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Come ebbe inizio…

1 maggio 1983 – 1989

La ricostruzione dell’Autonomia operaia a Torino nei primi anni ’80

Intervista a Giorgio Rossetto

di Luca Perrone

Quando incontri l’autonomia e ne diventi militante?

Io sono di Piossasco. Nel 1977-78 da studente medio frequento l’Istituto Agrario di Pianezza, e qui entro in dialettica con il collettivo della scuole. C’erano sia compagni di Avanguardia operaia, della Fgci, di LC e c’erano compagni che si rifacevano alla storia dell’Autonomia. Alcuni di questi sono stati implicati nei processi ai Nuclei comunisti territoriali. Ho partecipato a tutte le manifestazioni del ’77 /78 a Torino. Nel marzo 1979 vengo arrestato dai CC di Dalla Chiesa e finisco al “Canton Mombello” a Brescia e poi al minorile “Ferrante Aporti” a Torino. Nel 1980 frequento le manifestazioni di quegli anni, poi di straforo anche l’esperienza del Circolo giovanile di Orbassano, nel giro di Prima Linea, perché poi vennero arrestati per il pentimento di Roberto Sandalo nel 1980. Sono tutte cose che vivo dal di fuori, perché non ho mai aderito a quell’ipotesi politica, anche se sono stato invitato alcune volte per discuterne, ma non ero interessato a quel tipo di deriva armatista. Nel 1981 faccio il militare a Susa.

L’82 è stato un anno in cui non c’era nulla di organizzato nella città di Torino.

Nell’83 inizio a frequentare l’Associazione dei parenti dei detenuti che si riuniva in Via Assietta. Organizzo alcuni dibattiti a Piossasco con quest’Associazione, che però erano tutti impregnati di ideologismo; non si rifacevano ai percorsi dell’autonomia ma a quelli marxisti-leninisti. Inizio a frequentarli e anche a conoscerli: c’erano anche i parenti veri, non solo gli amici o i tifosi degli armatista. Mi ricordo alcune mamme particolarmente battagliere e decise, come la mamma di Domenico Iovine, uno dei 61 licenziati della Fiat, che abitavano dalle parti di Chivasso. Lei spostandosi per l’Italia, andando a trovare il figlio a Nuoro o nelle carceri del sud, era diventata per le sue proteste una figura significativa, per la spontaneità che la caratterizzava in quanto madre. Da loro vengo a sapere della manifestazione davanti al carcere di Voghera del luglio 1983 e con alcuni amici di Piossasco siamo andati. La manifestazione è stata poi caricata fin dal concentramento: c’è stata una caccia all’uomo, ma siamo riusciti ad allontanarci da Voghera e a ritornare a Piossasco incolumi. La manifestazione era organizzata soprattutto dai compagni di Roma e del Veneto che avevano costruito un Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare e dal Coordinamento dai comitati contro la repressione, che era un organismo che si trovava a Milano e stampava un Bollettino in cui erano riportati tutti i comunicati delle organizzazioni combattenti e dei detenuti che si rifacevano a quei percorsi ed era abbastanza letto. Tra l’83 e l’84 con l’Associazione dei parenti dei detenuti andavo a queste riunioni di Coordinamento che si tenevano nel Circolo di Porta Romana a Milano, quasi ogni fine settimana, riunione che iniziava quando arrivava Primo Moroni e apriva la sua valigetta e leggeva l’ordine del giorno e cercava di contenere i vari interventi, perché c’erano polemiche continue fra le componenti di questo Coordinamento, tra maoisti, marxisti-leninisti, il Partito guerriglia, le Br-Pcc, che avevano lì le loro propaggini.

Dopo Voghera vengo a sapere dei campeggi che sono organizzati a Comiso, in Sicilia, in estate. Ad agosto ’83 vado da solo a Comiso. dove c’è una settimana di iniziative, di assemblee, di dibattiti. E’ stata un’esperienza importante, positiva, intensa, che si conclude con tre giorni di blocchi all’aeroporto, dove doveva essere installata la base per i missili americani Cruise. Al campeggio c’erano 700/800 partecipanti; tutti i giorni ci sono iniziative nei paesi, tutte le sere ci sono assemblee serali del campeggio e quindi inizio a conoscere meglio la struttura del Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare, che era la forza maggioritaria con 400/500 presenze, rappresentata dai compagni del Veneto che si rifacevano a Radio Sherwood e a quelli di Roma che si rifacevano ai Comitati Autonomi Operai di Radio Onda Rossa. Quelle erano le due strutture portanti del Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare, ma c’erano presenze dalle realtà autonome di tutta Italia.

La ricostruzione dell’Autonomia a Torino nasce all’interno del Coordinamento nazionale anti-anti o è un percorso indipendente?

A Comiso incontro i compagni del Circolo giovanile di Chieri. Avevano iniziato a frequentare l’Autonomia negli anni 81/82, alcuni venivano da una frequentazione con Lotta Continua a Torino negli anni ’80 ma ne erano usciti; avevano poi conosciuto il coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare andando al campeggio di Cerano dove volevano costruire una centrale. I rapporti li avevano con Roma e con Vincenzo Miliucci in particolare.

Quando siamo tornati a Torino abbiamo iniziato a vederci. Erano un decina, tra cui Laki, Savino, Miranda, Ivana, Mimmo i quali mi dicono che loro si trovano anche con un gruppo di compagni a Torino e quindi inizio a frequentare il Circolo sociale di Via Paesana. Era un gruppo frazionista di Programma Comunista, c’erano alcuni compagni, Graziella e Gastone, Tonino, Mario, Mimmo e altri (alcuni di loro daranno vita al collettivo S-contro). Il Circolo sociale di Via Paesana era soprattutto formato da questi frazionisti di Programma Comunista che rompono con la loro tradizione e si apre a quello che si muove nel movimento. A Torino si muove poco ma a livello nazionale si muove questo Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare e quindi anche questi compagni/e trovano elementi di convergenza. Da agosto ’83 e per tutto il 1984 con questo Circolo facciamo delle iniziative-dibattito: eravamo impegnati in modo particolare nel Comitato disoccupati. Tra l’84 e l’85 si avvicinano altri compagni, Ermelinda, Massimo, Valerio, Assunta, Bruno Lazzari. Ogni settimana al Circolo c’erano delle riunioni; c’era l’intervento sia sui disoccupati sia quello sul carcere, e poi iniziavamo a seguire le campagne che faceva il Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare, quello sul ritiro dei militari italiani in Libano ad esempio.

Poi, dopo un po’, con i compagni di Chieri e con i giovani che avevamo aggregato con quel percorso, seguivamo in  particolare le iniziative del Coordinamento nazionale antimperialista e antinucleare. Invece Graziella e Gastone seguivano di più il Coordinamento contro la repressione  e nel corso degli anni avevano iniziato a leggere i libri di Curcio, come “Gocce di sole nella città degli spettri”  o “Wkhy”, più esistenzial-militanti, e su quello si crea un po’ di attrito e nell’85 si separano i percorsi. Noi andiamo a costruire una nostra sede in Corso Casale e loro rimangono in Via Paesana. Ma niente di traumatico: alla fine ognuno era andato per la propria strada.

Cos’era «Attilia»?

Tra di noi erano arrivati altri fuoriusciti di Lotta Continua per il comunismo; a Torino c’erano figure come Steve Della Casa che fonderanno poi Hiroshima Mon Amour e che avevano un radicamento ancora abbastanza forte a livello studentesco. Giancarlo aveva rotto con loro e ha iniziato a frequentarci, e viene fuori «Attilia», che era un pinzato (ne erano usciti due numeri). Era stata una buona cosa sua. Lui arrivava da Lotta continua. 

Il 31 marzo 1984 c’era stata una manifestazione che avevate organizzato. Ti ricordi cos’era?

Era stata l’unica manifestazione che eravamo riusciti a organizzare in quella fase, una manifestazione contro i braccetti della morte e l’articolo 90, per la liberazione dei compagni detenuti. Il corteo partiva da Piazza San Giovanni, perché ci rifacevamo ai cortei degli anni ’70 che partivano o da piazza Solferino o dalle Porte Palatine, e si riferiva a una mobilitazione che era in corso nelle carceri. Ci siamo presi la responsabilità di organizzare questa manifestazione, ci saranno state 3-400 persone, non di più, ma per noi era già stato un successo: era la prima volta che organizzavamo una manifestazione, superando le perplessità di quelli dell’associazione dei parenti dei detenuti che avevano i loro fumosi discorsi ideologici ed erano impegnati più che sulle condizioni di vita dei detenuti a mantenere ferrea la loro storia armatista. L’abbiamo organizzata sia con il Circolo sociale di Via Paesana che con il Collettivo di Chieri .

Il documento «Alcuni spunti per il dibattito politico» che scrivi nel 1984 si presenta come un «iniziale alla costruzione di una struttura politica e di lotta nel torinese», evidentemente un gruppo più omogeneo ideologicamente rispetto al Circolo sociale di Via Paesana, che riprenda le categorie proprie dell’Autonomia (contropotere, rifiuto del lavoro, illegalità di massa, autonomia vs partito), in polemica con l’emmellismo e ponendo un chiaro discrimine nei confronti del dibattito armatista, prendendo chiaramente le distanze da qualsiasi logica clandestina e militarista?

Nelle altre città l’Autonomia era presente. Solo a Torino e a Milano in quegli anni la situazione era debolissima, mentre erano forti queste aggregazioni armatiste, tifoserie di gruppi armati, che non avevano una presenza sociale forte, ma a differenze delle altre città in cui erano situazioni minoritarie, qui la situazione era invertita ed eravamo costretti a confrontarci con queste situazioni. Per darci una identità, noi, i chieresi, i giovani compagni che si stavano avvicinando, ho contribuito a questo documento. L’ho scritto io, certo utilizzando il giornale «Autonomia» e le riviste che c’erano in quel momento. Allora a livello nazionale c’era una battaglia precisa dei percorsi  dell’Autonomia, che erano contro la dissociazione e il pentitismo, però nello stesso momento non ci adagiavamo sulle posizioni di queste componenti che allora c’erano ancora un po’ dappertutto, residuali o no, che continuavano a percorrere il sentiero dell’armatismo e di un avanguardismo che per noi era fuori dai tempi. La battaglia politica si è poi tradotta in questo documento qui. Quindi riguardava sia l’associazione parenti detenuti, sia Graziella e Gastone coi loro “nuovismi”,sia la critica ai percorsi della dissociazione. Nel corso degli anni poi le differenze le facciamo stando nelle lotte antinucleari e sugli spazi sociali che caratterizzeranno gli anni dall’85 all’87.

A Torino uscivano in quegli anni due riviste, «Critica» e «Proletari».

«Critica» e «Proletari» erano due riviste ciclostilate che arrivavano dai percorsi bordighisti, di un dogmatismo estremo che facevano le pulci a tutta la sinistra emme-elle del nostro paese. Io me le ricordo così. Da lì vengono fuori alcuni  compagni di S-contro. A noi non interessavano, erano percorsi ultraminoritari.

In quel documento, l’unico riconoscimento alle BR è sulla rivolta di Trani, del dicembre ’80 e alla Campagna D’Urso ?. Scrivevi infatti «A proposito dell’Occ BR, la “Campagna D’Urso” e la chiusura dell’Asinara sono stati uno dei pochi momenti di sintesi positiva di attacco allo stato»?

Era una campagna che avevano apprezzato anche i compagni di «Autonomia», nel senso che c’erano state scelte sensate, tipo la Campagna D’Urso, cioè il sequestro, la chiusura dell’Asinara e la sua liberazione, e ce n’erano altre demenziali, come il rapimento e l’uccisione di Taliercio, fatto nel Nord-est che non aveva favorito per niente la crescita del movimento o delle lotte operaie, ma anzi le aveva danneggiate.

Nel 1984 il Circolo di Chieri organizza un corteo sugli spazi?

Sabato 21 gennaio 1984 a Chieri era stato organizzato dal Circolo giovanile invece un corteo sul discorso degli spazi, a cui ero andato. Iniziava a comparire il discorso sugli spazi giovanili su cui il Circolo giovanile di Chieri si dava particolarmente da fare. Poi a Torino iniziavano a esserci i punk anarchici in quegli anni: avevano una sede in Via Ravenna e con loro, piano piano, facciamo delle riunioni sugli spazi. Avevano fatto un’occupazione di un cinema in Corso Regina Margherita a Torino nel marzo 1984 e la giunta Novelli li aveva sgomberati. Iniziamo a fare un percorso sugli spazi a cui partecipiamo noi, i punk, quelli di Lotta Continua. Da Via Ravenna si spostano in Via San Massimo, qui si fanno le riunioni, loro organizzavano dei concerti in Lungo Dora Colletta. Ma siamo già nell’86.

Nell’ottobre 1983 a Roma c’è il grande corteo della pace contro l’installazione dei missili a Comiso. Al mattino in piazza Navona c’è un concentramento dell’Autonomia. Con grande sorpresa di Repubblica, in piazza lo spezzone dell’Autonomia è formato da diecimila persone. L’Autonomia non è stata distrutta dalla repressione della fine degli anni ’70?

Ho partecipato a quella grande manifestazione scendendo a Roma con i compagni di Chieri. Il corteo era aperto dallo striscione dell’Imac di Comiso e da tutti quelli che avevano partecipato al campeggio di Comiso di agosto: c’erano tutte le realtà nazionali del Coordinamento nazionale antimperialista. Portavamo in piazza quello che avevamo raccolto nell’estate di lotta sia davanti al carcere di Voghera che a Comiso, e quindi il risultato che avevamo da quei movimenti si è poi sviluppato in quel corteo, portando in piazza diecimila persone. 

Ricordo che c’era una componente cattolica veneta che era significativa, i Beati costruttori di Pace con don Albino Bizzotto, e poi tutte le propaggini dei vari partitini della sinistra che in quel momento si occupavano di pacifismo. C’erano quelli legati ai percorsi di lotta per la pace, c’erano i tifosi dell’Unione sovietica, poi c’erano quelli del Pdup, di Democrazia proletaria, di Lotta Continua per il comunismo. Del pacifismo in sé ricordo solo quella componente cattolica. Queste realtà le avevamo viste anche nel campeggio di Comiso, con cui ci confrontavamo nelle assemblee.

Come si arriva al Collettivo comunista torinese, che poi diventerà Collettivo comunista autonomo?

Si arriva a una rottura “dolce” con il Circolo sociale di Via Paesana, ma con chi rimane manteniamo buoni rapporti. C’era una differenza di analisi e nel rapporto con il Coordinamento  nazionale antimperialista antinucleare. Allora insieme al Collettivo di Chieri e a delle altre individualità, cinque o sei compagni e compagne che fuoriuscivano da Via Paesana, ricordo Domizio che avevamo conosciuto nelle prime iniziative antinucleari nel vercellese. A Crescentino c’era un comitato di disoccupati; grazie a quel comitato eravamo riusciti a iniziare a fare delle riunioni con degli abitanti di Livorno Ferraris, di Crescentino, sulla centrale di Trino ma soprattutto contro la nuova centrale nucleare più grande in costruzione a Leri Cavour. Dopo l’incidente di Chernobyl, nel 1986, diventerà un terreno importante di mobilitazione. Sulla vecchia centrale, quella piccola, c’era poco da fare, molte persone lavoravano lì, la giunta era favorevole, cosa diversa era la questione del cantiere della nuova centrale e noi ci siamo mobilitati su quel terreno, sia con i contadini che con altre soggettività in loco. Andando a queste riunioni, cominciamo a organizzarci a livello torinese, seguendo l’onda del Coordinamento  nazionale antimperialista antinucleare, abbiamo fatto questo Comitato contro l’energia padrona, che era il modo di relazionarci con le altre realtà che si muovevano contro il nucleare, come il Comitato contro le scelte energetiche che si ritrovava in via Assietta  a Torino, al cui interno c’erano dei ricercatori e dei tecnici antinucleari,  come Loris Colombatto, c’erano quelli dell’Acli, poi Lotta continua torinese, Dp, poi le aree nascenti dei Verdi e partecipavano anche quelli della Fgci che cercavano di smarcarsi dalle scelte filonucleari del Partito Comunista, ma che erano visti con scetticismo da tutti quanti per le ambiguità che c’erano dietro.

All’epoca erano state organizzate delle marce antinucleari, da Crescentino a Trino Vercellese il 24 marzo 1985  e poi da Casale a Trino Vercellese l’11 maggio 1986. Una volta in piazza, alla fine di una marcia, avevamo contestato quello della Fgci che parlava.

Con i chieresi, con qualche fuoriuscito da Lotta continua come Giancarlo e Massimiliano Borgia, con Domizio e con le compagne Miranda e Ivana, con Tonino e Mario che arrivavano dal Circolo sociale di Via Paesana e poi c’era Ermelinda che era una compagna che veniva dal sud. Con lei successivamente sono arrivati Massimo, Assunta, Bruno Lazzari, Valerio, Paola e Giuseppe.

Apriamo la sede in Corso Casale il cui proprietario era un ex radicale. La sede dava sul parco, era di fianco alle Cantine Risso e siamo stati lì per un po’ di anni. Non era lontano dall’università. Nel novembre 1986, a seguito delle lotte di Trino, c’è anche la perquisizione della nuova sede da parte della Questura, che aveva già iniziato ad attenzionare con interesse la nostra realtà.

S-contro era nato l’anno prima, avevano la sede in Via Po 12 che condividevano con l’Oci. Erano particolarmente impegnati nell’intervento con i disoccupati. E poi si sono aperti alle lotte degli studenti, sul nucleare.

Come mai non si è formato un solo gruppo tra S-contro e il Collettivo comunista autonomo?

Loro venivano da una pesante tradizione marxista-leninista, anche se nei comportamenti erano più simili a noi. Poi c’erano alcuni compagne e compagni come Betty, Sergio e Efisio che erano più portati ad approcciarsi alle realtà giovanili e quindi non c’era alcuna chiusura. Non abbiamo mai pensato di costruire un unico collettivo, ognuno faceva il suo percorso. C’erano compagni tra di loro che spingeva per rapportarsi a noi, c’era anche un po’ di concorrenzialità. Con loro non abbiamo mai avuto conflitti seri. Noi però guardavamo all’Autonomia, mentre loro guardavano sempre a percorsi  in giro per l’Italia, ad altre esperienze, marxisti-leninisti, poi a «Politica e classe» e quella sarà la loro apertura nazionale più solida negli anni successivi.

Nel novembre 1985 esce il primo numero del giornaletto del Collettivo comunista torinese, «Rebelles», in pieno movimento degli studenti dell’85, ma di studenti si parla poco.

Noi in quel periodo, tra l’83 e l’85, non avevamo nessun radicamento tra gli studenti medi, questa è la realtà. Il rapporto con gli studenti mesi riusciamo a costruirlo dopo il Movimento dell’85, a partire dai primi mesi del 1986. Nascerà il Collettivo Kaos, studenti del Gramsci, dell’artistico, del Grassi, che saranno successivamente anche perquisiti per una vignetta sul Presidente della Repubblica Cossiga. A Milano, proprio a partire dalla lotta degli studenti dell’85, si costruisce quello che sarà poi l’Autonomia milanese che porterà al giornale «Autonomen» e al Leoncavallo e alle grandi mobilitazioni degli anni successivi, ma erano sopratutto giovani compagni che venivano fuori da quel movimento. Infatti a Milano le manifestazioni furono particolarmente partecipate e anche accese, cosa che a Torino non accadde. A Torino  quel movimento era egemonizzato dal Circolo Rivoluzione, legato alla Lega comunista rivoluzionaria, dalla Fgci, da Lotta Continua. Allora gli studenti medi torinesi ciclostilavano in Via Rolando, da Democrazia Proletaria. Nel giro di qualche anno le cose si invertiranno e abbiamo avuto molto più spazio.

L’apertura della sede di corso Casale è un salto di qualità, dopo anni si ricostruisce una presenza fisica dell’Autonomia a Torino, ben riconoscibile, con la sua sede, il suo giornale, un collettivo.

Sì, nell’85 eravamo Collettivo comunista torinese  e dopo pochi mesi diventiamo Collettivo comunista autonomo, per segnare maggiormente la nostra identità. Iniziamo quel percorso che negli anni successivi porterà ad aprire molti campi di intervento. Facevamo due riunioni alla settimana, non c’era ancora il Csa Murazzi, quindi i singoli contribuivano a pagare l’affitto della sede. Di «Rebelles» ne sono usciti solo due numeri, poi siamo passati a «Crack per la rottura dell’ordine borghese» con l’uscita di 8 numeri. Anche all’università di Torino c’era una situazione diversa dalle altre città. Non c’era quella ricchezza di movimento di altre città e nemmeno lontanamente di quello che poi avverrà con il movimento della Pantera. A Palazzo Nuovo si forma un Comitato interfacoltà, formato da una decina di persone che venivano anche da altre esperienze, assemblee con cento persone e non di più, non ricordo grande effervescenza.

Nel 1986 c’è l’incidente alla centrale nucleare sovietica di Chernobyl, che rilancia il movimento antinucleare e si arriva alla giornata di lotta del 10 ottobre 1986 a Trino Vercellese, un passaggio particolarmente importante, la prima occasione in cui l’Autonomia piemontese ha un ruolo a livello nazionale.

Avevamo già partecipato alle marce Crescentino-Trino e Casale-Trino contro la nuova centrale nucleare prevista dal Piano energetico nazionale, avevamo iniziato ad avere una presenza assidua. Avevamo preso parte nel gennaio 1985 a un blocco della Regione Piemonte, quando il consiglio regionale doveva ratificare l’autorizzazione al cantiere a Trino, c’era stato un tentativo di blocco dei due ingressi della regione con la polizia che aveva sgomberato le strade, eravamo stati dentro questi appuntamenti. Dopo la tragedia di Chernobyl il nostro ruolo diventa più importante dentro il terreno dell’azione diretta e nelle iniziative contro le centrali nucleari. C’erano state iniziative a Caorso e a Montalto di Castro, in cui c’erano stati scontri con la polizia, e quella di Trino Vercellese è una iniziativa che si inserisce in quel contesto.

In quegli anni conosciamo anche i compagni di Alessandria e il loro Collettivo Subbuglio, con Cesare, Enrico,Marco dei peggio punx e altri, che erano una bella realtà. Anche loro iniziano a frequentare il Coordinamento nazionale antimperialista antinucleare, vengono ai campeggi di lotta. Con Subbuglio organizziamo poi le  iniziative in Val Bormida sull’Acna di Cengio e sulla questione dell’inquinamento ambientale. Ma visto che loro erano non lontani da Casale e da Trino, nel 1986 con loro instauriamo un rapporto molto forte sulla vicenda di Trino.

Il 10 ottobre 1986, grazie a delle leggerezze nel servizio d’ordine della Questura di Vercelli, che aveva sottovalutato la situazione, forse si erano fidati delle garanzie che avevano dato gli organizzatori ufficiali dell’iniziativa davanti al cantiere legati ai Comitati antinucleari di zona, si riesce a entrare nel cantiere e, visto l’assenza delle forze dell’ordine, a produrre un bel po’ di danni, con i manifestanti che si impossessano addirittura di una ruspa che poi finirà in un fosso. C’erano poi stati incendi, danneggiamenti, l’assedio al comune che era pro-nucleare (qui un vicequestore aveva ricevuto un uovo di vernice addosso): ne erano seguite delle cariche. Era stata una giornata significativa, aveva avuto un grosso risalto anche per i danni che erano stati quantificati in 500 milioni di lire. Nelle settimane successive la Questura di Vercelli ha cercato di portare a casa dei risultati, ma all’epoca non c’erano video né telecamere e quindi hanno fatto le perquisizioni a casa degli unici fotografi o cineoperatori di movimento, senza trovarle. Non c’è mai stato un processo. Dopo c’è stato un dibattito nel Comitato locale, ma poi nessuno ci ha fatto le pulci sulle iniziative fatte, sono stati tutti tranquilli. Anche Lotta continua, anche i tecnici alla fine l’hanno vista positivamente quella giornata. Al massimo sono stati quelli della Fgci, qualche mese dopo, in occasione dell’omicidio Tarantelli delle Brigate rosse, che sono venuti al Comitato per il controllo sulle scelte energetiche a porre la questione della nostra espulsione. Sono arrivati tre o quattro capetti della Fgci, dicendo: «O noi, o loro». Però poi tutti quanti hanno difeso la nostra permanenza nel comitato, non tanto per la nostra forza come torinesi, ma perché sapevano il ruolo svolto in quei mesi dentro il movimento antinucleare delle forze dell’Autonomia era centrale e la nostra espulsione così non è passata. E se ne sono andati via con la coda tra le gambe, perché nessuno aveva accettato le loro richieste.

Noi in quella lotta antinucleare avremmo appoggiato anche lo strumento del referendum, ma non credevamo che quella fosse la linea centrale, come era per altri gruppi e aree, eravamo più interessati al terreno della mobilitazione diretta e dell’azione. C’erano queste differenze.

All’Autonomia torinese di quegli anni viene a volte rinfacciata una certa rozzezza ideologica, la pratica dell’azione diretta che diventa ideologia. Tutto viene solo ricondotto all’idea centrale dell’azione diretta, solo quello come discrimine politico e ideologico. Una vera discriminante, ma che vista da fuori sembrava poca cosa?

Era una fase particolare, eravamo di fronte a tutte componenti che guardavano solo al terreno istituzionale e a rappresentarsi sul terreno elettorale e noi avevamo l’interesse opposto. A noi quel terreno non interessava, Non rifiutavamo il referendum e ci interessava il terreno dei movimenti, del protagonismo e dell’azione diretta. E siamo riusciti a mettere in piedi iniziative che nessun altro avrebbe fatto, perché nessuno si poneva il problema del blocco dei lavori e dei cantieri se non in forma di testimonianza o ridicola. A noi quel terreno non interessava. A Caorso era più difficile, perché era da anni il cantiere era in piedi, così come a Trino, dove da tempo c’era già una centrale, con un comune che viveva anche sulle compensazioni che venivano elargite dal nucleare. Ma a Montalto e al Pec del Brasimone eravamo riusciti a fare un buon intervento, Poi c’era anche la Fgci e il Pci, che comunque avevano delle componenti minoritarie antinucleari mentre la maggioranza del Pci era a favore del nucleare, una contraddizione che noi avevamo interesse a esacerbare nella mobilitazione.

L’area dell’autonomia inizia con il 1987 si allarga e inizia a radicarsi e ad articolarsi. Di certo la questione spazi è importante in questo percorso. Quando si apre la questione degli spazi sociali?

Noi avevamo questa sede in Corso Casale, andavamo ai campeggi di lotta nazionali nell’86, quando torniamo un gruppo di giovani e di studenti che avevamo iniziato a frequentare occupano un caseggiato in piazza Emanuele Filiberto. Mi ricordo che fino a pochi mesi prima non parlavamo di spazi né di occupazioni, e ci ritroviamo con questo palazzo che al piano terra aveva ancora un ristorante, ma che nei piani sopra era stato liberato dalle famiglie in una zona popolare, che è occupato da alcuni studenti del Gramsci che formano il collettivo Kaos, Sandrino, Steve, Mauro, Manuela e Chicco più alcuni fuoriusciuti dal giro punk anarchico, il collettivo Rosebud, come Paolo Sollecito e Bimbo. Iniziano a fare delle riunioni lì, ci invitano. Ci sono persone che si trovavano bene a frequentare i nostri ambienti per amicizia . L’occupazione nasce in maniera spontanea, si usava lo spazio ma non c’erano striscioni né niente, poi ad un certo punto la si rende pubblica appendendo qualche striscione e dopo un po’ di giorni iniziano a dialogare con la gente del quartiere, perché era una situazione ancora abbastanza popolare. Dopo una decina di giorni il proprietario si fa sotto e minaccia lo sgombero, arriva anche una volante e alla fine gli occupanti stessi abbandonano lo spazio, anche perché era di tipo abitativo, erano tutti alloggi e c’era la necessità di avere uno spazio più di riferimento, e anche la presenza del ristorante era un problema. Poi ci spostiamo in via Sant’Agostino e poi in via Santa Chiara, dove c’è una grossa occupazione. Lì lo occupiamo già come Collettivo spazi metropolitani e a Torino i punx anarchici avevano già occupato El Paso.

Tra l’86 e l’87 ci saranno delle riunioni del Coordinamento spazi, che si trovava in San Massimo dagli anarchici, dove ci trovavamo noi, i punk anarchici che poi occuperanno El Paso e per alcune riunioni erano venuti anche quelli di Lotta continua che poi daranno vita a Hiroshima Mon Amour. C’erano anche quelli di S-contro e quelli del Circolo rivoluzione.

Quando abbiamo occupato in Via Sant’Agostino c’erano stati dei problemi con dei malavitosi, dei ricettatori che erano in zona, piccola criminalità, che adesso non ci farebbe paura, ma allora eravamo giovani e si sono create delle incomprensioni, lo stabile era messo male da un punto di vista strutturale, c’erano rischi di crolli e quindi lo abbandoniamo e successivamente prendiamo il Convitto in Via Santa Chiara. Era uno spazio enorme, rimaniamo neanche un mese e poi veniamo sgomberati all’improvviso. Nel dicembre occupiamo  in Corso Regina 47 ma dopo pochi giorni veniamo sgomberati. Poi abbiamo occupato ancora un fabbricato comunale in Borgo San Paolo, in Via Millio. Ma per un po’ come Collettivo spazi abbiamo sospeso le occupazioni.

In quel periodo, durante l’occupazione.  ricordo che c’erano stati dei parapiglia al Gramsci, che era lì a due passi, vicino al Rondò della Forca, alla succursale e una decina di noi era stata denunciata e una decina di fascisti del Fronte della gioventù capitanati da Ghiglia.

La questione spazi riprenderà vigore per i collettivi autonomi sull’onda dello sgombero del Leoncavallo il 16 agosto del 1989, con le prime molotov lanciate dopo anni da chi difendeva il Leoncavallo. Quell’esperienza segna un passaggio importante.

Nel 1989, a settembre, occupiamo in Corso Regina Margherita 47 quello che oggi è l’Askatasuna, e in cambio otteniamo i Murazzi. Nel frattempo facciamo la campagna in sostegno della prima Intifada e la campagna per la liberazione di Guido Borio.

Come nasce la campagna per la liberazione di Guido Borio?

I compagni di Padova nell’84-’85 iniziano a parlarci di Guido, che è un loro coimputato nel processo 7 aprile padovano, ci spiegano l’importanza di mobilitarci sul suo caso. Nel 1987 per il processo d’appello a livello cittadino con il fratello di Guido e con altri amici e conoscenti, formiamo il Comitato per la liberazione di Guido Borio, andiamo alle udienze, si mobilita il filosofo Vattimo e anche un esponente del Pci, Giorgio Ardito, con cui Guido era stato in contrapposizione negli anni ’70 che però prende a cuore la vicenda di Guido, costruiamo tutta la campagna che culmina nel corteo del 1° maggio 1988, con un bello spezzone, in cui vengono anche i compagni da Padova. Guido, che era stato condannato a 26 anni di galera per concorso morale in omicidio,  esce dal carcere per sette-otto mesi, poi per tanti anni sarà semilibero e inizia a frequentare i nostri ambienti.

Nel 1988 esce un nuovo giornale, «Crack».

Prima c’era questo giornaletto-fanzine, «Rebelles», che abbiamo pubblicato per un annetto, che metteva insieme un po’ le lotte giovanili e studentesche che avevamo in piedi in quegli anni, poi nell’88 riteniamo utile fare un giornale cartaceo, anche stimolati da Guido che lo riteneva importante. Prima utilizziamo una tipografia di Torino, poi quella dei compagni del Veneto, che facevano Autonomia, e stampiamo i numeri di «Crack», che esce fino all’apertura di Radio Black Out, quando facciamo solo più dei volantoni, «Spazi sociali», che distribuiamo in occasione dei grandi appuntamenti.

Il 16 agosto 1989 a Milano viene sgomberato il Leoncavallo, dopo una dura resistenza, si rivedono le prime molotov dopo anni in Italia. «Quando ci vuole ci vuole» recita il manifesto che rivendica quella battaglia. Quali sono le conseguenze a Torino?

Per la città di Torino la vicenda del Leoncavallo è stata una cosa buona, che ci ha potenziato, perché eravamo noi i referenti di questa realtà a Torino e quindi vivevamo di rendita su tutto quello che in quel momento costruivano, del livello di risposta che riuscirono a mettere in piedi sia in occasione dello sgombero, sia nella manifestazione del settembre successivo, nella rioccupazione e ricostruzione del Leoncavallo. Quella vicenda fu un volano per centinaia di esperienze a livello nazionale che, sulla forza del Leoncavallo, iniziano delle campagne nelle loro città e anche dove, fino a poco tempo prima, era impossibile occupare uno spazio che veniva subito sgomberato, le amministrazioni si aprono, si interrompe il meccanismo occupazione-sgombero e quindi inizierà poi il tentativo di cooptarle. Quando andavamo alle manifestazioni a Milano ci andavamo in cinquanta-sessanta- cento giovani, facevamo i primi pullman, mentre prima andavamo in macchina perché non c’era la forza di riempire un pullman. Sull’onda del leonka a Torino si occupa lo stabile di Corso Regina Margherita e in cambio poi il Comune ci dà i locali dove apriamo il Centro sociale autogestito Murazzi, sul Lungo Po, in pieno centro. Prima facevamo dei concerti o delle attività con gruppi baschi o altri gruppi musicali in strada antica di Collegno, in una scuola, dove c’era uno spazio apposito, avevamo fatto due o tre concerti lì in attesa di avere un nostro spazio sociale. Dopo si crea questa situazione con El Paso da una parte e noi del C.S.A. Murazzi dall’altro, con tensioni anche tra le due esperienze in certi periodi.

Non avevamo  il mito dell’occupazione, ma vedevamo la possibilità di utilizzare quegli spazi e non dipendeva da quello l’alterità o l’antagonismo di queste esperienze . Il fatto che uno spazio fosse concesso o fosse occupato di per sé non voleva dire niente. Poi i Murazzi erano stati conquistati con l’occupazione di corso Regina. Per noi dipendeva da quello che facevi e sviluppavi nella tua pratica politica,  era questo il nostro discrimine. Dopo l’occupazione di corso Regina ci avevano indicato un elenco di posti e avevamo scelto i Murazzi, anche se c’era qualcuno che voleva andare all’Isabella in via Verolengo, che poi sarà occupato da quelli che diventeranno successivamente il Gabrio. Avevamo preferito la zona centrale dei Murazzi, anche se aveva i suoi difetti, c’erano già allora un sacco di problemi legati anche allo spaccio. A partire dalla metà degli anni ’80 sarà il primo luogo a Torino in cui si sviluppa la movida, verrà dopo San Salvario, il Quadrilatero… Era soprattutto un posto centrale, noi non avevamo una presenza forte in nessun quartiere per cui pensiamo che sia importante avere uno spazio nel centro della città. I Murazzi diventano così un punto di riferimento nella città, sia in termini di partecipazione che di frequentazione. 

A un certo punto si consolidano i rapporti con i baschi. Molti compagni fanno lì le vacanze, si costruiscono rapporti politici significativi.

C’era anche chi andava in Palestina, cosa che nasceva anche dai rapporti con i palestinesi che abitavano a Torino. Al tempo non c’era ancora quell’abitudine consolidata come c’è adesso di viaggiare. Nel corso degli anni si era instaurata l’abitudine ad andare d’estate nei Paesi Baschi, o in Germania e a Zurigo, dove c’erano forti occupazioni o manifestazioni, c’era chi andava in Francia dove c’erano dei compagni in esilio, c’erano convegni. Con i Paesi Baschi c’era un rapporto costante e reciproco, noi andavamo lì e loro venivano a Torino, era una modalità con la quale crescevano anche i compagni, perché era una lotta di popolo, che poi in forme diverse si sviluppa poi dal 2000 in avanti in Val di Susa col No Tav. Qualcuno è anche andato a vivere lì. Allora vedevamo le cose in quei termini, andavamo nelle zone di conflitto e scontro a livello europeo, all’epoca non c’era l’Erasmus, che fa parte del meccanismo di cooptazione capitalista dentro la costruzione di un immaginario occidentale .

Nel 1987 c’è in Palestina la prima Intifada, quella delle pietre: una lotta popolare, di scontri di massa tra giovani ed esercito israeliano. Dopo anni di pacifismo e di nonviolenza, reazione anche alla violenza armatista degli anni ’70, si torna a costruire un immaginario di uno scontro reale, ampio, radicale, capace di costruire attorno a sé un grande consenso. La violenza di massa viene in qualche maniera sdoganata. E l’autonomia appoggia con nettezza questa lotta, anche per questa forma che assume.

Con la prima Intifada noi a Torino sulla questione Palestinese abbiamo avuto una grossa partecipazione, rompeva un po’ con lo schema precedente,  solo armatista di Settembre nero, dell’Olp. Lì era una lotta di massa e popolare, connotati più simile ai percorsi che lavoravamo a sviluppare.

Nel 1987 c’è stato anche il caso Pezzana, ma col senno di poi considero una iniziativa significativa e giusta. Non dobbiamo avere niente da recriminare. Avevamo messo in difficoltà Dp, che si erano dissociati dalla nostra iniziativa. Le molotov che erano state tirate alla sua libreria da degli spontaneisti libertari, in maniera un po’ avventata, alla fine non avevano scalfito il nostro intervento, al limite lo avevano potenziato.

Siamo arrivati al 1989 dopo inizieranno gli anni novanta…….

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