anche una parte crescente dei sindacati operai fu trascinata nella presa di coscienza del nuovo capitalismo e della nuova industrialità e delle risorse che offriva anche ai lavoratori il nuovo terreno.
Ma anche questo nuovo referente operaio aveva i suoi limiti, e solo una nuova organizzazione politica poteva portare verso il loro superamento la nuova classe operaia in ricomposizione. Parve subito a molti secondi operaisti politici che mentre la loro rappresentazione socio-economica ed in alcuni casi anche antropo-culturale fosse adeguata ed importante, essi non sapevano e soprattutto i più nemmeno vollero elaborare una linea politica e, soprattutto limitati dalla tradizione “organizzativista” del socialcomunismo classico, una concezione del comunismo e del partito comunista adeguata alle condizioni nuove; e rimasero anch’essi fermi all’imitazione della banca del 1910, così intendendo il “leninismo”… Così si votarono al fallimento, rapido; malgrado tutto. Non che la rivoluzione fosse davvero dietro l’angolo!
All’interno di questo secondo operaismo politico, dai Q.R. in poi (e dalla rinuncia temporanea dei conricercatori a sperimentare modelli politici diversi per allearsi prima con Panzieri e poi coi “romani”) si distinguono però almeno due momenti e vicende abbastanza diverse: soprattutto per la scala dell’agire. Mentre intorno alle prime due riviste si mossero poche centinaia fra intellettuali e militanti ed inoltre il partito di massa al quale si guardò sperando di trasformarlo è stato il PCI, dal ’69, a mio parere l’anno in cui la lotta di classe-operaia italiana raggiunse il suo culmine, i nuovi periodici interessarono migliaia e decine di migliaia di militanti diversamente collocati , ed allora alcuni “gruppi” cominciarono a considerare se stessi il partito e soprattutto si contrapposero al PCI, sebbene adottando a loro volta, piuttosto il vecchio modello bolscevico di partito! Entrambi fallirono.
Oggi siamo in un’altra ulteriore particolare transizione e passaggio di fase, e sebbene tutti ignorino quell’esperienza storica trascorsa e perfino molti suoi protagonisti l’abbiano cancellata dalla memoria, adesso da un lato si ripropongono molte questioni che già si erano poste in quell’altra e precedente transizione al taylorismo-fordismo, e dall’altro chi andasse a guardare vedrebbe che molte peculiari odierne questioni hanno le loro radici in Italia nelle vicende di quegli anni.
Voglio al riguardo sottolineare che, avendo già discreta conoscenza della letteratura di critica dell’organizzazione scientifica e del fordismo che già circolava in Usa ed in Europa fin dagli anni ’20 e ’30 del ‘900, magari pure fra pensatori di “grande destra”, i secondi operaisti politici ebbero, nel loro “oltre Marx” e “oltre Lenin” fin da prima di iniziare la loro comune e temporanea esperienza, già quella visione critica che molti intellettuali della sinistra italiana cominciano ad avere solo oggi, quarant’anni dopo, in questa nuova transizione: ad una terza operaità? iperproletaria?
Per approfondimenti: https://www.sinistrainrete.info/teoria/950-earmano-e-rsciortino-ricordo-di-romano-alquati.html
Guarda “Un cane in chiesa: video-discussione del libro su Romano Alquati“:
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