Il diritto alla città: un capitolo mancante, ancora da scrivere?
di nc
Nel testo viene proposta una disamina de “Il diritto alla città” di Lefebvre. Attraverso un’analisi che dialoga costantemente con il testo dell’autore francese, vengono discussi alcuni passaggi considerati premonitori, nella loro capacità di anticipare lo sviluppo di alcune tendenze che quando il filosofo scriveva erano solo allo stadio di prodromi. Viene inoltre definita una critica del concetto portante del libro e si discutono punti di forza e limiti di un approccio lefebvriano alla contemporaneità.
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… qual è l’essenza della città per il potere?
Ai suoi occhi, essa appare piena di attività sospette, ribolle di delinquenza;
è un focolaio di agitazioni1.
1) Preambolo
Il “diritto alla città” negli ultimi anni è diventato riferimento ricorrente per molteplici soggetti. Probabilmente per troppi. Dalle teorie radicali e dagli slogan dei movimenti, questa categoria è infatti giunta sino a puntellare alcuni documenti dell’Onu. Tale sovraffollamento, questa trasversalità nel lessico politico, segnala una problematicità, da assumere come ambivalenza tra i limiti che ciò comporta e i contemporanei spazi di possibilità che una simile diffusione inaugura. Quando infatti un concetto tende a divenire socialmente pervasivo e riconosciuto, si trasforma in un campo tensivo e di contesa rispetto all’interpretazione e al senso da attribuirgli. Potremmo dire in altra forma che tale concetto contiene potenzialità egemoniche da articolare. Il “diritto alla città” è dunque oggi attraversato da correnti di significati contraddittorie, può essere declinato in direzioni politiche antagonistiche tra loro. E’ una categoria densa e instabile, che vive anche delle costitutive antinomie insite nel linguaggio dei diritti. E’ un’idea che va dunque ridefinita, al centro di una contesa politica, e radicalmente pensata ex novo. Per compiere questa operazione non è sufficiente (seppur necessaria) una costante opera che situi il “diritto alla città” in relazioni sociali concrete, in spazi determinati, in pratiche, in soggetti, per sottrarlo ad una generica universalità. E’ anche decisivo risalire alla sua genesi teorica, per scoprirne linee di possibile attualizzazione, blocchi, e scarti necessari da compiere per un suo utilizzo oggi. Tornare dunque a Henri Lefebrve, che dopo anni di oblio sta vivendo una spettacolare rinascita accademica negli ultimi anni. Tornare al testo che questo filosofo e militante francese scrisse a Parigi nel 1967 – come lui stesso appone alla fine del libro, senza malcelata modestia, nel centenario del Capitale.
Comporremo selettivamente un quadro, lasciando spesso parlare Lefebvre. Metteremo in evidenza alcuni aspetti del libro, senza la volontà di proporne un riassunto puntuale. Non ci addentreremo ad esempio nella filosofia della città né nella parte propriamente storica del testo, che a nostro avviso propongono utili sintesi per chi volesse affacciarsi a tali temi, ma poco aggiungono in termini di originalità. Daremo invece risalto alle parti dell’opera che per noi sono pregne di carica anticipatrice, che talvolta paiono lambire vette di visione, o comunque costituiscono decisi momenti predittivi. Guarderemo a Lefebvre come un autore situato su una soglia storica, che vede arrivare un punto limite e cerca di scrutare oltre. Di riportare nel suo presente frammenti di futuro, che oggi possiamo dire essersi per significative porzioni realizzati.
2) Contesto
Sin da giovane attivo nel Partito Comunista Francese, partecipa attivamente alla resistenza antinazista. Si racconta che nell’immediato dopoguerra fosse coinvolto nel mantenimento della struttura clandestina che il partito sostenne per alcuni anni. E un aneddoto non confermato narra di una serata in un casinò di Marsiglia al quale l’aveva accompagnato un compagno fidato, che assicurò sulla possibilità di investire con sicurezza su un tavolo da gioco. Pare che Lefebvre perse così una parte dei fondi destinati all’attività clandestina… Ma non fu certo questo il motivo che lo fece uscire dal PCF nel 1958. In quegli anni infatti, così come in Italia venivano sviluppandosi le prime fibrillazioni interne al PCI e si muovevano i primi “ricercatori scalzi” (dai quali gemmeranno varie correnti di marxismi eretici), l’ortodossia stalinista si imprimeva sui partiti comunisti europei. Ciò produsse il progressivo distacco di numerose figure, che seguiranno nuovi orizzonti teorici e politici. Fra queste Lefebvre in Francia risulta sicuramente una di quelle di maggior spessore.
L’autore, da una formazione dal forte impianto filosofico, si orienta negli anni verso sensibilità sociologiche che lo inducono, in particolare a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, a inquadrare come oggetto di ricerca la città e l’urbano. Un focus al contempo chiaro e sfuggente:
«La città è stata e resta oggetto, ma non un oggetto maneggiabile, strumentale […]. La sua oggettività o “oggettualità” potrebbe piuttosto assomigliare a quella del linguaggio, che gli individui o i gruppi ricevono prima di modificarlo…»2.
“Le Droit à la Ville” è il testo inaugurale di questa stagione teoretica, che vedrà uscire in seguito altri scritti importanti. Tra i più noti “La Revolution Urbaine” e “La Production de l’Espace”3. Ciò che qui interessa non è però una lettura complessiva della prestazione lefebvriana, quanto una focalizzazione sul libro “Il diritto alla città”. Prima di addentrarci tra le sue pagine, è tuttavia bene fornire qualche ulteriore elemento per completare questa sintetica cornice del contesto nel quale l’idea venne elaborata. E non si può non fare menzione a Parigi, che indubbiamente funse da sorgente ispiratrice per Lefebvre. La metropoli francese, da metà anni Cinquanta e per il ventennio successivo, subì infatti una profonda trasformazione morfologica e sociale. Basti pensare che circa un quarto dell’intera superficie urbana venne demolito e ricostruito, con l’annessa espulsione di oltre mezzo milione di abitanti verso i suburb. E’ in questo periodo che si assiste alla costruzione della périphérique, un gigantesco boulevard circolare di trentacinque chilometri, che racchiude quello che diverrà stabilmente il Centro. Si consolida di conseguenza la Periferia, nuovo habitat per working class e migranti. E la dicotomia centro-periferia si sovrappone e sostituisce, definitivamente, alla tradizionale distinzione tra città e campagna4.
Quando scrive Lefebvre, Parigi è da quasi due secoli una città estremamente instabile. Spazio simbolico della Rivoluzione, diviene per tutto l’Ottocento il luogo di una temporalità sempre aperta al cambiamento, attraversata da repentine accelerazioni, rarefazioni e precipitazioni, attese. Eppure nei decenni post-bellici l’immensa operazione urbanistica pare portare a termine quel lavoro che un secolo prima aveva iniziato Haussmann: la traduzione urbana della lotta di classe; far divenire le pietre stesse della città parte del scontro; il modellare lo spazio con l’obiettivo di espungere il conflitto dalla città. Questa è l’operazione che Haussman porta avanti dopo il 1848. I grandi boulevard della Parigi delle Esposizioni Universali sono esplicitamente introdotti come tagli e lacerazioni di un tessuto urbano che era immediato terreno di insorgenza. Walter Benjamin scriverà alcune pagine magistrali al riguardo:
«Il vero scopo di Hausmann era di garantire la città dalla guerra civile. Egli voleva rendere impossibile per sempre l’erezione di barricate […]. I contemporanei battezzeranno l’operazione l’“embellissment strategique”»5.
Operazione che ad ogni modo fallirà, come sottolinea poco più avanti l’autore stesso:
«La barricata risorge nella Comune […] traversa i grandi boulevards […]. Come il Manifesto comunista chiude l’epoca dei cospiratori di professione, così la Comune mette fine alla fantasmagoria che domina la libertà del proletariato6».
Anche se questi frammenti testuali di Benjamin verranno rinvenuti successivamente a quando scrive Lefebvre, i due autori paiono dare valutazioni analoghe sul periodo7. Ma è con gli occhi proiettati sul proprio presente che Lefebvre scrive, intravvedendo nuove soggettività in nuce pronte ad affacciarsi sull’agone politico. Nonostante la straordinaria coincidenza tra la pubblicazione del libro di cui stiamo parlando (marzo 1968) e la rivolta studentesca del Maggio francese, “Il diritto alla città” non è pensato come testo rivolto alla composizione studentesca – che ne farà comunque un manifesto durante le giornate di rivolta. «Sous les pavés de Paris, la plage», recitava un famoso graffito del movimento. Sotto le strade di Parigi, c’è la spiaggia. E, al di là delle intenzioni dell’anonimo autore, potremmo dire che la metafora è suggestiva per il nostro discorso. Parigi è una città infatti dalle fondamenta mobili, oscillanti, costantemente sottoposta all’ondivaga pressione di maree sociali e di improvvise ventate di rivolta. Ma, tornando a Lefebvre, ciò che il suo libro intende provocare è più un travaso dalle periferie verso il centro di colate conflittuali che una implosione del centro stesso. Fuor di metafora: il diritto alla città, nel suo livello più schiettamente pratico, è un qualcosa di negato alla composizione sociale espulsa dal centro che tramite questo slogan dovrebbe riappropriarsene. Torneremo sulla questione. Iniziamo ora a introdurci nel testo.
3) Testo
«Questo scritto avrà una forma aggressiva, o che qualcuno potrà forse giudicare tale»8. Questo l’incipit contenuto nell’Avvertenza con la quale Lefebvre apre il libro. La promessa è mantenuta nel corso delle pagine. Con un ritmo secco, sincopato, scandendo concetti complessi nel corso di quindici brevi capitoli, “Il diritto alla città” è l’apertura di un orizzonte teorico che fa i conti col marxismo9 e con le ideologie liberali. Contiene entusiasmanti anticipazioni, tra le sue righe emergono talvolta visioni assolutamente attuali. Intreccia epistemologia, filosofia, semiotica, urbanistica, sociologia. Un terreno di pensiero che tuttavia non si riduce mai a erudizione accademica, ma che cerca sempre una stringente circolarità con elementi concreti. Tuttavia, anticipando sin d’ora le conclusioni – e da qui il titolo del presente scritto -, questo movimento incalzante non arriva a un finale a nostro avviso degno delle premesse e dello svolgimento. Ma forse proprio in ciò può risiedere l’interesse a rileggere questo libro oggi, a riprenderne la trama. Ma andiamo con ordine.
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Va innanzitutto evidenziato come la base analitica dalla quale prende avvio la riflessione di Lefebvre sia la progressiva evaporazione di quanto sino a quel momento era stato definito come “città”:
3.1) La crisi della città
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«… s’intravvede la crisi della città. Crisi teorica e pratica. Nella teoria, il concetto di città (di realtà urbana) si compone di fatti, di valori e immagini mutuate dalla città antica (preindustriale, precapitalista) ma in corso di trasformazione e rielaborazione. Nella pratica, il nucleo urbano (parte fondamentale dell’immagine e del concetto di città) scricchiola ma resiste […] non ha lasciato posto a una nuova e ben definita “realtà”, così come il villaggio aveva visto nascere la città. Tuttavia il suo regno sembra finire»10.
C’è qui l’annuncio di una fase di transizione che pare volgere al termine. Viene segnalata una trasformazione le cui cause genetiche sono lampanti. E’ l’industria infatti che «va al suo assalto [della città antica], se ne impadronisce, riorganizzandola secondo i propri bisogni; essa aggredisce anche la città (ciascuna città), la prende d’assalto, la conquista, la saccheggia»11. Poco più avanti Lefebvre così prosegue il suo ragionamento:
«Ci troviamo di fronte a un duplice processo o, se si preferisce, a un processo a due facce: industrializzazione e urbanizzazione, crescita e sviluppo, produzione economica e vita sociale. Le due “facce” inseparabili di questo processo hanno una loro unità e, tuttavia, il processo si presenta come conflittuale. […] Questo processo dialettico, lungi dall’essere chiaro, è anche ben lontano dall’essere concluso»12.
Questa suggestiva traccia di ricerca verrà ripresa da uno dei più conosciuti epigoni del filosofo francese: David Harvey13. Il geografo marxista inglese, in particolare con il testo del 1985 “The Urbanization of Capital”, farà di questo nesso tra industrializzazione e urbanizzazione uno snodo cruciale per la comprensione della contemporaneità. Inoltre, nei suoi ultimi lavori, Harvey sostiene che terminata la fase di industrializzazione, proprio l’urbanizzazione sia divenuta il vettore trainante del rapporto di capitale.
Ciò che Lefebvre vede in atto, come dicevamo in apertura, è comunque un punto limite in avvicinamento oltre il quale la città fuoriesce da se stessa, degenera, eccede i suoi storici confini, de-lira. L’oscuro «processo dialettico» descritto non è concluso, ma Lefebvre sente di muoversi in una zona di frontiera che modifica il paesaggio e porta verso mete sconosciute. Queste alcune delle parole con le quali tale momento viene descritto:
«Attualmente, dunque, si sta intensificando un processo indotto che possiamo definire di “implosione-esplosione” della città. Nei grandi paesi industriali, il fenomeno urbano si estende su gran parte del territorio, superando anche le frontiere nazionali: la Megalopoli dell’Europa del nord si estende dalla Ruhr al mare fino alle città inglesi, e dalla regione parigina fino ai paesi scandinavi. Questo territorio è racchiuso in un tessuto urbano a maglie sempre più strette, non senza differenziazioni locali ed estensione della divisione (tecnica e sociale) del lavoro alle regioni, agli agglomerati, alle città»14.
La proiezione di una Megalopoli transnazionale che attraversa i confini, si estende sui mari, si fa tout court territorio, è assolutamente attuale. Pare quasi impensabile che Lefebvre potesse vederla giù allora. Quello che egli coglie col suo sguardo è però anche la compresenza di un effetto speculare. La città è infatti materia malleabile ma non plastica. La stiratura che la porta a coprire porzioni spaziali sempre più ampie si dà anche attraverso buchi: «molti nuclei urbani antichi si degradano o si spengono»15. Anche qui si non possono che riverberare nella mente plurime istantanee dell’urbanizzazione contemporanea.
Ad ogni modo, al di là dell’evidenziata carica di tensione visionaria, la prospettiva lefebvriana si articola anche nel tentativo di definire precisi quadri analitici. In questa direzione propone una periodizzazione tripartita per leggere i processi dei quali stiamo ragionando: una prima fase nella quale l’industrializzazione distrugge la realtà urbana con l’ideologia e con la prassi; un secondo passaggio, parzialmente giustapposto, corrisponde all’estensione dell’urbanizzazione. Il terzo momento è quello in cui «Si ritrova o si reinventa […] la realtà urbana. Si cerca di ricostruire la centralità. Ciò significa il dissolversi di una strategia di classe? No di certo, è solo cambiata. Alle antiche centralità, alla decomposizione dei centri, essa sostituisce il centro direzionale»16.
3.2) Global city ante litteram
Concentriamoci sul passaggio appena riportato. Perché a nostro avviso in esso è contenuta, ancora una volta, una lucida anticipazione di movenze che all’epoca Lefebvre poteva probabilmente solo intuire o proporre quali tendenze. Facciamo ancora parlare il testo scorrendo una lunga citazione, dall’incipit parzialmente criptico, il cui significato viene però definendosi:
«La città ideale, la Nuova Atene, si profila sotto i nostri occhi, New York e Parigi ne propongono già un’immagine, senza contare altre città. Il centro direzionale e il centro di consumo si ricongiungono. Fondata sulla convergenza strategica, la loro unione sul terreno crea una centralità esorbitante. […] Saldamente occupato e abitato dai nuovi padroni, il centro è controllato da loro. Senza averne necessariamente l’intera proprietà, dominano questo spazio privilegiato, cardine di una rigorosa programmazione spaziale. Ma soprattutto, hanno il privilegio di possedere il tempo. […] Non ci troviamo forse di fronte a una Nuova Atene, con una minoranza di liberi cittadini, possessori e fruitori dei luoghi sociali, che controlla una grande massa di asserviti, teoricamente liberi ma autenticamente e forse volontariamente servitori, trattati e manipolati secondo metodi razionali? […] La massa dispone solo di uno spazio misurato con cura; il tempo le sfugge»17.
Prima di commentare questo passo riportiamo un’ulteriore frase:
«La creazione che corrisponde alla nostra epoca, alle sue tendenze, al suo orizzonte (minaccioso), non sarà forse allora il centro direzionale? Questo tipo di centro, che riunisce la formazione e l’informazione, le capacità amministrative e di decisione istituzionale, appare come un progetto in via di realizzazione di un nuovo tipo di concentrazione: quella del potere»18.
Per chi minimamente conosce gli scritti di Saskia Sassen sulle città globali, non si potranno che rinvenire profonde assonanze. Cosa sono infatti le global city se non un network globale di centri direzionali, punti di una trama che si estende su scala planetaria che in essi concentra le funzioni del comando? E come non pensare, figurandosi mentalmente la lefebvriana Nuova Atene, a Manhattan? O alla City londinese? Due spazi (se ne potrebbero ovviamente citare molti altri19) che nella pratica e nell’immaginario assurgono a simbolo e metafora della concentrazione del potere. Selve di grattacieli dove risiedono le più importanti Borse, dove si stanziano gli uffici delle più importanti multinazionali, agenzie governative e istituzioni internazionali. Luoghi urbani per lo più inaccessibili alla stragrande maggioranza della popolazione, sopratutto in termini di costi. In un’economia globale che si riproduce per dinamiche di dispersione e accentramento, le global city sono i vettori di coordinamento delle funzioni centrali, per usare il linguaggio sasseniano. In esse vengono prodotti quei saperi, quei servizi, quei meccanismi di innovazione che necessitano di appositi ambienti che solo la concentrazione può elaborare. Certo, Lefebvre non poteva cogliere con più di un decennio di anticipo l’arrivo della finanza quale nuova logica organizzativa globale, ma sicuramente fissa e ci mostra un passaggio decisivo che ne determina le successive condizioni di possibilità.
Quali sono le condizioni che consentono a Lefebvre di fornirci le discusse proiezioni teoriche? Bisogna innanzitutto tenere a mente che quando esce “Il diritto alla città” sono ancora forti gli echi di uno degli episodi chiave del processo di decolonizzazione, la conquista dell’indipendenza dell’Algeria che coinvolgerà direttamente anche il territorio della metropoli parigina. Perché diciamo ciò? Per sottolineare come la realtà nella quale scrive Lefebvre sia, fuori dalle limitate lenti del nazionalismo metodologico, già da tempo una città intrecciata saldamente con territori sparsi per il globo. Questo in modi certamente differenti dalla Londra capitale imperale, che funziona da canonico riferimento per le città-mondo, ma lungo rotte che val comunque la pena ripercorrere sinteticamente e per brevi istantanee storiche. In primo luogo è utile richiamare quella letteratura, primo tra tutti il “I giacobini neri” di C.L.R. James, nella quale viene illustrato il profondo legame tra la rivoluzione francese e la pressoché simultanea rivoluzione anticoloniale di Haiti. Come scordare il ruolo che Parigi ebbe negli intrighi nordamericani (con la simbolica donazione della Statua della Libertà a New York, un opera prodotta dall’architetto Eiffel – creatore dalla torre omonima)? Ma non è solo sull’Atlantico che si proietta Parigi. Il precedente richiamo all’Algeria ha infatti una lunga storia, che attraversa il Mediterraneo. Nelle conclusioni di un recente libro20 viene mostrato come il 1848 abbia rappresentato uno shock per le élite dell’epoca perché la radicalizzazione del conflitto di classe impose il ricorso, per sedare la rivolta, ai protagonisti della guerra coloniale. Quello che sino ad allora era apparso come un “mondo arretrato” fornisce invece la formazione necessaria per garantire l’ordine nel “punto più alto della civilizzazione”: Parigi. Un corto-circuito che si ripeterà un secolo dopo. Ma qual è il punto di questa divagazione? La questione che si intende porre è relativa a quali differenze si debbano tracciare. Parlare di città contiene infatti sempre in sé il rischio di costruire narrazioni transtoriche nelle quali sembra che tutto sia sempre già esistito. Rimane invece determinante, per un’analisi critica, la capacità di segnalare le continuità ma anche le interruzioni, le rotture, le trasformazioni. Da questo punto di vista Lefebvre cosa osserva? La Parigi world city21, ossia una capitale imperiale con connessioni e relazioni che la attraversano e che attraversano il globo secondo chiare relazioni di dipendenza, o ci sta già descrivendo il suo divenire global city? Ci parla di un luogo nel quale si territorializzano dinamiche e processi che sono globali o di un contesto entro il quale è più semplice decifrare rapporti tra metropoli e colonia? Proviamo a riformulare brevemente la questione. Quelle centralità esorbitanti di cui ci sta parlando Lefebvre sono effettiva anticipazione del mondo globale o sono estrema manifestazione del vecchio mondo? Possiamo lasciare aperta la domanda, segnalando come ancora una volta troviamo l’autore come sospeso su quello che Sassen definirebbe come systemic edge22, in una luce che può essere al contempo alborea o quella di un tramonto23.
3.3) La città e l’urbano
Proviamo ora a estrapolare un altro tema dal libro, ossia quello di una definizione di cosa sia la città e in quale modo essa si distingua dell’idea di “urbano”. Diciamo immediatamente che Lefebrve ci propone un sequenza di spunti estremamente stimolanti, che possono funzionare come una miriade di traiettorie di ricerca. Tuttavia per entrambe le questioni poste rimangono una pletora di nodi poco chiari, enigmatici, talvolta sfuggenti. Le soluzioni a questi possono tuttavia essere indagate a partire da un’indicazione di metodo. Lefebvre ha infatti chiaro come, a partire dall’Ottocento, le scienze sociali abbiano scomposto la città in mille rivoli disciplinari. Relegato ossia il pensiero entro un’aporia che tende a gettare in un paradosso: da un lato infatti tutti quotidianamente sentiamo l’esistenza della città, ma al contempo fatichiamo sempre più a definirla se non per parti, per schegge scomposte. Per questo Lefebvre propone l’adozione di «un metodo che trascenda le frammentazioni»24, nella direzione di definire un oggetto che rimane comunque altamente enigmatico. Infatti
«… la città è morta. Tuttavia l’urbano persiste, allo stato di attualità dispersa e alienata, di embrione, di virtualità. Ciò che gli occhi e l’analisi percepiscono sul terreno, nel migliore dei casi può passare per l’ombra di un oggetto futuro proiettata sul sole nascente. […] per quanto riguarda la città, l’oggetto della scienza non è dato. Il passato, il presente e il possibile non si separano. Il pensiero studia un oggetto virtuale»25.
La città pare essere in altri termini finita, darsi al limite come residuo, come riflesso. Eppure essa, sostanza pancronica, come fa a morire se risulta inseparabile dal “possibile”? E ancora, seguendo queste parole, pare che l’“urbano” assuma una esistenza separata, dalla città, per quanto sostanziandosi con sembianza spettrali. Ma cos’è allora l’urbano? Così ne parla Lefebvre:
«L’urbano non può definirsi né come collegato a una morfologia materiale […] né come capace di staccarsene. […] E’ una forma mentale e sociale […]. E’ una qualità che nasce da quantità (spazi, oggetti, prodotti). E’ […] un insieme di differenze. […] E’ un campo di rapporti che comprende, in particolare, quello del tempo (o dei tempi, ritmi ciclici e durate lineari) con lo spazio (o con gli spazi: isotopie-eterotopie). In quanto luogo del desiderio e del legame dei tempi, l’urbano potrebbe presentarsi come il significante di cui cerchiamo i significati»26.
In queste parole l’urbano pare presentarsi come una condizione. Fissiamo questa idea e procediamo con la descrizione che nel libro si fa del concetto di “città”:
«Proponiamo dunque una prima definizione della città come proiezione della società sul territorio […]. A essere inscritto e proiettato non è solo un ordine remoto, una globalità sociale, un modo di produzione, un codice generale ma anche un tempo, o meglio dei tempi, dei ritmi. La città si ascolta come un brano musicale, così come si legge alla stregua di una scrittura discorsiva. […] un’altra definizione di città, che peraltro non esclude la precedente: la città come insieme delle differenze tra le città»27.
Una proiezione della società sul territorio. Immagine senza dubbio fortemente suggestiva, che si discosta significativamente dalla classica definizione di Louis Wirth che inquadra la città come un insediamento relativamente vasto, denso e duraturo di persone socialmente eterogenee. Per completare il quadro dobbiamo allora chiederci cos’è la società per Lefebvre.
«La città e l’urbano si profilano al nostro orizzonte come oggetti virtuali, come progetti di ricostruzione sintetica. L’analisi critica prende atto del fallimento di un pensiero analitico e non critico. […] parliamo di analisi spettrale, l’espressione deve essere intesa in senso quasi letterale e non metaforico. Davanti agli occhi, sotto il nostro sguardo, abbiamo lo “spettro” della città, della società urbana e, forse, della società tout court. Se lo spettro del comunismo non terrorizza più l’Europa, l’ombra della città, il rimpianto di ciò che è morto perché è stato ucciso, forse il rimorso, hanno sostituito la vecchia ossessione. L’immagine dell’inferno urbano che si prepara non è meno affascinante e la gente corre a vedere le rovine delle antiche città per consumarle turisticamente […]. Solo la prassi, in condizioni ancora tutte da determinare, può farsi carico della possibilità e dell’esigenza di una sintesi, di un orientamento verso questo obiettivo: l’aggregazione di ciò che è disperso, dissociato, separato, nella forma della simultaneità e degli incontri»28.
Seppur posto in forma ipotetica, la società, così come la città, è uno spettro. Qui, ancora una volta, Lefebvre pare essere spettatore di una adveniente zona liminale, oltre la quale si giunge alla “fine della società”29, o quantomeno alla sua trasfigurata sostanza attuale di deserto del legame sociale. Il filosofo francese ci pone dunque di fronte a scenari foschi, si profilano tinte cupe all’orizzonte. Assistiamo a due oggetti virtuali, parzialmente sovrapposti, colti in un processo di dispersione, evanescenza, crisi, dissoluzione. Essi impongono un’analisi spettrale, necessitata da un’incalzante processo di implosioni ed esplosioni, di espansioni smisurate e buchi, di progressive scomposizioni e frammentazioni. E’ di fronte a questo inferno urbano che Lefebvre vede costituirsi, che si pone la chiara indicazione sulla necessità di una prassi. Ovvero una via da perseguire intrecciando pensiero e azione. E’ su questo passaggio che entra allora in gioco la riflessione più propriamente politica elaborata in questo libro.
3.4) Il diritto alla città
Anche se rimaniamo in un campo fumoso, le cui condizioni sono ancora tutte a venire, Lefebvre ci indirizza verso due direzioni complementari: quella di una ricomposizione di ciò che è stato diviso, associata all’esigenza di una sintesi. Un’indicazione preziosa, da ripensare oggi. E tuttavia qui a nostro avviso sorgono i problemi del testo. Il “diritto alla città” pare essere il prisma attraverso il quale Lefebvre invita a incanalare e racchiudere questa esigenza politica. Continuiamo, come fatto sinora, ad ascoltare le parole di Lefebvre:
«Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nelle socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città»30.
Risulta piuttosto evidente come il diritto alla città in questa accezione sia qualcosa di estremamente vasto, vago, che pare quasi avere poco a che fare con la città stessa e parlare più in generale. Queste righe sono poste quasi a conclusione del libro, risultano come l’assolo finale di una sinfonia che vuole innalzarci con lei e condurci lontano. Ritorneremo tra poco sul punto. Retrocediamo per ora di qualche pagina per trovare un’altra definizione, che rimane più “legata” all’oggetto: «Il diritto alla città non può essere pensato come un semplice diritto a visitare o ritornare alle città tradizionali. Può essere formulato solo come diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata»31. In queste righe il “diritto” di cui stiamo discutendo assume una dimensione prospettica. Non è un diritto sull’esistente, una rivendicazione di un qualcosa di dato ma negato, quanto una dimensione processuale. Il diritto a qualcosa che ancora non c’è, implicando dunque una trasformazione. Un ben strano diritto quello di Lefebvre, che trasuda e non nasconde il forte intento politico soggiacente a ciò che viene scritto. Se in precedenza avevamo affermato che per lui l’urbano è innanzitutto una condizione, da questi passaggi del libro l’ipotesi pare trovare conferma. Se tuttavia prima l’urbano veniva posto come «attualità dispersa e alienata», qui diviene orizzonte di liberazione. Implica dunque, ci ripetiamo, una processualità, un gesto di rottura, un movimento. Ma chi può produrre ciò? Quali sono i soggetti del “diritto alla città”? Lefebvre non sfugge a tale domanda, divenuta ormai necessaria per l’argomentazione. La risposta è piuttosto secca e semplice:
«Solo la classe operaia può divenire agente, portatore o sostegno sociale di questa realizzazione. Qui ancora, come un secolo fa, essa nega e contesta, con la sua sola esistenza, la strategia di classe diretta contro di essa. […] essa riunisce gli interessi (superando l’immediato e il superficiale) dell’intera società e, in primo luogo, di tutti coloro che abitano. Le élite e la nuova aristocrazia borghese […] non abitano più. […] sono ovunque e in nessun luogo. Di qui il fascino che esse esercitano sulle persone immerse nella loro vita quotidiana; esse trascendono la quotidianità; possiedono la natura e lasciano ai loro scagnozzi la costruzione della cultura»32.
Qui si distingue e viene esposto in maniera chiara un antagonismo di classe, dai contorni “classici”, che pare nella prima parte di queste frasi anche venato di un richiamo a elementi vagamente teleologici affini ai marxismi ortodossi. Ciò che sorprende è piuttosto come viene definita la seconda polarità, quell’élite che è già vista come pienamente globale. Anche qui ritroviamo un ulteriore elemento di anticipazione, del quale il libro è costellato. Queste persone che «sono ovunque e in nessun luogo» sembrano i precursori, gli antesignani di quella classe globale descritta da illustri sociologi contemporanei a là Zygmunt Bauman. Emerge in nuce una contraddizione che oggi più che mai si manifesta: quella tra la libertà di movimento e la sua limitazione, definita a differenti gradienti seguendo le geografie variabili dell’appartenenza territoriale e di classe. Lefebvre pare però, sull’altro polo di questo antagonismo, accontentarsi di un’individuazione secca del soggetto che dovrebbe agire il diritto alla città. Dunque, se è vero che come sfondo del libro si pone «anche, e forse soprattutto, un problema di soggettività»33, a nostro avviso le risposte a questo tema sono assolutamente eluse. Ha allora ragione chi sostiene che «il ‘diritto alla città’ corrisponda ad una fase molto più arretrata di densità cooperativa nella metropoli»34, che esso sia un «concetto legato alle ristrutturazioni urbane del periodo fordista»35? Antonio Negri è estremamente tranchant in queste affermazioni, che vanno prese con cautela36, ma che risultano comunque utili per stimolare un dibattito critico. E’ dunque il “diritto alla città” una categoria pensata per una composizione di classe e per una configurazione urbanistica superate, e dunque un’idea da relegare agli archivi della storia? Sì e no. Se rimaniamo infatti entro un’interpretazione letterale del libro di Lefebrve non si può che dare ragione a Negri. Tuttavia l’istanza politica posta rimane per noi attuale. E’ in questa direzione che pare muoversi Sandro Mezzadra quando, commentando un libro di Harvey, propone di guardare al “diritto alla città” come a un significante vuoto da riempire di contenuti, e propone un controcampo ribaltando l’ordine del titolo del testo harveyiano in «il diritto alla città contro il capitalismo»37. Eppure qualcosa continua a nostro parere a non tornare, a girare a vuoto. Se infatti in quest’ultima proposizione vive l’afflato prospettivo, costituente potremmo dire, che anche Lefebvre aveva ben presente, rimane comunque aperta la domanda: chi deve praticare il “diritto alla città”? Torniamo in altre parole a quella sensazione di incompiutezza che lasciano gli ultimi capitoli del libro. E’ in questo senso che proponiamo di guardare ad esso come se avesse un capitolo ancora mancante, e tutt’ora da scrivere38. Vanno salvate le potenti anticipazioni che ci regala e disposti i problemi che esso pone in una nuova configurazione.
La direzione alla quale proponiamo di guardare è la seguente: parlare di un diritto alla città è fare riferimento ad un assemblaggio istituzionale, quello della città del welfare, che prevede una dialettica possibile tra movimenti e istituzioni. Se ai tempi di Lefebvre questa dinamica era in atto, nell’epoca attuale questa tensione pare potersi dare solo come strappo. Come una contrattazione sociale che lega in maniera inscindibile un elemento di appropriazione con una difesa autonoma delle conquiste ottenute. In questi termini potremmo dire che oggi, prima e più che di un diritto alla città, si pone l’urgenza di un progetto di città da prefigurare e contrapporre alla città esistente. O, in altre parole, va fatta nuovamente vibrare la questione della città come istanza di potere. Un’istanza che ha senso laddove la si incarni nell’immediatezza delle lotte che nella città si muovono, guardandole come parte di una materia metropolitana che non può riproporre una aristotelica scissione tra forma e sostanza, tra urbs e civitas. Su quest’ultimo punto Lefebvre torna nuovamente utile quando afferma:
«Se paragono la città a qualcosa di scritto (a un sistema semiologico), non posso dimenticare il suo carattere di mediazione. Di conseguenza, non posso separarla né da ciò che contiene né da ciò che la contiene […] La totalità non è immediatamente presente nel testo scritto rappresentato dalla città. Vi sono altri livelli di realtà che non traspaiono […]. La città scrive e prescrive: ciò significa che ordina e stipula»39.
Immaginiamo in altre parole una identità, o quantomeno una forte aderenza, tra i soggetti e il fare città come una questione di pratiche e di rapporti di forza. Riprenderemo in chiusura questa riflessione. Terminiamo questo paragrafo con un ultimo attestato di merito alla teoria di Lefebvre. Essa ha infatti il pregio di porre il problema della città su una scala immediatamente globale:
«Paradosso della situazione critica e dato centrale del problema: la crisi della città è mondiale. […] ovunque la città scoppia, morfologicamente. […] In una serie di paesi sottosviluppati, il fenomeno caratteristico è la “bidonville”, mentre nei paesi altamente industrializzati è la proliferazione della città in “tessuti urbani”, in sobborghi, in quartieri residenziali i cui rapporti con la vita urbana diventano problematici»40.
4) La città di Lefebvre e la nostra
Per introdurre questa parte finale del presente scritto iniziamo a definire alcuni dei punti di maggiore rilievo per il nostro ragionamento, in relazione alle rotture intercorse tra lo scenario considerato da Lefebvre e la contemporaneità. Cosa permane e cos’è cambiato?
. Innanzitutto se, come da poco affermato, oggi lo sguardo non può che essere su una scala planetaria, il processo che Lefebvre intravvede deve essere aggiornato. La distinzione che egli pone tra Primo e Terzo Mondo è chiaramente problematica. Da un punto di vista strettamente urbano, la proliferazione di bidonville, slum, e favelas non è più relegabile a specifici contesti. Fatte salve le dovute differenze, la rivolta delle banlieu del 2005, a cui hanno fatto seguito le giornate insurrezionali di Londra del 2011 partite dai quartieri poveri della metropoli, pongono con forza un ripensamento delle geografie stabili ereditate dall’era coloniale. E d’altra parte, ci limitiamo qui a segnalarlo per questioni di spazio, queste stesse configurazioni urbane non possono essere analizzate da un punto di vista critico solo come aree dell’esclusione totale. Se infatti le inquadrassimo solo come il prodotto dei silenziosi rapporti di coazione economica, perderemmo di vista il fatto che esse rappresentano anche l’enorme spinta delle povertà all’appropriazione della città41;
. L’assetto istituzionale. Se la città, come abbiamo visto nella penultima citazione, è mediazione tra differenti livelli, oggi essa media tra rapporti molto diversi. E’ cambiata radicalmente la forma-Stato e si è definita una governance su più livelli, rispetto al quadro che osservava Lefebvre. Ma soprattutto, per ciò che più strettamente ci interessa, è profondamente mutato il territorio. Laddove il processo di completa urbanizzazione del territorio preconizzato dal nostro autore è proseguito a ritmi incessanti, ciò ha prodotto anche un cambiamento di stato di questo concetto. Oggi viene progressivamente erosa la relazione tra ciò che si vede, come esso funziona e come/dove si decide. Questo da un punto di vista sia empirico che legato all’ormai compiuta intersezione e perdita di significato della bipolarità tra reale e virtuale, cui va annessa la logica finanziaria quale massima espressione capitalistica di tale superamento. Assistiamo a potenti spinte di una dinamica che si nutre della compresenza di momenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione, funzionali a una costante ridefinizione delle logiche del comando e dell’accumulazione;
. Da un punto di vista economico, il capitalismo di Lefebvre è quello che ragiona ancora in termini di spazio e di estensività. Oggi invece, con la fine della Guerra Fredda ed entro il paradigma della Rete, assistiamo a processi di valorizzazione che hanno (ri)scoperto l’intensività, e dunque anche l’importanza dei luoghi42. Da questo punto di vista nella città di Lefebvre si gioca un progetto di uniformazione, che oggi permane ma legato inestricabilmente a una messa a valore delle differenze che ogni città può produrre, che diventano risorsa strategica invece che ostacolo.
Siamo allora giunti al passaggio che più ci interessa, ossia la questione politica. Partiamo un’ultima volta dal testo lefebvriano, leggendo un lungo passo, estremamente denso, che ci aiuterà per le riflessioni conclusive:
«[La città], questa mirabile forma sociale e opera per eccellenza della pratica e della civiltà, si distrugge e si ricostruisce sotto i nostri occhi. […] Caduta al rango di “mezzo” […]. Oggi la razionalità passa (o sembra passare o pretende di passare) lontano dalla città, al di sopra di essa, a livello del territorio nazionale o del continente. Essa rifiuta la città come momento, come elemento e come condizione, riconoscendola solo come strumento e dispositivo. […] una sensazione di monotonia ricopre e nasconde le diversità […]. Del resto, lo Stato, i centri decisionali e i poteri ideologici, economici e politici non possono che considerare con crescente diffidenza una forma sociale che tende all’autonomia, che può vivere solo specificamente, che si frappone tra loro e l’“abitante” […]. … qual è l’essenza della città per il potere? Ai suoi occhi, essa appare piena di attività sospette, ribolle di delinquenza; è un focolaio di agitazioni. Il potere dello Stato e i grandi interessi economici possono immaginare una sola strategia: svalutare, degradare, distruggere la società urbana»43.
Riprendiamolo punto per punto. La città si distrugge e ricostruisce sotto i nostri occhi. Qui troviamo l’elemento dinamico decisivo. Potremmo riformulare la frase immaginando la città come un processo di ordine e conflitto. Come il costituivo terreno di una contesa articolata in rotture e rigenerazioni. In questi termini, ricollegandoci a quanto detto all’inizio, Lefebvre vede sul finire degli anni Sessanta il precipitare di una serie processi che definitivamente stravolgono una Parigi. La sua grandezza sta nel riuscire a guardarvi dentro e oltre. Il punto è che esistono generazioni di città, strategie di città, tipologie di città. Oggi possiamo dire che dopo la città del welfare state abbiamo vissuto anche la città dell’instaurantesi ordine neoliberale nella sua ascesa, e nella sua attuale crisi. E’ qui che probabilmente si motiva questo odierno variegato ritorno a Lefebvre. Siamo forse, allora, in un nuovo momento nel quale è necessario riattivare l’autore, guardare con lui dentro i processi di distruzione e ricostruzione della città.
Oggi molti elementi di cui abbiamo discusso in questo scritto sono diffusi, pervasivi. Abbiamo parlato di una città mobile; di continue implosioni ed esplosioni urbane; della diffusione di spazi di global city e di nuove periferie, che potremmo descrivere come un progressivo globalizzarsi della città; dell’urbano come condizione (alienata) e della città come spettro, che può incarnarsi e disattivarsi; della città come territorio; abbiamo discusso forze e limiti di un ricorso alla categoria di “diritto alla città” e di una ripresa della trama-Lefebvre, chiaramente con l’ottica che ogni traduzione implica, dunque quella di un tradimento del suo originario testo. Abbiamo pensato la città come opera virtuale pancronica, ossia che si dispone su un orizzonte temporale che mette in gioco una storia, un’interpretazione del passato; l’intreccio di rapporti di forza del presente; una proiezione sull’avvenire. In questa dimensione la città si stacca dalla sua matrice spaziale e diviene una struttura del tempo. Una questione di determinazione del tempo. Ossia un luogo del politico.
Chiudiamo allora parlando della necessità di pensare la città come progetto. Come campo nel quale si scontrano progetti anche alternativi alla città-merce costruita dall’ordine neoliberale in corso di sfarinamento: spazio accogliente per la valorizzazione e lo scambio di merci, merce in sé stessa. Nessuna nostalgia dunque per le città del passato ormai morte, quanto una riattivazione di un sapere critico della città. In fondo ripensare con Lefebvre è anche accedere a un archivio di esperienze che ci conduce ineludibilmente alla Comune di Parigi. Ossia, oggi, alle possibilità radicali di praticare secessioni di territori dallo spazio-tempo organizzato dalla finanza globale. Potremmo infine concludere che pensare oggi, e da capo, la città, la sua magnetica attrazione, è in fondo riprendere l’antico adagio «Stadtluft macht frei», l’aria della città rende liberi44, e dunque camminare domandandosi cosa sia, cosa possa essere, la libertà, in questo nuovo millennio.
Note:
1Lefebvre H. (1968), Le droit à la ville, trad. it. 2014, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, p. 82.
2Ibidem, p. 55.
3Nel quale Lefebvre costruisce una visione dello spazio come intrinsecamente politico. Lo spazio viene infatti continuamente e costitutivamente composto e attraversato da differenti strategie elaborate e praticate dai gruppi sociali che lo abitano. Ciascuno di questi gruppi promuove una tensione verso l’inscrizione dei propri valori cardinali per la vita comunitaria nello spazio. In tal misura esso diviene risorsa strategia in termini politici – un’elaborazione che, sia detto in forma di appunto per successive ricerche, sarebbe interessante far stridere con l’idea di territorio in Carl Schmit. Una definizione sintetica estraibile dal libro di Lefebvre:
«lo spazio (sociale) è un prodotto (sociale) … [che contiene] oggetti molto diversi tra loro, naturali e sociali, reti e linee, canali di scambi materiali e d’informazione. […] Questi oggetti non sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni» [Lefebre H. (1974), La produzione dello spazio, Moizzi, Milano, 1978, p. 52].
4Una distinzione che Lefebvre mette in relazione al tema «usato e abusato con superfetazioni ed estrapolazioni, distorcendolo, [che] è quello del rapporto fra “natura e cultura”» [Lefebvre H. (2014), p. 72]. Il filosofo è estremamente cauto rispetto al pensare un oltrepassare tale dicotomia, affermando che «il superamento può realizzarsi solo a partire dall’opposizione tessuto urbano-centralità. Il che richiede l’invenzione di nuove forme urbane» [Ibidem, p. 74].
5Benjamin W. (1982), Das Passagen-Werk, trad. it. a cura di Giorgio Agamben, Parigi Capitale del XIX Secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino, 1986, pp. 16-17.
6Ibidem, p. 17.
7Lefebvre imposta così il discorso:
«Dopo il 1848, la borghesia francese, saldamente insediata nella città (Parigi) […] si vede accerchiata dalla classe operaia, [pericolo] confermato dalla Comune. Si elabora allora una strategia di classe che mira alla riorganizzazione della città […]. Poiché la democrazia urbana minacciava i privilegi della nuova classe dominante, questa ne impedì la nascita. In che modo? Allontanando il proletariato dal centro urbano e dalla città stessa, distruggendo l’“urbanità”» [Lefebvre H. (2014), p. 28].
8Ibidem, p. 15.
9Significativo al riguardo in particolare il seguente passaggio: «Le opere di Marx […] non pongono il problema dell’urbano. Al tempo di Marx si era posto solo il problema degli alloggi, studiato da Engels. Ma il problema della città trascende di gran lunga quello dell’alloggio» [Ivi, p. 83]. Sul tema della città e delle lotte per la casa sarebbe interessare aprire una riflessione, per la quale non c’è qui tuttavia spazio a sufficienza. Ci limitiamo tuttavia ad annotare come, stando entro il lessico lefebvriano, i movimenti di occupazioni abitative si trovino ad agire su uno dei momenti determinanti per le lotte urbane, quello dell’appropriazione dello spazio. Rimane tuttavia da pensare e da praticare un secondo livello di quelli segnalati da Lefebvre, ossia il momento della produzione dello spazio. Un passaggio che diviene posta in palio politica.
10Lefebvre H. (2014), p. 26.
11Ibidem, p. 22.
12Ivi.
13Un altro allievo di rilievo di Lefebvre è il noto teorico della società informazionale Manuel Castells. Questi infatti nel 1972 scrisse “La question urbaine”, al quale seguì di un anno “Social Justice and the City” di Harvey. Entrambi questi testi si pongono nella scia lefebvriana. Tuttavia mentre il sociologo spagnolo si distanzierà progressivamente dalle tematiche urbane, per Harvey queste fanno da sfondo o da soggetto principale lungo tutta la sua produzione.
14Lefebvre H. (2014), p. 23. Da evidenziare come questa vivida immagine di un progredire dell’urbano per implosioni ed esplosioni sia stata ripresa quale titolo dell’ultimo libro curato da Neil Brenner (2014), Implosions/Explosions- Towads a Study of Planetary Urbanization:
http://urbantheorylab.net/site/assets/files/1087/utl_implosions-explosions_chapter_1.pdf. Come si noterà scorrendo l’indice, il richiamo a Lefebvre è continuo. Questo libro contiene inoltre alcune note per una riconcettualizzazione del right to the city curate da Andy Merrifield, altro autore interessante dell’attuale panorama accademico che sempre nel 2014 ha dato alle stampe il bel libro “The New Urban Question” (Londra, Pluto Press) che, come sarà chiaro dalla precedente nota, si richiama esplicitamente al giovane Castells.
15Lefebvre H. (2014), p. 24. L’autore ritorna alcune pagine successive su questa problematica esprimendosi così:
«La distruzione pratica e teorica (ideologica) della città, d’altra parte, non può che lasciare un vuoto enorme. Lasciando da parte i problemi amministrativi e altri sempre più difficili da risolvere, per l’analisi critica il vuoto è meno importante della situazione di conflitto caratterizzata dalla fine della città e dall’estensione della società urbana, deturpata, deteriorata, ma comunque reale. I sobborghi sono urbani in una morfologia dissociata, regno della segregazione e della separazione tra gli elementi di ciò che era stato creato come unità e simultaneità» [Ibidem, p. 33].
16Ibidem, p. 34.
17Ibidem, pp. 116-117. Questa citazione ci è utile anche per sottolineare come per Lefebvre il diritto alla città non abbia nulla a che spartire con una riproposizione del mito della polis, della quale qui vengono evidenziate con chiarezza le caratteristiche di costitutivo spazio differenziato e stratificato.
18Ibidem, pp. 25-26.
20Letterio D. (2011), Tocqueville ad Algeri. Il filosofo e l’ordine coloniale, Il Mulino, Bologna.
21Esiste un ampio dibattito tutt’oggi sulla distinzione tra queste due elaborazioni. Basti qui accennare al fatto che la città-mondo è un classico topos che possiamo per tratti generali inscrivere all’approccio elaborato da Fernand Braudel, e successivamente ripreso in quella che è stata definita come world system theory, della quale uno dei riferimenti più importanti è l’italiano Giovanni Arrighi.
22Sassen S. (2014), Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy, Harvard University Press, Cambridge.
23Limitiamoci a segnalare come qui in gioco sia anche il tema della valenza o meno della dicotomia centro-periferia quale visuale per interpretare il mondo contemporaneo.
24Riportiamo di seguito un ampio estratto per chi volesse farsi un’idea più ampia di come imposti il discorso Lefebvre:
«Il problema coincide con l’interrogativo generale che pongono le scienze specialistiche. Da un lato il globale, che cerca di raggiungere un metodo che ricorda stranamente quello della filosofia […]; dall’altro il parziale, dati più sicuri ma sparsi. Possiamo ricavare una scienza della città dalle scienze specialistiche? Non più di quanto sia possibile ricavare una scienza unitaria della società o “dell’uomo” […]. Da un lato abbiamo un concetto senza contenuti, dall’altro dei contenuti senza concetti. O dichiariamo che “la città” e la realtà urbana come tale non esistono, e che esistono solo sequenze di correlazioni, sopprimendo così il “soggetto”; o continuiamo ad affermare l’esistenza del globale; ci si avvicina, lo si circoscrive, partendo sia da estrapolazioni in nome di una disciplina, sia puntando su una tattica “interdisciplinare”. Ma non lo si afferra. Lo si può raggiungere solo con un metodo che trascenda le frammentazioni» [Lefebvre H. (2014), p. 48].
Mentre per una trattazione più sistematica dell’ambito metodologico è bene rifarsi al capitolo “Continuità e discontinuità”, dove in maniera estremamente efficace vengono discusse forme, strutture – livelli, dimensioni -, funzioni urbane, echi del passato.
25Ibidem, p. 102.
26Ibidem, p. 84. Da notare come qui si accenni a un tema che successivamente verrà ripreso da Michel Foucault, quello delle eterotopie.
27Ibidem, p.63.
28Ibidem, pp. 96-97.
29Il riferimento è a Ricciardi M. (2012), La fine della società: www.connessioniprecarie.org. Riprendendone tangenzialmente un passaggio:
«La società è la forma storica in cui si è organizzato e dispiegato il rapporto di capitale. Una società nel senso moderno non è sempre esistita. Proprio per questo possiamo seguirne le evoluzioni storiche fino alla sua paradossale forma contemporanea […]. Se c’è una differenza certa tra il liberalismo classico e il neoliberalismo è che quest’ultimo non ha il problema della società».
30Lefebvre H. (2014), p. 130.
31Ibidem, p. 113.
32Ivi.
36Sopratutto perché a questa argomentazione fa da contrappeso un’insistenza su una traiettoria interpretativa che assume lo scarto fabbrica/metropoli e classe/moltitudine in maniera piuttosto ideologica.
37Mezzadra S. (2012), I predatori metropolitani, Il Manifesto, 10 luglio.
38Va segnalato che negli ultimi anni è fiorito, soprattutto nel mondo anglosassone, un intenso dibattito sul diritto alla città. Si può fare riferimento al riguardo in particolare agli scritti di Harvey, Neil Brenner, Andy Marrifield, Margit Mayer, Mark Purcell, Tom Slater.
39Lefebvre H. (2014), pp. 55-56.
40Ibidem, p. 78.
, International Journal of Urban and Regional Research, Vol. 35.3, pp. 223-238: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1468-2427.2011.01051.x/pdf .
42Per usare un lessico marxiano potremmo impostare la questione come segue: entrando compiutamente in una fase di sussunzione reale, che colonizza progressivamente non solo tutti gli spazi planetari ma anche, e sempre più in profondità, tutti gli aspetti della vita, alla velocità espansiva – che implica standardizzazione – si annette una necessità intensiva di valorizzazione delle differenze. A partire da questa riflessione si potrebbe legare il dibattito sull’attualità dei processi di accumulazione originaria (Cfr. ad esempio la produzione del Midnight Notes Collective). D’altronde anche Lefebvre, sempre posizionandolo su una soglia, un punto di rottura, ha ben presente di essere entro un «processo non ancora concluso»:
«In due secoli, l’industria ha compiuto il grande lancio della merce (che già le preesisteva, ma limitata dalle strutture agrarie e urbane), consentendo un’estensione potenzialmente illimitata del valore di scambio. Essa ha mostrato come la merce non sia solo un modo di mettere le persone in rapporto tra loro, ma anche una logica, un linguaggio, un mondo. La merce ha rimosso le barriere (un processo non ancora concluso; l’automobile, attualmente oggetto-pilota nel mondo delle merci, tende a cancellare l’ultima barriera: la città)» [Lefebvre H. (2014), p. 123].
43Lefebvre H. (2014), pp. 79-82.
44Un detto che, ripreso anche da Max Weber nel suo “Die Stadt” (“La città”), nasce in Germania, ma è in grado di descrivere un condizione sociale più generale. Esso è infatti connesso all’istituto giuridico della cosiddetta “servitù della gleba”. Particolarmente diffusa nel Medioevo, questa condizione verrà abolita legalmente solo nell’Ottocento. “L’aria della città rende liberi” è legato al fatto che l’atto illegale di lasciare la campagna, una delle pratica più frequenti per sottrarsi agli obblighi imposti dalla condizione di servi di nascita, poteva trovare rifugio nella città. In particolare ciò si determinò con frequenza nei “liberi comuni” medioevali, che tendenzialmente proteggevano questi nuovi cittadini dalle ritorsioni dei signori feudali. Per quanto riguarda l’Italia fu Bologna, forse addirittura la prima al mondo, a liberare legalmente i servi dal loro vincolo. Ciò avvenne tra il 1256 e il 1257, pochi anni dopo la definitiva sconfitta delle signorie del contado bolognese. E’ a causa di ciò che Bologna riporta nel suo stemma la parola libertas.
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