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Bordiga – I socialisti italiani e il comunismo

21 agosto 1921

Esiste oggi un problema: unità o scissione nel Partito Socialista Italiano? È possibile che si parli di scissione a pochi mesi dall’uscita dei più spietati “secessionisti”? Si dividerà il Partito nel suo prossimo Congresso nazionale? Noi non lo crediamo, ma non è nemmeno possibile escluderlo del tutto.

Non discutiamo qui le ragioni che militano in favore dell’una e dell’altra eventualità, ma poniamo un’altra fondamentale questione: il problema dell’unità o scissione dei socialisti italiani non coincide con l’altro: vi è una corrente comunista nel Partito Socialista Italiano? Il Partito si scinderà? Il Partito si scinderà, poniamo per un momento da banda questo primo interrogativo, ma, nell’un caso e nell’altro, noi affermiamo e dimostriamo che la sua ala sinistra, unita o staccata dal resto, non è comunista, e non può fare parte quindi del Partito Comunista e della Internazionale Comunista.

Non parliamo di individui o di persone, né di numero più o meno grande di singoli aderenti. Gli operai rivoluzionari che sono o potrebbero benissimo porsi sul terreno comunista vi sono certamente nel PSI, ma per carità non facciamo di questo un altro luogo comune. Un partito e le sue correnti valgono non per le buone intenzioni dei singoli, ma per l’effettivo movimento organizzato che costituiscono e per il senso in cui la loro forza politica viene impiegata. In questo senso si pone la tesi: il Partito Socialista è tutto (ossia nel suo insieme organizzativo) opportunista e non comunista, poiché afferma principi e svolge azione non comunista. Se invece del partito consideriamo le sue tendenze e correnti, dove le ravviseremo noi se non nelle “frazioni” che si danno una organizzazione, sia pure ai soli effetti di congresso, con un loro pensiero tradotto in programma, e una rete di organizzazione delle forze aderenti? E noi appunto diciamo: tutte le frazioni che esistono nel PSI (e ci sentiremmo portati a precisare: che possono esistere) sono al di fuori del terreno comunista, come dottrina e come azione. Che si dividano o restino unite, ciò le riguarda, ma non ne avvicina nessuna a noi: per avventura, può renderne taluna più pericolosa per il chiaro definirsi della coscienza di classe del proletariato italiano.

Che si sappia, la frazione di sinistra del PSI nel prossimo Congresso si chiamerà “massimalista unitaria”: vi sono come capi Serrati, Vella, Alessandri, Lazzari persino. E la frazione che da tempo dirige il Partito, e che è anche oggi responsabile del suo indirizzo effettivo, anzi dilatata verso destra (oltre che stroncata recisamente a sinistra dalla scissione “dei comunisti”) perché contiene la “puntarella” Lazzari che Bologna escluse dalla Direzione.

Si può dunque legittimamente giudicare questa frazione dalla attitudine del Partito. Ma, pur non riconoscendo che tra la frazione di destra e la maggioranza attuale vi sia una incompatibilità programmatica di convenienza, non può trascurarsi il fatto che la destra pesa notevolissimamente sulla politica del Partito, specie per le accresciute sue forze sindacali e parlamentari.

Considereremo dunque che cosa valga la sinistra del partito non solo dalle sue opere come frazione dirigente, ma dalle sue formulazioni di programma quali si cominciano a ritrovare nelle relazioni e negli articoli dei suoi capi. E sosteniamo ed affermiamo che questa frazione non è comunista, che anche staccata dal resto non potrebbe fare parte dell’Internazionale Comunista. A chi ci dicesse che questo è in contrasto con le decisioni del Congresso internazionale, risponderemmo che queste presuppongono e non possono escludere che viva in tutta la sua forza il rispetto della dottrina e degli Statuti e delle condizioni di ammissione nella Internazionale, che, oltre e prima degli ultimatum contingenti, sono gli ultimatum permanenti posti a chi alla internazionale stessa volesse aderire. Un breve sguardo alla cosa lo mostrerà chiaramente.

* * *

Nel Congresso di Livorno la maggioranza del Partito Socialista, posta dinanzi alle tesi di principio e di tattica della Internazionale Comunista, disse di accettarle. Posta innanzi ai 21 punti delle condizioni d’ammissione, che sono la pietra di paragone del rispetto alle dichiarazioni generiche d’adesione e di disciplina, disse altresì di accettarle: ma ne respinse una che avrebbe dovuto subito e tangibilmente tradurre in atto: la cacciata dei riformisti. Le condizioni di ammissione sono concepite in questo spirito: se ne dovrebbe sempre trovare almeno una il cui rifiuto sarà la riprova che l’accettazione di tutto il resto non era schietta e sicura.

Il deliberato del III Congresso è anzitutto servito a sgombrare il campo dalle obiezioni capziose, ed ha confermato che quella condizione doveva essere adempita “seduta stante”, e che giustamente essa era formulata dai comunisti come esclusione di tutta la frazione di concentrazione socialista.

Riproponendo la stessa condizione ad un nuovo Congresso del Partito Socialista Internazionale cerca probabilmente la riprova che il rifiuto di essa era termine d’incompatibilità tra la maggioranza livornese e l’Internazionale, perché persistendo tale incompatibilità il rifiuto non potrà che rinnovarsi e, questa volta, tagliando corto al pretesto che le condizioni ultimative siano dettate dall’arbitrio dei comunisti italiani e dei Kabakcief. Questo risponde ad un criterio di organizzazione che per noi è errato, e non ne facciamo mistero. Potrebbe darsi per accidente che nello spirito di una destra di quella unanimità che sulla mozione di Mosca si è affermata, vi sia il desiderio di ripescare parte del Partito Socialista ed impastarlo col nostro Partito. In questo caso il dissenso col modesto sottoscritto diverrebbe stridente, ma ciò non importa, quando dinanzi alla verità e complessità dei problemi tattici in cui ognuno può errare o esagerare vi sono le direttive fondamentali e generali del comunismo o della nostra organizzazione internazionale comunista che parlano chiaramente.

La realtà del problema è in questo: che il Partito Socialista attuale, che la sua ala sinistra, come fatti eloquentissimi e dichiarazioni autentiche dimostrano, violano e contraddicono TUTTE le condizioni comuniste; ed una scissione avvenire potrebbe non avere più quel valore “tipico” che avrebbe avuto a Livorno, e che invece hanno oggi ben altri fatti.

Potrà dunque (non è che una ipotesi) esservi la scissione e non esservi, anche dopo la delibera di Mosca, il diritto ad entrare nella Internazionale comunista. E se vi fosse nel seno del Partito Socialista Italiano la possibilità di organizzare un’ala estrema che possa entrare nell’Internazionale, essa dovrebbe dimostrare di costituirsi su un terreno “integralmente” comunista, di programma e di tattica. Invece la attuale frazione di sinistra, e, può ben dirsi di estrema sinistra, è da ciò molto lontana, e non vi si avvicinerà pel solo fatto di addivenire ad eventuali espulsioni dal Partito di taluni elementi della destra. Vediamo brevemente quali fatti e considerazioni valgano a confermarlo.

* * *

Quando il programma di Genova cedette il posto a quello di Bologna, se ciò fosse stata una cosa seria, avrebbe dovuto aver luogo quanto fin d’allora proponeva la mozione dei comunisti astensionisti: la esclusione di tutti coloro che erano per il vecchio e contro il nuovo programma.

A Livorno si pose chiaramente la questione: accettare a parole un programma comunistico non basta, occorre adempiere le precise condizioni nelle quali il II Congresso mondiale a tradotto quel programma, tra cui quella di eliminare chiunque quel programma non condivida. A Livorno era dunque questione di dividere che accettava il programma comunista, a fatti e non a parole, da chi si teneva ancora sul tradizionale terreno socialdemocratico. In che differivano i due programmi, che cosa distingue Erfurt da Mosca, Bologna da Livorno? Le sostanziali questioni della negazione della democrazia parlamentare come mezzo di conquista e di esercizio di potere da parte del proletariato, opponendo ad essa la dittatura proletaria, e dell’impiego della violenza insurrezionale come indispensabile mezzo di azione: ecco i termini della differenza.

Chi afferma di volere tutto questo, ma non ne conchiude che ciò comporta la rottura con i fautori del vecchio e superato programma socialdemocratico e socialpacifista, è in realtà, malgrado le sue verbali affermazioni, tuttora un socialdemocratico e un socialpacifista. Ecco la tesi brillantemente e dialetticamente marxista che ha ispirato le condizioni di ammissione, e che dal Congresso di Livorno a tratto una interessante conferma. In realtà tutti quelli che sono rimasti nel Partito Socialista Italiano sono fuori dal comunismo, dal massimalismo, dal programma di Bologna.

Prova: il contegno del Partito Socialista, le dichiarazioni programmatiche dei suoi uomini dirigenti e della sua stessa frazione di sinistra. Non si parla più di dittatura proletaria, ma si valorizza il parlamentarismo borghese rimaneggiando l'”antiparlamentarismo in seno al Parlamento” di Bologna. Nelle elezioni si addita la scheda al proletariato come il mezzo unico della sua emancipazione pacifica; si rinnega quindi non solo la violenza come offensiva rivoluzionaria ma perfino come mezzo difensivo del proletariato dinanzi alle provocazioni del fascismo, addivenendo con questo a un’intesa. Lungi dal mirare all’abbattimento violento del potere borghese, si pone la base del “patto di pacificazione” il rinvio allo Stato delle funzioni di arbitro dei conflitti (ed in ciò, invero, è l’enormità peggiore, tanto che lo stesso programma di Erfurt e di Genova, da parte di tutto ul Partito Socialista, viene rinnegato abiurando la definizione marxista della funzione dello Stato e la prassi che ne discende).

La frazione di sinistra del Partito Socialista non si pone affatto contro tali atteggiamenti del Partito, non scrive una parola di critica ad essi, né formula un programma di diversa ed opposta azione avvenire. Dunque essa non si sogna di ristabilire i valori del programma e della tattica comunista.

Il contratto dottrinale combacia con quello pratico. Leggete un po’ il testo delle condizioni di ammissione e vedrete che ciascuna di esse detta una norma di azione che dal Partito Socialista attuale è non solo omessa, ma contrastata nettamente. Dalla organizzazione del Partito al regime della stampa, dal lavoro illegale all’orientamento nella questione agraria, coloniale, ecc., dall’atteggiamento nei sindacati e verso la Internazionale di Amsterdam ai criteri del lavoro parlamentare del Partito. Altrettanto tutto questo è negato dai programmi esposti dai Serrati e dai Baratono, per la frazione di sinistra.

Dunque il rifiuto della esclusione dei destri celava – a Livorno – l’opposizione inconciliabile a tutto il contenuto programmatico e tattico del comunismo, al pensiero e all’azione, in tutti i campi, della III Internazionale.

Ma ecco delinearsi una possibilità che – se non vegliasse il Partito Comunista d’Italia – potrebbe condurre a tradire il valore della mozione ultima di Mosca, facendo di essa un’arma per logorare le fondamenta essenziali del pensiero e dei metodi della Internazionale comunista.

La possibilità è quella di una scissione, che non è più la scissione termometrica, ci si passi l’espressione, di Livorno; che non significa più eliminazione di chi è contro i capisaldi del comunismo, e perché è contro i capisaldi del comunismo: che non si presenta più come garanzia di osservanza di tutte le condizioni organizzative della Terza Internazionale; bensì potrebbe avvenire e restare concomitante ad una incompatibilità della stessa ala sinistra col il metodo comunista.

Ciò avviene perché il dibattito che oggi si apre nel Partito Socialista e che darebbe luogo alla scissione – tuttora problematica – non è più il dibattito di Bologna e di Livorno, ma quello, se si vuole, di Reggio Emilia.

Tra la gente che ha dimostrato di non essere né per la dittatura proletaria nè per l’uso della violenza , ne per la disciplina della organizzazione internazionale comunista, si discute oggi di collaborazione o di intransigenza, e dalla corrente di sinistra si afferma che la tattica intransigente è patrimonio inviolabile del Partito, che partecipazionismo ministeriale condurrebbe chi lo sostiene ad essere sfrattato, come lo furono dieci anni fa i bissolatiani.

Non si tratterebbe più di dichiarare incompatibile chi è contro la tesi del comunismo, ma solo chi nega l’intransigenza che fin dal 1912 avevamo stabilita come caposaldo del Partito, e che oggi, malgrado la onesta continuità che questa tesi presenta nel pensiero del vecchio e leale Lazzari, non serve più a niente, se non ad un diversivo insidiosissimo dell’opportunismo centrista.

Non si tratta più chi viola le tavole di Bologna ma semplicemente chi vorrebbe spezzare quelle di Reggio Emilia. ossia, in fondo, di Genova.

Il pericolo è che questa scissione – se avverrà – sia scambiata dalla Internazionale comunista per quella che si attendeva a Livorno. Mentre essa, oggi, nelle dette condizioni, non darebbe più affatto l’impegno a porsi sul terreno della integrale azione comunista. La testa di Filippo Turati era nel 1919 e nel 1920 la posta del passaggio al comunismo, e ben noi l’intendemmo, oggi non più. Oggi si potrebbe apparentemente adempiere il “punto settimo” delle condizioni di Mosca, ieri fieramente rifiutato, fregandosene al tempo stesso degli altri venti, e del comunismo, in una parola.

Non per nulla Serrati propone che il Congresso non discuta pregiudizialmente dell’ultimatum di Mosca, ma affronta senz’altro la sua questione “interna”: se andare o meno al potere in un Ministero borghese. Dopo, pensa Serrati, si potrebbe verificare una certa scissione della destra, e siccome questa grande discussione avrebbe assorbito il Congresso e non ci sarebbe tempo di ulteriori chiacchiere e di più precisa presa in posizione, gli intransigenti socialdemocratici firmatari del patto ignobile colla guardia bianca, gli apologisti dell’azione parlamentaristica e della sovranità dello Stato borghese, comunicherebbero a Mosca di essere a posto coll’ultimatum del III Congresso e di essere disposti ad essere “unificati” col Partito Comunista.

* * *

È qui che li vogliamo.

La proposta Serrati messa in rapporto alla situazione italiana fornisce a noi un altro dato di esperienza tattica. Il socialdemocratismo di sinistra, che parla molto di rivoluzione e si paluda, oltre che delle famosissime gloriose tradizioni, del facile lusso della intransigenza negativa e passiva, non fa opposizione alla Internazionale comunista, se non in sordina, e cerca di insinuarsi di contrabbando nelle sue file per fare il giuoco confusionistico e addormentatore.

Ma vi è, per evitare questo, lo spirito che anima tutta la dottrina e l’esperienza del comunismo. Vi sono le condizioni, le tesi e gli statuti della Internazionale, inseparabili dall’ultimatum che il III Congresso ha formulato sulla questione italiana.

E vi è di tutto questo un solo presidio. Deriso talvolta a denti stretti, ma temuto. Risoluto a far rispettare le chiare direttive dell’azione comunista in Italia, che esso costituisce nel suo studio, nel suo lavoro, nella sua battaglia. È il nostro Partito.

I signori della socialdemocrazia lo sanno benissimo. Si scindano o no, l’abbiamo detto, è cosa che riguarda loro.

I sinceri lavoratori che sono ancora nel PSI? Ecco, noi abbiamo anche per essi una chiara parola. Essi non hanno speranza alcuna, allo stato delle cose, di costruire nel loro Partito una frazione comunista che si affermi al prossimo Congresso. Essi devono capire che la bandiera della frazione sedicente massimalista e, speriamolo, genuinamente “unitaria”, non è quella del comunismo.

Escano dunque dal loro Partito prima ancora del Congresso che si prepara. Che importa se questo sabota la maggioranza, già dubbia, della sinistra intransigente, e se la abbandona alla mercé dei collaborazionisti dichiarati? Come nella lotta di classe tra l’autentico proletario e il grande capitalismo le classi medie sono uno spiacevole ingombro, così è utile che le due scuole socialiste si dividano nettamente, profondamente: verso l’alleanza borghese o verso la lotta rivoluzionaria; è il dilemma che è scritto sulla bandiera della III Internazionale.

Sarà più agevole la lotta contro la socialdemocrazia ministeriale che contro la socialdemocrazia centrista camuffata di intransigenza rivoluzionaria.

Operai rivoluzionari del Partito socialista: il vostro posto è nel Partito Comunista (Sezione Italiana della Terza Internazionale).

Oggi meglio di domani. Oggi, troverete la leale fraternità, domani presentandovi al seguito dei capi centristi, nemici della causa rivoluzionaria, sareste vittime della invincibile diffidenza con cui noi, nella forza della nostra convinzione e del nostro diritto, ci guarderemo da loro.

Guarda “Riunione del PCInt., Milano 1961“:

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