Vicende giudiziarie, indici azionari e sacra famiglia. La permanente centralità di Mediaset e Berlusconi
Mentre la stampa italiana si crogiolava sul “buffone” dato dal Financial Times a Silvio Berlusconi si è trascurato un dato riportato dallo stesso quotidiano britannico. Dato che parla, anzi canta, con chiarezza. Dal primo gennaio 2013 il titolo Mediaset si è apprezzato del 115 per cento.
Non dimentichiamo che, sotto la spessa coltre di notizie che seppelliscono le precedenti, in autunno era già passato agli atti un Silvio Berlusconi che annunciava il suo ritiro dalla politica. Ma dopo un rapido esame, alle prospettive finanziarie del gruppo e a quelle dei processi, c’è stata una repentina marcia indietro del commodoro di Arcore. Si è trattato di un ritorno sulle scene che ha fruttato, come abbiamo visto, un apprezzamento significativo del titolo di un gruppo che in autunno mostrava difficoltà di cassa e in prospettiva. Non solo: negli ultimi mesi, a partire dal risultato elettorale, anche il Corriere ha stimato una ripresa del fatturato pubblicitario Mediaset nonostante la crisi.
La vicenda del fatturato pubblicitario delle reti Mediaset, pay ed in chiaro, rispetto al peso del centrodestra nella politica italiana è un altro fattore chiave per capire la sinergia pluridecennale tra tv generalista e politica istituzionale. Diciamo che, al di là delle stesse esigenze di mercato, è oramai evidente da lustri che l’accreditamento politico di grandi aziende passa anche attraverso l’investimento pubblicitario presso le reti Mediaset.
Va poi detta un’altra cosa fino in fondo: ai mercati piace il titolo di una multinazionale come Mediaset che, come gruppo che con la propria rappresentanza parlamentare fa valere il proprio peso nelle istituzioni, può essere usato in due modi. Come titolo di rischio, per eventuali guadagni facili, nei momenti di spettacolo (es. sentenze, basta vedere come sia gonfiato il titolo Mediaset a ridosso della sentenza della Cassazione) e come titolo solido quando Arcore fa valere la propria presenza di lungo periodo nelle istituzioni.
Nel corso del 2013 il titolo Mediaset ha sommato entrambe le caratteristiche. Frutto anche dell’offerta di un portafoglio di titoli adatto ad ogni esigenza. Giova ricordare che, alla vigilia delle dimissioni di Berlusconi nel 2011, il titolo Mediaset crollò di oltre 10 punti in una seduta. Oggi chi investe sul titolo Mediaset sa di puntare su un mercato in crisi, quello televisivo e quello pubblicitario, ma anche su un’azienda che, unica forse nel pianeta, riesce a far capitalizzare in borsa il confitto istituzionale aperto dai propri rappresentanti. O come titolo di rischio o come titolo sicuro all’italiana oppure come mediazione tra i due. Sarebbe interessante, qui ci vorrebbero altri tipi di dati, vedere chi investe in Mediaset assieme a quali altri titoli italiani lo fa. Si capirebbe di più del capitalismo reale italiano. Comunque la trasformazione della vicenda Berlusconi in investimento talvolta di rischio talvolta solido sui titoli Mediaset è il vero filo rosso di tutta la vicenda del centrodestra nato con le elezioni ’94. Fa bene ricordare qui due passaggi:
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la capitalizzazione in borsa di Mediaset è avvenuta con il quinquennio di governo del centrosinistra in ossequio al rilievo economico-finanziario di questa azienda
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da 20 anni il “comportamento eversivo” di Berlusconi ha significato, conti alla mano, l’inversione dei bilanci Fininvest da passivo ad attivo (cavallo metà anni ’90); la capitalizzazione in borsa di Mediaset (seconda metà anni ’90), il consolidamento dell’azienda e dividendi azionari di tutto rispetto (anni duemila). Insomma la borsa ha premiato, nel ventennio, Silvio Berlusconi. Sia lo spettacolo, per i momenti di rischio sul mercato azionario, sia la sovrapposizione tra presenza nelle istituzioni e quella nel mercato televisivo-pubblicitario (per le fasi di investimento diciamo consolidato). Il fatto che le vicende di Berlusconi occupino, ancora oggi, il centro della vita politica ufficiale italiana sono garanzia per almeno una delle due fasi di valorizzazione del titolo Mediaset. Sia per i mercati finanziari che per Mediaset, evidentemente. Il fatto che il mainstream abbia trasformato tutto questo in pura vicenda giudiziaria, che altro non è che un epifenomeno delle evoluzioni e dei conflitti di una multinazionale della comunicazione, fa riflettere sulla capacità della politica italiana (istuzionale e non) di produrre categorie di lettura e comportamenti adatti alla situazione.
SENTENZA MEDIASET E RIFORME COSTITUZIONALI
Parliamo di comicità, giusto per affrontare con allegria una serie di questioni serie che questo paese ha davanti. E la palma della comicità, quella d’oro, non può che spettare al Pd. I cui esponenti, per giorni, durante il mese di luglio, si sono affaccendati a spiegare che “le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi non devono riguardare l’azione di governo”.Salvo poi, visto che lo stesso Berlusconi ha comunque (nonostante i tentativi delle “colombe” del suo partito) rimesso in discussione il governo provare il classico gioco del cerino acceso, quello della attribuzione delle responsabilità delle possibilie crisi di governo. Tentativi esilaranti, a dir poco, di fuggire dal merito della questione. Silvio Berlusconi è stato condannato per aver creato fondi neri all’estero, a favore di Mediaset e del proprio gruppo politico, anche quando era presidente del consiglio. Di fatto, anzi de jure, è stata accertata la sinergia tra gruppo e presidenza del consiglio nella creazione di fondi neri. Sinergia che avviene, tra gruppo ed istituzioni, per la politica dell’espansione dei fatturati pubblicitari e per la collocazione in borsa del gruppo. Avere un alleato di governo, con il quale ci si appresterebbe a riformare la costituzione (anzi, lo si è già fatto con l’introduzione del pareggio in bilancio), organico all’uso del potere politico per la creazione di fondi off-shore (come fanno Putin e Nazarbaev, ad esempio, o come ha fatto la famiglia Bush) riguarda quindi proprio il governo. Anzi, la futura forma stato che non potrà non tener conto delle esigenze di un simile multinazionale. Accreditata come potere costituente dal presidente della repubblica. La separazione tra un centrodestra “responsabile” ed uno “irresponsabile” può andare bene ai comizi, sempre meno affollati, delle feste del PD. La realtà ci mostra una televisione generalista, che possiede linguaggi e governi del legame sociale poveri e regressivi, che diviene potere costituente entro una forma stato che celebra l’uso delle istituzioni come accreditamento della collocazione in borsa di una multinazionale e dei suoi fatturati pubblicitari.
Va bene che le grandi culture politiche del ‘900 si sono dissolte ma qui si sta cercando di rifondare l’intera forma stato sulla base delle esigenze delle convention dei manager che devono piazzare i propri prodotti finanziari di UNA sola multinazionale. Un delirio puro, pieno, generatore di drammi e di pericoli. Oltretutto Mediaset è entrata a suo tempo in politica (anzi, era ancora Fininvest), mettendo in campo la figura carismatica del suo fondatore, per avere un player politico (le istituzioni) più direttamente a contatto con le esigenze di una multinazionale. Tra queste esigenze, oltre alla valorizzazione delle azioni, ci sono i fondi neri, più o meno considerevoli, che fanno parte dell’autoproclamata libertà di azione di una multinazionale. Quanto all’evasione fiscale in effetti Mediaset è stata più sfortunata di Google, multinazionale e media digitale di nuova generazione. Per regolare il proprio rapporto con il fisco italiano non solo Google non ha dovuto, come Mediaset, presentarsi alle elezioni e affrontare lunghe battaglie politiche e giudiziarie. Ma è anche riuscita ad autoridursi il dovuto al fisco italiano in somme considerevoli che, a quanto si stima, in un anno avrebbe accontentato sia i suicidi dell’austerità e rigore, sia quelli del rilancio della spesa pubblica che magari anche gli acquirenti di F35. Ma Mediaset è una multinazionale che vende principalmente prodotti in Italia ed ha un peso politico considerevole ma non schiacciante; Google non può essere raggiunta dalla finanza se non nelle scarne sedi italiane e, politicamente parlando, conta quanto un continente. Il rapporto problematico con il fisco rimane quindi per le multinazionali di vecchia generazione mediale come Mediaset, comunque ancorate ad un paese. Non potendo bypassarlo come ha fatto Google con l’Italia allora, per risolverlo, ci si fa potere costituente.
I conflitti tra Mediaset e la magistratura assumono quindi la piena veste di un conflitto sistemico. Non solo perchè Berlusconi politicizza le sentenze, alimentando lo scontro tra politica ed ordinamento (e giocandolo in borsa), ma anche perchè presuppongono la necessità di un ordinamento dove si costituzionalizzi la libertà della multinazionale verso una serie di poteri regolatori (fiscali, di controllo) e si legittimi definitivamente la sinergia finanziario-pubblicitaria tra Mediaset e le istituzioni. La crisi del mercato della tv generalista, minore audience e ribasso del fatturato, non ha fatto che alimentare questo scenario. Con il distacco di Fiat dall’Italia rimane quindi il problema del rapporto tra stato e multinazionale Mediaset. Un nodo che, in un senso o in un altro, va sciolto pena la paralisi totale del sistema politico in un momento di grave crisi economico-finanziaria non solo nazionale ma soprattutto dell’eurozona (nonostante alcuni indicatori positivi sull’industria che appaiono più rimbalzi tecnico-statistici che altro).
Eppure far pagare un pò di più Cupertino o Montain View allevierebbe, nel breve, un sacco di problemi in Italia. Ma se di fronte a Berlusconi il centrosinistra ha sempre alzato rumorosi ruggiti del coniglio, di fronte a Google o Apple può solo, per coraggio politico e capacità di affrontare i problemi, prostrarsi come davanti ad una divinità. Il bello è che il Pd rischia di finire di prostrarsi difronte a tutti: Berlusconi come Google.
Resta da capire quanto il gruppo Repubblica-Espresso, competitor di Berlusconi e sponsor del centrosinistra, possa reggere questa situazione. L’aumento di pubblicità a Mediaset toglie infatti risorse altrimenti destinate ai giornali. Per il centrosinistra un dramma: da una parte deve tenere lo schema delle larghe intese (per salvaguardare, con la politica del rigore, la big finance che gioca sui titoli italiani e la multinazionale Mediaset).
Dall’altra deve tenere assieme le esigenze del gruppo Repubblica-Espresso, la grande azienda di riferimento sul piano strategico della comunicazione, quelle del proprio elettorato e quelle di una magistratura, vicina al centrosinistra, che si sente attaccata e minacciata sul piano sistemico reagendo di conseguenza. Pur essendo il Pd un partito con una cultura politica regressiva, inabile a pensare qualcosa che non sia la mera rappresentanza di interessi esistenti, in effetti la differenziazione di interessi di cui tener conto è di quelle paralizzanti. Viene così a maturazione un reale difficoltà strutturale a sostenere le larghe intese che presupporrebbero l’azzeramento di ogni resistenza alla definitiva costituzionalizzazione della subordinazione italiana delle esigenze della Bce, della Ue e della big finance. Assieme alla costituzionalizzazione delle esigenze Mediaset di sinergia “positiva” con le istituzioni italiane. Per chiudere questo schema c’è l’evidente sofferenza Pd, perchè è ancora paralizzato dalla rappresentanza di interessi divaricanti, ma anche quella Pdl, tra poco Forza Italia 2.0, che dalla vicenda processi viene colpito nella catena di comando.
LA SACRA FAMIGLIA BERLUSCONI. LA CATENA DI COMANDO CHE NON DEVE ESSERE TOCCATA.
Nei giorni successivi alla sentenza Mediaset der Spiegel ha parlato di un “Berlusconi che non capisce più il mondo”. Ora, il fondatore di Mediaset gode di pessima stampa in tutto il pianeta, ed è ridicolizzato in tutte le principali lingue in cui si possa scrivere una vignetta, ma il mondo ancora lo capisce. Soprattutto il proprio che gli altri mostrano di capire meno. Specie in Italia dove ci si illude che una serie di sentenze su Berlusconi possano riportare il paese ad una mitizzata normalità. Cosa è avvenuto infatti subito dopo la sentenza? Semplice, che le schiere di “colombe” del Pd e del Pdl stanno lavorando per una soluzione che permetta una sorta di accettazione della sentenza Mediaset (la prima in ordine di tempo per Berlusconi) da parte del leader del centrodestra in cambio di una serie di concessioni politiche, economiche e sulle riforme costituzionali. Il Quirinale, che subito dopo la sentenza ha parlato di “necessità di riforma della giustizia” (concedendo tanto, ma non quanto richiesto, alle esigenze di rilegittimazione Mediaset) cerca ovviamente di favorire questo schieramento. Ne va dello schema di “riforme” delle larghe intese. I problemi, al momento, per la realizzazione questo schema sono due. Il primo, come abbiamo accennato, sta nelle molte paralisi del PD. Il secondo sta in Mediaset e nella futura Forza Italia che si sentono colpiti nella catena di comando. E qualsiasi gruppo, tribale o aziendale che sia, se si sente colpito nella catena dicomando reagisce in modo aggressivo verso l’esterno. E qui è chiara una cosa: Berlusconi ha quasi 78 anni, ha davanti a sé una possibile serie di condanne. E’ il leader del centrodestra e il tycoon carismatico di Mediaset. Colpirlo è incidere sul potere di una catena di comando che lo vede al vertice. E’ mettere in difficoltà, nella trasmissione tra vertice e rami, un potere politico che si fa immediatamente fatturato.
Non a caso, nelle ore dell’attesa della sentenza Mediaset, ha chiamato i figli, detentori di quote del potere carismatico da lui prodotto e distribuito, a raccolta nella casa romana. E dopo direttamente ad Arcore. Il messaggio prodotto, prima all’azienda e poi al paese, è che la catena di comando è salda, non ci sono differenziazioni dopo quello che è accaduto. Il punto è che, per l’età e le vicende giudiziarie di Berlusconi, è che questa catena di comando è destinata a mutare nei ruoli e nelle funzioni. Quello che divide le “colombe” e i “falchi” di ogni schieramento sta soprattutto su chi e come incida nella ristrutturazione della catena di comando. Se debba avvenire una successione secca, o graduale, entro questa catena e chi ne siano i protagonisti.
Le parole di Confalonieri, che non fa beneficenza ma è fondamentale nella accumulazione economico-finanziaria di Mediaset, al Corriere sono state chiare: “prima lui poi le aziende”. Nel senso che va salvaguardata prima l’esclusività della catena di comando che cavalca questa originale accumulazione economico-finanziaria di una multinazionale, che si serve dell’occupazione dello stato, poi si può parlare di evoluzione delle strategie aziendali e di larghe intese.
Lo scontro delle prossime settimane toccherà quindi ruoli, funzioni ed organizzazione di questa catena di comando Mediaset. Catena che, più si sentirà minacciata nelle proprie prerogative, potrebbe reagire in modo aggressivo. Oppure trovare, una volta riconosciute le proprie esigenze, fattori di riconciliazione con il resto del mondo politico. Questo nell’incedere della crisi economica, con i rischi di una nuova crisi finanziaria, i tagli al bilancio dello stato e nella scontro all’interno del PD. Comunque, ha fatto capire Mediaset, la catena di comando interna non si tocca. Se ci devono essere ristrutturazioni interne è solo l’interno che decide. Vedremo quanto durerà questa linea.
Deve però, a questo punto, essere chiaro un passaggio. Mediaset non teme il conflitto. Perchè è cresciuta negli ultimi vent’anni, proprio grazie al conflitto che ha innescato con e nelle istituzioni. Mediaset è infatti un signore della guerra economico-finanziaria di una portata sconosciuta, almeno fino ad anni recenti, nella storia italiana. Portata che, a venti anni dall’entrata in politica di Berlusconi, non è ancora chiara né al centrosinistra né a sinistra. Dove hanno prevalso le letture delle cronache giudiziarie di Berlusconi piuttosto che un’analisi sulla portata sistemica del fenomeno. E di fronte a un player che è signore della guerra economico-finanziaria sperare che le sentenze portino tutto a normalità è davvero non capire il mondo, come lo Spiegel dice di Berlusconi. Il problema Mediaset, multinazionale oltretutto proveniente dagli old media, è quindi destinato a restare sul tavolo. Magari come socio, una volta trovato l’accordo con Quirinale e PD, finalmente costituente di un’Italia che legittima, oltre alla sottomissione defintiva alla big finance, il fatto che le sue istituzioni servano per l’accumulazione economico-finanziaria di una multinazionale. In una sorta di Concordato che stavolta non riguarda la religione ma la tv generalista. Oppure come conflitto permanente, talvolta acuto talvolta mediato, tra Mediaset, il resto del mercato mediale e il mondo politico-istituzionale. Un conflitto che, negli ultimi vent’anni, Mediaset ha saputo far fruttare in termini finanziari-economici e, come da sentenza, di capacità di creare fondi neri.
Si tratta quindi di una vicenda molto più complessa del fare il tifo o meno per qualche sentenza. O sperare di essere “oltre” un quadro politico in grado invece di far valere il proprio peso e la propria centralità. Risucchiando tutti entro le proprie convulsioni.
nique la police
da SenzaSoste
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