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“A Sergèj Esènin” – Vladimir Vladimirovič Majakovskij

28 dicembre 1925

Majakovskij cominciò a scrivere questa poesia subito dopo il suicidio del poeta russo Esènin (28 dicembre 1925) e la continuò nel gennaio-febbraio 1926 durante un giro di conferenze per le città dell’Unione. La poesia, terminata nella seconda metà di marzo, apparve nel giornale di Tiflìs “Zarjà Vostòka ” [L’aurora d’Oriente] il 16 aprile 1926. 

“A Sergèj Esènin” – Vladimir Vladimirovič Majakovskij

Voi ve ne siete andato, 

                     Come  suol dirsi, 

    All’altro mondo. 

Il vuoto…
                  Volate,
  fendendo le stelle.
Senza un acconto,
   senza libagioni.
Sobrietà.
No, Esènin,
                     questo
   non è dileggio, —
in gola
             ho un groppo di pena,
                        non un ghigno.
Vedo
         che con la mano recisa, esitando,
dondolate il sacco
   delle vostre
                         ossa.
Smettetela,
                     cessate!
      Siete matto?
Lasciarsi
                 imbiancare
         le guance
                            dal gesso mortale?
Proprio voi
                     che sapevate sbizzarrirvi,
come nessun altro
    a questo
                    mondo.
Perché,
              a che scopo?
       L’incertezza ha provocato scompiglio.
I critici borbottano:
      «Le cause
sono queste e quelle,
       e in specie
                           lo scarso affratellamento
per effetto
                    della molta birra e del molto vino».
Si dice
             che aveste sostituito
                     la bohème
           con la classe,
la classe avrebbe influito su di voi
  e non vi sareste più accapigliato.
Già, come se la classe
          spegnesse la sete
            col «kvas».
La classe
                 anche lei
     non scherza nel bere.
Si dice
            che, a mettervi accanto
                          qualcuno di «Na postú»,
sareste diventato
   assai piú bravo
  nel contenuto:
voi
       avreste scritto
    al giorno
                      centinaia di versi
stucchevoli
                     e lungagginosi,
                    come Dorònin.
Ma, a parer mio,
                               se si fosse avverata
       una tale incongruenza
vi sareste soppresso
        ancor prima.
Meglio infatti
                          morire di vodka
che di tedio!
A noi
          non sveleranno
         i motivi della perdita
né il cappio
                      né il temperino.
Forse,
            ci fosse stato
      inchiostro all’«Angleterre»,
non avreste avuto ragione
                    di tagliarvi
           le vene.
Gli epigoni si rallegrarono:
                       «Imitiamolo»!
Poco mancò
                       che un drappello di loro
       non facesse di sé giustizia.
Perché
              aumentare
      il numero dei suicidi?
Meglio
             accrescere
   la produzione d’inchiostro!
Ora
        per sempre
                             la lingua
                è chiusa fra i denti.
È inopportuno
                            e penoso
               coltivare misteri.
Il popolo,
                  creatore del linguaggio,
ha perduto
                     un roboante
              sbornione apprendista.
E c’è già chi porta
   rottami di versi in suffragio
da precedenti
                         esequie,
         quasi senza rifarli.
Nel tumulo
                     conficcano
            pali di ottuse rime, —
è cosí
           che bisogna onorare
                    un poeta?
Per voi non è stato sinora
                  fuso alcun monumento
— dov’è
              il bronzo squillante
                    o il granito a faccette? —
e già ai cancelli della memoria
                           poco per volta
                       hanno ammucchiato
le ciarpe delle dediche
           e delle ricordanze.
Il vostro nome
                           nei fazzolettini è smoccicato,
Sòbinov sbava
                           la vostra parola
e canticchia
                      sotto un betullina stenta:
«O amico mio,
                          né un motto,
                   né un so-o-o-spir».
Eh,
      poter discorrere altrimenti
con codesto
                      Leonìd Lohengrìnič!
Potersi qui levare,
    tonante attaccabrighe:
«Non vi permetto
   di cincischiare
  i miei versi!»
Poterli
              assordare
   con un fischio a tre dita
contro la nonna,
  e Dio, la madre, l’anima!
Perché si disperda
    l’inetta marmaglia,
gonfiando
                   come vele
        un nuvolo di giacche,
perché
             alla spicciolata
            Kògan se la batta,
storpiando
                     i passanti
          con le picche dei baffi.
Finora
             il canagliume
         s’è poco diradato.
Molto è il lavoro,
                               occorre fare in tempo.
Bisogna
                dapprima
     trasformare la vita
e, trasformata,
                            si potrà esaltarla.
Quest’epoca
                      è difficiletta per la penna.
Ma ditemi
                     voi,
                            sciancati e sciancate,
dove,
          quando,
                         quel grande si è scelto
una strada
                     piú battuta
            e piú facile?
La parola
                   è un condottiero
                    della forza umana.
March!
             Che il tempo
      esploda dietro a noi
              come una selva di proiettili.
Ai vecchi giorni
                             il vento
             riporti
solo un garbuglio di capelli.
Per l’allegria
                        il pianeta nostro
                         è poco attrezzato.
Bisogna
                strappare
     la gioia
                    ai giorni futuri.
In questa vita
                          non è difficile
                     morire.
Vivere
             è di gran lunga piú difficile.

Vladimir Vladimirovič Majakovskij

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