Una monnezza chiamata fiction: “gli anni spezzati”
La memoria, la storia e le sue rappresentazioni sono un campo di battaglia. Ripubblichiamo qui il bel contributo di Christian Raimo (da MinimaetMoralia) sulla porcheria mandata in onda ieri sera dalla Rai (e che infesterà il palinsesto televisivo per altre tre settimane).
Ieri sera su Rai Uno è andato in onda uno scempio, di cui la Rai dovrebbe chiedere scusa, e i politici o chiunque approvi sul servizio pubblico operazioni di questo tipo dovrebbe chiedere il conto. Insegno storia da cinque anni nei licei, e tutto il lavoro che io, come centinaia di migliaia di insegnanti di liceo e università, faccio per cercare di raccontare, far conoscere, semplificare, provare a condividere e indagare insieme, gli anni Settanta viene smerdato da una roba coma la trilogia-fiction intitolata “Anni spezzati”. Uno dei prodotti peggiori realizzati in Italia negli ultimi anni: un film non solo pessimo da un punto visto artistico e anche tecnico, ma risibile da quello documentario e storico. Un prodotto nocivo, venefico, viscidamente diseducativo.
Chi l’ha scritto, Graziano Diana (anche regista) con due autori alle prime armi – Stefano Marcocci e Domenico Tomassetti – ha evidentemente ritenuto opportuno prescindere da qualunque serietà di documentazione storica, appoggiandosi a riduzioni da sussidiario copiato male – non dico Wikipedia (che in molti casi è fatta molto meglio). Nei titoli non dichiara nemmeno un nome di un consulente storico e nelle interviste Diana dice che ha ascoltato le voci dei parenti delle vittime della violenza politica anni ’70: non so chi abbia ascoltato né come l’abbia fatto, ma quello che ne ha tratto sono degli sloganucci stereotipati che farebbero passare un bignami per un saggio storico complesso. Nelle interviste Diana dice di aver voluto raccontare quella storia dalla parte di chi, le istituzioni incarnate nelle forze dell’ordine, cercava il dialogo tra rossi e neri: non so che libri abbia letto sulle forze dell’ordine e le istituzioni italiane di quegli anni, non so su quali testi si sia formato la sua idea sugli apparati dello Stato, i politici, i partiti, i vari movimenti, ma se l’avesse scritta Cossiga nel sonno o Claudio Cecchetto, per dire, questa fiction, ci avrebbe messo più complessità.
L’idea di Alessandro Jacchia di raccontare attraverso lo sguardo di un poliziotto romano (la sua voce off!) le vicende complicate che girano intorno a Piazza Fontana, l’autunno del ’69, e la vicenda di Calabresi e Pinelli non è nemmeno revisionista: non è un’idea. È la suggestione di poter prendere la poesia di Pasolini su Valle Giulia, ricavarne un’interpretazione puerile, e pensare di applicarla, a mo’ di pomata, agli eventi di quegli anni: come se fosse una scelta narrativa, fino a realizzare una specie di spottone con toni da soap-opera, colletti larghi, sguardi fissi in camera.
La voce off nasale come una ciancicata tipo un personaggio di Verdone che ti commenta in modo situazionista le immagini di repertorio di una puntata de La storia siamo noi; i riassunti della macrostoria in cui non una sola parola si sottrae dai luoghi comuni (di pensiero e di linguaggio), dai peggiori luoghi comuni; i personaggi ridotti a figurine da vignette della Settimana Enigmistica; le discussioni politiche che sembrano parodie di uno sketch di Guzzanti o dei Gatti di Vicolo dei Miracoli; gli spiegoni (approssimativi, scritti malissimo, errati) ogni 30 secondi; le ragioni delle proteste azzerate a una forma di iperattività giovanile – gli anarchici sembrano gente affetta da sindrome da deficit di attenzione da curare col Ritalin; attori anche bravi come Solfrizzi, Bruschetta, Trabacchi, Calabresi costretti a pronunciare battute che sembrano dei verbali di polizia (Paolo Calabresi e Ninni Bruschetta in certi momenti – poveri! – sembrano dover espiare la loro protervia iconoclasta di Boris), ma anche attori molto meno bravi come il protagonista Emanuele Bosi – con una faccia da pubblicità di un dopobarba che deve dare corpo a un poliziotto di Primavalle nel 1969!; personaggi-cameo come Feltrinelli (vi prego guardate la scena con Feltrinelli e Calabresi…) che hanno la stessa intensità di Gigi Proietti-vigile quando fa lo spot di Vat 69 in Febbre da cavallo; confusione, una continua confusione, una virtuosistica confusione nella struttura narrativa; un montaggio da Chiquito e Paquito; un’eterna luce laterale per cui tutti gli attori vivono con metà faccia tagliata da un’ombra plumbea (volutamente omomorfica e omocromatica a quegli anni, spezzati e di piombo?); una ostentata misconoscenza di qualunque modello filmico che si è confrontato con la Storia della contestazione, del terrorismo, etc… – che siano quelli studiati da Cristian Uva o da Demetrio Paolin o da Vanessa Roghi & Luca Peretti, che siano film seminali come Anni di piombo di Margaret Von Trotta o prodotti derivativi come Romanzo di una strage (che avevo stroncato senza appello, ma che nel confronto riluce dello splendore di un Griffith); e la musica onnipresente più di quella che uno si ciuccia da Zara durante i saldi – una musica sempre enfatica, che vorrebbe inquietare, intervallata da pezzi dell’epoca scelti con il criterio di un jukebok andato in corto; e le basette collose, i capelli di Calabresi disegnati che manco Big Jim, il trucco, le parrucche, le scenografie… (Ditemi! Vi prego ditemi perché nei film italiani degli anni ’70 sembra che il mondo sia una specie di fondale in cui sono stati appiccicati un po’ di poster di Lotta Continua al muro e buttati qua e là nelle stanze dei libretti rossi! Perché in film iperglamour ipercitazionisti degli anni ’70 americani – andate a vedere quel capolavoro di American Hustle – nonostante l’omaggio enfatico all’epoca la scenografia risulta sempre credibile? Forse perché gli scenografi statunitensi non pensano che se uno mette in scena gli anni Settanta deve mostrare che Tutto è anni Settanta, ma ci saranno anche mobili anni Sessanta, anni Cinquanta, anni Venti?!); e – più di tutto – è clamorosa la mancanza di visione politica nel fare un film del genere: paragonatelo con qualunque sceneggiato Rai degli anni ’70, lì ci troverete un’intelligenza, un coraggio, un desiderio civile, una volontà di indagare, di spiegare, una capacità di essere problematici, di avere una prospettiva sociologica – a tutto questo viene ipocritamente e colpevolmente sostituita una sorta di réclame analfabetizzata per la polizia che è tanto brutta da essere mortificante per chiunque abbia fatto politica attiva in quegli anni, ma persino umiliante per la polizia stessa e per chi viene raccontato in modo elogiativo (mi piacerebbe sapere il parere di Mario Calabresi che, pur raccontando come una specie di diario personale, da figlio, la vicenda del padre commissario, in Spingendo la notte più in là , riusciva a essere meno agiografico)…
Potrei anche continuare, ve lo assicuro. E questo scempio storico, artistico, cinematografico, narrativo, ce n’est qu’un debut, come mi verrebbe da dire: ci sono altre quattro puntate, due sul sequestro Sossi, due su Giorgio Venuti e la marcia dei quarantamila. Si può peggiorare, si può raccontare che le Brigate Rosse sparassero per provare le pistole, che Moro e Nathan Never sono la stessa persona e che il sogno dei dirigenti DC era quello di diventare anchor-man della tv per governare l’Italia con i messaggi subliminali del Pranzo è servito, e che la marcia dei quarantamila era la prima vera manifestazione di fitness di massa che ha attraversato l’Italia. Sono pronto a tutto. A scuola, ai miei ragazzi, farò studiare la rivoluzione francese a partire da mie interviste-lampo fatte nel reparto surgelati del Todis su Robespierre e Danton e gli dirò che la Resistenza era un’associazione che faceva trekking sulle montagne per tenersi in forma dopo la guerra.
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