Palermo contro Tambroni
In risposta alla strage di Reggio Emilia l’indomani 8 luglio è proclamato un altro sciopero generale nel Paese.
E stavolta la rabbia esplode prima a Catania, e poi a Palermo. In Sicilia il compito più truce è affidato ai carabinieri Catania uno di loro ammazza un giovane edile, Salvatore Novembre, 17 anni. Prima è massacrato a colpi di calcio di moschetto, e quindi, quando Totuccio è ormai riverso esanime sul ciglio di un marciapiede, viene finito con due colpi di quello stesso fucile. A Palermo il bilancio sarà ancora più tragico: quattro morti e cinquantuno feriti gravi. Ma accadrà che non per qualche giorno ma per anni ci si dimenticherà (nei rapporti di polizia, nelle controrelazioni, al processo non contro i carabinieri ma contro i manifestanti, e persino in molti libri sugli eventi del luglio 1960) della quarta vittima, e per un impressionante particolare.
Tutto si consuma in poche ore, la mattina di quel venerdì 8 luglio, a Palermo. Due cortei uno proveniente dal Politeama e l’altro dal Massimo sono praticamente imbottigliati di fronte e alle spalle da truppe armate e decise a tutto. Ne fui testimone: ero un cronista di primo pelo, il ragazzo di bottega dell’Unità-Sicilia, e vissi dall’interno dei cortei quella tragica giornata. Tutto comincia quando un pugno di carabinieri si para davanti alla testa di una colonna di manifestanti. «Fermatevi, in nome della legge!», grida un commissario con la fascia tricolore. «Quale legge?», replica con voce tonante Pompeo Colajanni, il popolare comandante partigiano “Barbato” che è alla testa del corteo. Dietro il commissario, un carabiniere perde la testa e si lancia con la baionetta innestata contro Pompeo nel tentativo di ucciderlo. Un ferroviere che stava accanto a Colajanni ha la prontezza di gettare il suo berretto addosso al carabiniere che perde la rincorsa, sbanda, cade.
La rabbia esplode. Ma alle mani, alle aste dei cartelli, alle pietre si oppongono i moschetti, i mitra, le pistole. Inerme, cade Francesco Vella, 42 anni, operaio edile, instancabile diffusore dell’Unità. Poi è la volta di Andrea Gangitano, quattordici anni, venditore ambulante di mazzetti di gelsomino. Quindi – a testimonianza dell’ordine di sparare comunque e dovunque – è ammazzata Rosa La Barbera, casalinga, 53 anni: la uccide una pistolettata calibro 9 in pieno petto mentre sta chiudendo le imposte di una finestra di casa sua, al terzo piano. Altro che pallottola vagante, come si osò dire al processo. Ma all’elenco delle vittime manca (mancò a lungo) un nome, quello di Giuseppe Malleo, 16 anni, apprendista edile, militante della gioventù comunista.
Era uno dei feriti più gravi, raggiunto da un colpo di moschetto alla nuca sparato contro un grappolo umano che volgeva le spalle alle truppe. Il povero Pino fu dimenticato. Morì il 29 dicembre, cioè dopo sei mesi di atroci sofferenze: operato più volte, andò in agonia sotto le feste. E pure Pino Malleo fa parte di questo tragico elenco.
Torniamo a Tambroni. La situazione per lui e per il suo governo diventa a questo punto insostenibile. Tre ministri della sinistra dc – Giulio Pastore, Giorgio Bo, Fiorentino Sullo – si dimettono polemicamente, non solo per il ricattatorio peso politico dei fascisti ma anche e proprio per l’uso sconsiderato che viene fatto delle forze di polizia e dell’esercito. Saranno giorni di concitate, sotterranee manovre (su cui peraltro non è stata fatta ancora piena luce) per sostenere da un lato e per contrastare dall’altro i disperati, ostinati tentativi del presidente del Consiglio di fronteggiare ad ogni costo la crisi. Ma alla fine, il 19 luglio, Tambroni è costretto a mollare. Con le sue dimissioni si apre la strada ad un governo di Amintore Fanfani, poi ad un governo “balneare” di Giovanni Leone che preparerà la strada al primo governo di Aldo Moro con la partecipazione per la prima volta del Psi. Titolo de “L’Avanti!”: Ciascuno da oggi è più libero. Quanta inutile enfasi.
Guarda “La storia degli avvenimenti del Luglio 1960 in Italia“:
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