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Diritto alla città, lavoro ambulante, repressione. Note di discussione

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Contributo per il dibattito del convegno “Per una critica della città globalizzata” inviatoci da Gennaro Avallone, relatore nella tavola rotonda “Processi trans-urbani di costruzione della città globalizzata” di giovedì 31 maggio alle ore 17.

 

 

Il lavoro ambulante è sempre più interessato in molteplici città del mondo da processi di repressione, marginalizzazione e criminalizzazione. Questi processi colpiscono nelle città europee soprattutto una parte della popolazione migrante e si producono nelle aree delle città oggetto di propaganda politica o di forti interessi economici privati. Di seguito, si presentano alcune considerazioni generali su questo tipo di lavoro, fortemente connesso alle trasformazioni urbane, a partire da tre parole chiave che guidano la riflessione.

  1. Parole chiave

Le parole chiave individuate per delineare in breve il tema sono: diritto alla città, lavoro ambulante e repressione. La prima – diritto alla città – è intesa come il rapporto tra spazio pubblico (dunque politico) e interessi economici in conflitto. La seconda – lavoro ambulante – è intesa come lavoro, attività produttiva di reddito e ricchezza, in alternativa alla visione che lo riduce a questione di ordine pubblico. La terza – repressione – si riferisce alle specifiche misure amministrative e di polizia che si stanno implementando contro la presenza nei luoghi pubblici dei lavoratori e delle lavoratrici ambulanti, convertita in un argomento e pratica di controllo sociale.

Queste tre parole chiave orientano la discussione verso una domanda: di chi è la città, oggi, nel capitalismo globalizzato? Per rispondere, è necessario approfondire alcuni aspetti delle parole chiave individuate.

  1. Il diritto alla città

Le aree interessate dalla propaganda e dalle politiche contro la presenza dei lavoratori e delle lavoratrici ambulanti sono quelle aree urbane interessate, solitamente, da processi di gentrification o di gentrification commerciale. Nel primo caso, la “gentrification consiste in un processo territoriale che è il risultato di specifici assemblaggi economici e politici e che provoca processi di accumulazione per espropriazione attraverso lo spostamento e l’espulsione di famiglie a basso reddito” (Janoschka, 2016). Nel secondo caso, quello più tipico delle aree urbane italiane in cui la presenza del commercio ambulante viene sottoposta a misure di controllo ed allontanamento, la gentrification commerciale consiste nella sostituzione di consumatori e tipi di attività commerciali, attraverso l’estrazione delle risorse dei consumatori con risorse più elevate, di tipo economico e/o di tempo (Semi, 2015). In molte città, questo processo spesso si manifesta nello spostamento degli utlizzatori dello spazio pubblico, in particolare dei venditori ambulanti. In questo senso, è famoso quanto èaccaduto nel centro storico di Città del Messico dopo gli investimenti dell’inizio del secolo di Carlos Slim.

La spinta dei processi di gentrification, attraverso l’azione di specifici interessi economici attivi in sintonia con gli interessi politici di chi governa le città, si traducono in precise politiche urbane guidate da alcune parole d’ordine, tra cui risuonano le seguenti: sicurezza, ordine e legalità. Un compendio di questa trinità si trova nelle parole del Sindaco del Comune di Salerno, nel Sud Italia, di fronte alle mobilitazioni degli e delle ambulanti locali: “Abbiamo il problema della globalizzazione, delle masse sterminate che occupano la nostra città, ma difendiamo nel modo migliore il nostro decoro urbano” (Sindaco di Salerno, aprile 2017). Va tutto insieme: sicurezza (vs. paura), ordine e decoro, difesa della legalità. D’altronde, l’ordine urbano è stato definito come decoro addirittura da una legge in Italia. La Legge 48/2017, sviluppo del Decreto Minniti (D.L. 13/2017), dice, infatti, che “nel presente decreto, la sicurezza urbana è intesa come bene pubblico che si riferisce alla vivacità e al decoro delle città, e anche attraverso interventi di qualificazione e recupero di aree o siti degradati”. E utile retorica per individuare gli indecorosi, oltre che i nuovi soggetti pericolosi, è quella della legalità, declinata in questo caso come vendita di prodotti illegali da parte di soggetti che non vogliono pagare le tasse. Una retorica che si produce non solo dall’alto, con l’azione istituzionale, ma anche dal basso, fino a dare vita ad una app per segnalare casi di “degrado” (https://www.decorourbano.org/lista-segnalazioni/).

Dunque, di chi è la città? La città è di tutte le persone che vivono nei suoi spazi o solo di alcuni specifici interessi economici e politici? In realtà, sappiamo che possono essere vere entrambe le opzioni, in quanto a parità di diritti decide la forza, per cui spesso, il diritto alla città può assumere spesso le forme di un grido lontano che evoca l’universalità della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite (Harvey, 2008). Il diritto alla città è l’esito di un conflitto, dunque per sapere se e quanto è legittimo utilizzarne gli spazi per le attività del lavoro ambulante bisogna guardare all’esito dei conflitti che interessano tale lavoro nei riguardi del governo urbano e degli interessi economici concorrenti. D’altronde, con Foucault abbiamo imparato che fare una storia degli spazi vuol dire fare, allo stesso tempo, una storia dei poteri.

  1. Repressione e azione

In Italia, il lavoro di strada impiega circa 200.000 persone – più della metà di loro sono stranieri. Il lavoro itinerante è attraversato dalla linea di colore, perché ci sono diversi tipi di vendite e merci, che distinguono tra quelle degli italiani e quelle degli stranieri, di solito non bianchi.

Secondo elaborazioni dell’ufficio studi della camera di commercio di Monza e Brianza su dati del Registro delle imprese, le imprese attive nel lavoro ambulante nel 2016 in Italia erano precisamente 191.963, di cui 102.543 (il 53,4%) con titolarità straniera. Le aree merceologiche di maggiore interesse per questi ultimi sono tre: chincaglieria e bigiotteria (22.286 imprese), tessuti, articoli per la casa e di abbigliamento (27.049), calzature e pelletterie (1.910).

Il lavoro ambulante riguarda, quindi, in modo diretto una parte importante della popolazione straniera, così come interessa in maniera indiretta un’altra parte della popolazione, in qualità di consumatrici e consumatori, anche se quello esercitato dagli stranieri è, per tipologia merceologica interessata, prevalentemente lavoro povero per consumo povero.

Quasi tutti gli operatori di strada al di fuori delle aree di mercato sono stranieri. Si parla, quindi, facilmente di invasione, mancanza di sicurezza, illegalità, perché sono migranti stranieri: membri di classi pericolose. È la retorica, e dunque la politica, del razzismo ad essere messa in moto, sia perché, in una struttura economica e occupazionale razzializzata, esistono poche alternative economiche legali per molte di queste persone, sia perché l’ordine del discorso si basa sull’idea che queste persone siano estranee ai contesti locali, non vi appartengano, siano fuori luogo, un fastidio, una seccatura. Le retoriche razziste si coniugano con la criminalizzazione di questi lavoratori e lavoratrici trasformati in pericoli pubblici, espressione di una più generale trasformazione delle questioni del lavoro in materia di ordine pubblico quando al centro di tali questioni non vi sono gli attori eredità del compromesso sindacale, attivi dentro le logiche istituzionalizzate e depotenziate proprie di quel compromesso.

C’è da dire, però che i processi e le tendenze individuate sono generali, anche se non si manifestano allo stesso modo in tutte le città. L’allontanamento delle lavoratrici e dei lavoratori ambulanti dai centri delle aree urbane e dalle zone con maggiore presenza turistica si è realizzato, negli ultimi anni, in maniera differenziata in base ai tempi del consumo, selezionando le presenza in relazione al calendario e alla fasce orarie, oltre che in base allo svolgimento di campagne eccezionali di controllo sulla spinta di esigenze politiche e simboliche delle istituzioni locali. L’allontanamento è stato quasi totale in alcune città, mentre è stato maggiormente negoziato in altri casi.

In un contesto generale caratterizzato dai processi individuati, le specificità delle esperienze locali continuano ad essere importanti e segnano la possibilità, tra l’altro, di individuare pratiche positive che potrebbero essere tradotte altrove, ad esempio con riferimento ai rapporti di negoziazione e confronto tra le istituzioni locali e le rappresentanze del mondo del lavoro autonomo ambulante.

Ciò vuol dire che in una tendenza generale alla criminalizzazione e marginalizzazione, a causa dell’incompatibilità di queste presenze con l’ordine del decoro, è possibile localmente agire rapporti di forza che mettono in discussione tale ordine, anche a causa della sua oggettiva fragilità e mutevolezza, coerente, del resto, con le necessità del rapporto tra città e regime contemporaneo di accumulazione (flessibile).

  1. Conclusioni

Secondo Veronica Gago (La razón neoliberal: economías barrocas y pragmática popular, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014, p. 10), “dal basso, il neoliberismo è la proliferazione di modi di vita che riorganizzano le nozioni di libertà, calcolo e obbedienza, proiettando una nuova razionalità e affettività collettiva”. Ed è proprio a questa ragione neoliberale che si ispirano le lavoratrici ed i lavoratori ambulanti di molte città, orientata a recuperare spazi di azione e parti di ricchezza sociale attraverso una rielaborazione della razionalità neoliberale. Quest’ultima viene ritradotta, da un lato, nella capacità di risposta a specifici segmenti di mercato e, dall’altro lato, nella capacità, attraverso le mobilitazioni, di riattivare sentimenti in grado di aggregare, come quelli della giustizia sociale, della dignità e del rispetto: parole d’ordine che possono essere la base per favorire la costruzione del diritto alla città, verso una città non escludente, alternativo a quello che si è affermato con le retoriche della sicurezza e con le misure di polizia degli allontanamenti, degli sgomberi, degli inseguimenti e delle multe.

I casi di Madrid e Barcellona, con i sindacati degli ambulanti (de los manteros) attivi su più fronti, da quello imprenditoriale con il marchio Top Manta a quello militante con le iniziative contro il razzismo istituzionale e la legge dell’immigrazione, ma anche quelli di Pisa, con la combinazione tra mobilitazioni e proposta commerciale con il marchio Abusif, e di Caserta e Salerno, capaci di prolungate vertenza nonostante le, seppur differenziate, chiusure istituzionali, sono espressioni di questa ragione neoliberale giocata dal basso dalle aree popolari, in alternativa ai blocchi determinati dalle politiche di decoro e sicurezza.

 

Gennaro Avallone

 

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