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L’eccidio di Santa Cecilia

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Francavilla al Mare, in provincia di Chieti, fu una delle prime cittadine italiane in cui si organizzò la Resistenza all’invasore nazifascista. Anche per questo motivo, il paese venne sistematicamente minato, tanto da dover disporre, nel mese di dicembre ’43, lo sgombero degli abitanti, poiché il 90% dei fabbricati non era più in piedi.

Il 30 dicembre 1943, mentre i soldati tedeschi fanno sfollare i contadini dalla contrada di Santa Cecilia verso Chieti, una ragazza che tenta di recuperare delle masserizie da nascondere in un luogo sicuro, subisce un tentativo di violenza da parte di un soldato nazista. Di tutta risposta, il padre della ragazza aggredisce e uccide a coltellate il soldato, per poi fuggire con tutta la famiglia per timore della rappresaglia. La reazione dei militari però, non si fa attendere.

Il comando tedesco scatena subito una feroce rappresaglia secondo la barbara consuetudine di guerra dell’esercito nazista, per cui per ogni soldato morto devono essere uccisi dieci civili. Comincia un rastrellamento selvaggio nelle poche case rimaste in piedi, che viene così ricordato da uno dei sopravvissuti, Antonio Lorito:

«(…) Ricordo che mentre parlavo del più e del meno insieme agli altri amici, sopraggiunse una pattuglia di tedeschi paracadutisti che si piazzò dinnanzi a noi con i mitra spianati. Dalla pattuglia si staccò un graduato che con tono minaccioso urlò: “Alle Kaputt!” – Sì proprio così: “Italiani traditori, tutti kaputt, raus”, gridava spingendoci avanti…». «Ci chiusero in una stalla – aggiunge – e ci perquisirono dalla testa ai piedi con la speranza di trovare qualche arma, magari il coltello con il quale era stato ucciso il loro camerata, ma non trovarono nulla. Finita la perquisizione ci fecero tornare a lavorare. La paura era sempre tanta. Avevamo una mezza bottiglia di “Strega” e un po’ per il freddo, era il 30 dicembre del 1943, e un po’ per farci coraggio, ci mettemmo a bere. Ad un tratto vi fu un gran trambusto: non si capì bene cosa fosse; l’unica cosa che avvertimmo fu il passo cadenzato di una pattuglia nazista che si avvicinava. Istintivamente alcuni di noi si misero a correre verso una di quelle case che c’erano lì vicino in cerca di un nascondiglio sicuro, magari nell’ultima stanza. Quando i tedeschi arrivarono ad una trentina di metri da noi si fermarono e subito degli ordini concitati risuonarono nell’aria. Immediatamente seguiti da scoppi di bombe a mano, raffiche di mitra, colpi di pistola, invocazioni d’aiuto, lamenti, un inferno, insomma. Le armi sparavano e sembravano non scaricarsi mai, tanto erano continui i colpi. Ho visto quattro amici miei cadere a terra crivellati».

La rappresaglia compiuta dai tedeschi è effettuata due volte, cosi che 20 persone vengono uccise in due luoghi differenti. I pochi sopravvissuti sono poi costretti a scavare una fossa in un mucchio di letame e a seppellire lì nove dei loro compagni barbaramente trucidati.

Il giorno successivo i sopravvissuti vengono portati in una vallata adiacente, dove giù per un fossato trovano ammucchiati i cadaveri delle rimanenti vittime. I corpi, ricoperti in fretta con un po’ di terra, rimasero così fino a dopo la Liberazione, quando furono restituiti ai famigliari.

Nella strage di Santa Cecilia morirono in totale venti francavillesi, tutti erano operai, contadini o studenti.

 

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pubblicato il in Storia di Classedi redazioneTag correlati:

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