KPD – Il tempo della rivolta
21 ottobre 1923
“Un tempo avremmo scritto, invertendo l’ordine dei termini e optando per la figura retorica dell’endiadi, «rivoluzione e rivolta», indicando in questo modo lo stesso concetto con una coppia di termini fra loro coordinati. Si badi bene: coordinati, non dissimili. Fino a qualche tempo fa, ad esempio tra Otto e Novecento, la rivolta è stata pensata come il primo vagito di una rivoluzione a venire, in particolare in paesi capitalisticamente arretrati come l’Italia e la Russia. Nel 1898 la Luxemburg parlava dell’Italia come del paese delle rivolte della fame, pur confidando che prima o poi il popolo lavoratore avrebbe appreso come condurre veramente la lotta di classe «per sanare le generali condizioni» del Paese. Un vecchio motivo, questo, sollevato già da Antonio Labriola, il teorico del nostro socialismo marxista, il quale, a proposito delle agitazioni promosse nel 1893 in Sicilia dai Fasci siciliani e stroncate dalla sanguinosa repressione crispina, invitava dalla «Critica Sociale» a non confondere il sacro col profano, a tenere distinta la rivoluzione dalla rivolta essendo quest’ultima «inaspettata», pronta a «ricadere nella fatuità dell’anarchismo», preda dei «passionati eccessi del proletariato». Per l’una e per l’altro valeva la lezione della Germania, con il suo partito operaio forte e organizzato e un proletariato capace di resistere e di progredire e, soprattutto, di camminare «sicuro, non alla rivolta di un giorno, non alla rivoluzione di un anno, ma alla conquista stabile e duratura della posizione». Come dire che il tempo delle sommosse e delle rivolte sarebbe finito presto per lasciare tutto lo spazio alla rivoluzione. E in effetti il nuovo secolo si aprirà all’insegna della rivoluzione, vittoriosa o sconfitta non importa.1905: Pietroburgo. Non un cieco tumulto di contadini ma l’entrata in scena di masse proletarie legate in qualche modo al sistema di fabbrica, con alla testa una giovane classe operaia ancora numericamente troppo debole per assolvere i propri compiti. I socialdemocratici russi – la «sgradevole e caparbia compagnia», come la chiama la Luxemburg, dei Plechanov, degli Aksel’rod, delle Zasulič – l’aveva prevista a tempo e per questo preparata e favorita «con tutta la rocciosa tranquillità e sicurezza che solo una Weltanschauung scientifica [corsivo nostro] e saldamente organica fornisce». È stato il materialismo storico con i suoi dogmi e le sue certezze, afferma convinta la Luxemburg, a permettere loro di scoprire sotto l’autocrazia zarista la classe operaia come un soggetto politico, «come l’unica bandiera a venire, in primo luogo dell’emancipazione politica della Russia dall’assolutismo, secondariamente della propria emancipazione dal dominio capitalistico».1917: Pietrogrado, questo il nuovo nome scelto dallo zar allo scoppio della guerra per esorcizzare la temuta vittoria tedesca, ci riprova. La differenza questa volta – siamo a febbraio – è che a guidare la rivoluzione sono «operai coscienti e ben temprati che erano stati formati soprattutto alla scuola del partito di Lenin». Già, il partito di Lenin. La questione dell’insurrezione quanto prima era diventata qualche mese dopo la posta in gioco di una resa dei conti all’interno del Comitato centrale del partito, con Lenin a orchestrarne la campagna a favore, Kamenev e Zinov’ev a sollecitare il partito ad adottare una posizione difensiva e non violenta . Per Lenin invece l’insurrezione è necessaria altrimenti, sostiene, la rivoluzione perisce. Ma l’insurrezione è un’arte… Fresco del successo del 25 ottobre del ’17, il 6 marzo del ’19 è ancora Lenin a sostenere la vittoria della rivoluzione, questa volta in tutto il mondo, e la fondazione della repubblica sovietica internazionale. Parla a nome della neonata Terza Internazionale, in un contesto che sembra concludere il cammino della hegeliana storia universale. 1919: 21 marzo, Ungheria; 7 aprile, Baviera; 16 giugno, Slovacchia. Scambiare la breve e drammatica vicenda di queste esperienze di potere sovietico nel centro Europa per una pausa momentanea fu l’abbaglio in cui cadde il suo esecutivo. Per correggere il tiro si pensò che sarebbe stato sufficiente denunciare il tradimento dei socialdemocratici e finirla con la politica del fronte unico. L’autosufficienza organizzativa dei comunisti affiliati alla nuova Internazionale e la purezza ideologica sarebbero state la garanzia sufficiente contro ogni futuro insuccesso. 21 ottobre 1923 : L’appello allo sciopero generale e all’insurrezione armata lanciato dalla Kpd alla conferenza dei consigli di fabbrica della Sassonia cade nel vuoto . L’ultimo tentativo di rivoluzione operaia in Germania si chiude con un insuccesso, tanto più grave se si pensa al coinvolgimento di Trockij e Zinov’ev nell’organizzazione dell’insurrezione.1936: annus horribilis della Rivoluzione in Europa. A difesa del «socialismo in un paese solo» iniziano a Mosca i grandi processi contro i bolscevichi del ’17. L’Internazionale, ormai strumento della politica staliniana, sconfessato il socialfascismo, lancia la parola d’ordine del fronte unico da sperimentare, dopo la Francia di Léon Blum, nella Spagna di Manuel Azaña: un fallimento conclusosi nel ’39 con la «feroz matanza» orchestrata da Franco all’indomani della vittoria fascista. Che dire? Che nel ’17 la «rivoluzione era stata fatta non per portare la libertà e il socialismo alla Russia, ma per innescare nel mondo la rivoluzione proletaria. Nella mente di Lenin e dei suoi compagni, la vittoria del bolscevismo in Russia era innanzitutto una battaglia nella campagna che doveva portare alla vittoria del bolscevismo su una scala mondiale assai più vasta, e solo in tal senso era giustificabile». L’ipotesi che il secolo breve della Rivoluzione – 1917/1939 – sia una conseguenza dell’abbandono di questo principio leninista da parte di Stalin è vera solo in parte; dietro il XIV Congresso del Partito comunista russo (dicembre 1925) c’è una lunga storia che parte da lontano, dal Congresso di unificazione della socialdemocrazia tedesca a Gotha (1875). Il peccato d’origine allora fu l’abbandono del principio internazionalista sancito più e più volte negli statuti dell’Associazione internazionale degli operai fondata nel 1864 a Londra. La Terza Internazionale vi si ispirerà al momento della sua fondazione (1919) per abiurarlo, per l’appunto, nel ’25. È alla luce del nuovo ordine che si spiega tutto il resto, vale a dire le rivoluzioni, declassate a sordide rivolte, nelle province del nuovo impero, lungo tutto i primi trent’anni del dopoguerra.
“Agli inizi del 1923 si formò in Germania una nuova situazione rivoluzionaria. Centomila soldati franco-belgi, a titolo di risarcimento dei danni provocati dalla Germania durante la prima guerra mondiale, furono mandati a occupare la regione della Ruhr.
La Francia, vedendo da un lato che la Germania non era in grado di pagare alle potenze vincitrici il debito impostole con il trattato di Versailles, e mirando dall’altro a una propria egemonia in Europa, non aveva alcuna intenzione di aspettare: per di più la Ruhr, ricchissima di materie prime e di industrie, le faceva particolarmente gola.
I comunisti tedeschi, aiutati dai partiti e dai sindacati comunisti di tutto il mondo, iniziarono subito la lotta contro gli invasori. Essi proponevano l’organizzazione di un fronte unico che servisse anche a rovesciare il governo Cuno, fermo sulle posizioni della “resistenza passiva”.
Purtroppo però i dirigenti della socialdemocrazia e dei sindacati, che avevano un grande ascendente sugli operai, preferirono appellarsi all’”unione patriottica” e alla conclusione di una “pace civile” con la borghesia.
Alcuni dirigenti opportunisti dello stesso Kpd – contro i quali, fra gli altri, lottò Thälmann – preferivano considerare il fronte unico della classe operaia più come un compromesso fra il loro partito e i dirigenti socialdemocratici, che non come una premessa del governo proletario. Questo permise al governo Cuno di sferrare violenti attacchi al movimento operaio e al partito comunista, anche se poi, di fronte allo sciopero generale di 3 milioni di persone, fu costretto a dimettersi.
Purtroppo il Kpd non seppe utilizzare la situazione favorevole dando un fine politico allo sciopero e obbligando i socialdemocratici a formare un governo operaio. L’unico autentico rivoluzionario nella direzione del partito restava Thälmann, il quale era veramente intenzionato a preparare una lotta armata per la conquista dei potere. Per questo fu minacciato addirittura dì espulsione. Ma grazie alla sua influenza il Cc decise di creare un consiglio militare permanente.
Si prevedeva un’insurrezione nella Germania centrale e ad Amburgo, senza però prendere in considerazione i centri operai di Berlino e della Ruhr. Di fronte a questo nuovo pericolo il governo di Stresemann, che aveva sostituito Cuno, introdusse lo stato d’assedio, vietando così gli scioperi e abolendo la conquista operaia delle 8 ore lavorative.
I comunisti risposero creando dei governi operai in Sassonia e in Turingia, ma senza voler armare il proletariato, né controllare le banche e la produzione, né sciogliere la polizia e incoraggiare l’attività rivoluzionaria degli operai e dei contadini. In pratica – disse G. Dimitrov – si comportavano “come ministri parlamentari nell’ambito della democrazia borghese”.
In ogni caso lo svolgersi degli avvenimenti obbligava i comunisti a prepararsi a una insurrezione armata. Il governo non poteva assolutamente tollerare la presenza di amministrazioni popolari alternative e dì reparti militari a tutela del proletariato.
Fu proprio in questa occasione che si verificò uno degli episodi più infelici nella storia del Kpd. La sera dei 21 ottobre 1923, in un piccolo appartamento operaio di Amburgo, si tenne una riunione della direzione dell’organizzazione del litorale del Baltico. Presiedeva Thälmann. All’ordine del giorno c’era l’elaborazione di un piano insurrezionale, in cui si prevedeva uno sciopero generale. Il piano fu approvato il giorno seguente.
Sennonché la dirigenza opportunista del partito, con sede a Berlino, decise di revocare l’insurrezione armata nel momento stesso in cui 18mila operai dei cantieri di Amburgo erano già stati mobilitati. Per tre giorni e tre notti si condusse la battaglia nelle strade della città contro un nemico assai più numeroso. Pur essendo male armati gli insorti applicavano una tattica flessibile che permetteva loro di conservare le posizioni respingendo i furibondi attacchi dell’esercito e della polizia. Le battaglie più violente si svolsero nei sobborghi. Thälmann dirigeva le operazioni militari e lo si vedeva sulle barricate in diversi quartieri della città. Lo stato maggiore cambiava costantemente di luogo.
Naturalmente, senza ricevere gli aiuti attesi la rivolta non poteva durare a lungo. Ecco perché il comando militare, su proposta dì Thälmann, dette l’ordine di ritirarsi. Nel suo messaggio del 25 ottobre, diffuso in tutta la città, era scritto che la lotta veniva non conclusa ma solo sospesa, poiché essa avrebbe dovuto ispirare tutta la classe operaia a intraprendere nel futuro nuove azioni rivoluzionarie. La sconfitta ad Amburgo – dirà poi Thälmann – “è stata mille volte più feconda e preziosa per le future lotte di classe di una ritirata senza aver nemmeno sparato un colpo”.
Ad Amburgo si scatenò immediatamente il terrore controrivoluzionario. L’organizzazione comunista fu soppressa e i suoi beni confiscati. La sconfitta del proletariato in questa città fu il segnale per l’attacco della reazione in tutto il paese. In poco tempo caddero i governi operai della Sassonia e della Turingia. Il 23 novembre il Kpd venne messo fuori legge.
Guarda “Ernst Thälmann története“:
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