È morto Alessandro Dal lago, sociologo e intellettuale
È morto questa mattina Alessandro Dal lago, sociologo e intellettuale, rara voce libera nel panorama delle scienze sociali italiane. Al netto delle posizioni assunte negli anni che non sempre ci hanno visto concordi, ha avuto il merito di mettere a nudo il conformismo e l’ipocrisia dell’Accademia di “sinistra” italiana, di contribuire al dibattito critico sulle migrazioni, sulla guerra, sulla criminalità organizzata. Il suo “Giovani, stranieri e criminali” rimane un riferimento importante per lo smascheramento della logica razzista e discriminatoria delle politiche securitarie nel nostro paese.
Pubblichiamo un breve estratto di un suo articolo scientifico, apparso nel 2010 su Etnografia e ricerca qualitativa, che meglio di come possiamo fare noi restituisce la postura dello studioso.
Ma quando mai?
Alcune considerazioni sulla sociologia embedded in Italia
Poco più di vent’anni fa, il presidente del consiglio Bettino Craxi andò in pellegrinaggio da Rudolph Giuliani, allora Procuratore distrettuale a New York e massimo sostenitore della strategia della «tolleranza zero», e tornò con un’idea «originale»: punire i consumatori di droga allo stesso modo degli spacciatori. La proposta era doppiamente inaccettabile ai miei occhi di ricercatore. Sia perché veniva da un uomo politico che si proclamava di sinistra, sia perché era in contraddizione con tutto quello che avevo imparato negli anni della mia formazione. Ero cresciuto con l’idea che la sociologia avesse anche la funzione di rivelare la logica non lineare dei fenomeni sociali, di contrastare le terribili semplificazioni dei poteri e delle ideologie dominanti, in fondo di mettersi al servizio di una concezione problematica e non repressiva della società. La mia idea di scienza sociale si ispirava a quanto Erving Goffman aveva detto poco prima di morire, in qualità di presidente dell’American Sociological Association:
Se si deve per forza avere una giustificazione del nostro studio motivata da bisogni sociali, facciamo sì che essa consista nell’analisi non sponsorizzata della situazione sociale di cui godono coloro che hanno autorità istituzionale – sacerdoti, psichiatri, insegnanti, poliziotti, generali, capi di governo, genitori, maschi, bianchi, cittadini, operatori dei media e tutte le altre persone con una posizione che permette loro di dare un imprimatur ufficiale a versioni della realtà (Goffman, 1998, pp. 96-97).
Convinto che un ricercatore dovesse seguire queste indicazioni, al tempo stesso epistemologiche e morali, interpellai alcuni colleghi più anziani e proposi un documento collettivo contro la trovata craxiana di risolvere il problema delle droghe (anche leggere) con la mera repressione. Nessuno accettò, con le motivazioni più varie e che ho dimenticato. Ci rimasi ovviamente male, ma la verità è che ero stato ingenuo. Ritenevo che il mio punto di vista fosse quello dei sociologi italiani progressisti, ampiamente condizionati dalle lotte studentesche e sociali degli anni Sessanta e Settanta. Dopotutto, da studente e apprendista ricercatore avevo letto i loro libri, in cui mi si spiegava l’obsolescenza della categoria di mercato, si studiavano i cicli delle lotte operaie, si chiosavano con entusiasmo i documenti dei movimenti studenteschi americani, si analizzava il ruolo dell’educazione nel trasmettere le ideologie dominanti e così via(1). Ma in realtà, nel giro di pochi anni era successo qualcosa di cui non mi ero reso conto. Quasi tutti erano tornati nei ranghi di una sociologia conciliata con il mercato, lo Stato, i poteri ecc., se mai ne erano usciti. Infatti, anche in precedenza non erano esattamente marginali o alternativi: anzi, il loro marxismo più o meno di maniera corrispondeva all’idea, evidentemente illusoria, che il resto del mondo la pensasse come loro. Quando apparve chiaro, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, che così non era, ecco che molti sociologi già radicali si immersero, senza apparenti ripensamenti o mal di pancia, nella Realpolitik scientifica e accademica: chi riscoprì i valori assoluti e imperituri della scienza, chi la superiore oggettività dei metodi quantitativi, chi si mise al servizio del principe, chi divenne organizzatore di ricerche, chi un power broker concorsuale(2). Niente di male, per l’amor di Dio. Ma, di fronte ai cambiamenti radicali di prospettiva politica o ideologica (di cui in Italia abbiamo innumerevoli esempi), mi è sempre venuta spontanea una domanda: se uno si sbagliava prima, quando pensava che la rivoluzione o il socialismo fossero alle porte, che cosa garantiva che avesse ragione poi? Cerco di spiegarmi: quando la sociologia italiana, che in gran parte era stata sessantottina e apparentemente antagonista, divenne realista, positivista ecc., optò per una prospettiva migliore? Erano possibili alternative? Io ho l’impressione che, in molti casi (non voglio generalizzare), una certa angustia concettuale di base, persa per strada la verniciatura marxista e operaista (libertaria no, perché questa è stata rarissima), si rivelasse semplicemente per quello che era. Ritengo che la sociologia italiana sia stata per lo più conservatrice, da un punto di vista epistemologico e culturale, durante e dopo gli anni Sessanta e Settanta (…). In sostanza, una scienza sociale che non si è mai posta in un ruolo veramente critico e indipendente nei confronti delle tradizioni culturali dominanti.
1 – Ricordo alcune opere che rappresentano tale stagione: gli autori sono ancora oggi nomi notissimi della sociologia italiana: Cavalli, Martinelli (1969; 1971); Regini, Reyneri (1971); Barbagli (1972); Pizzorno et al. (1978).
2 – Un’analisi delle carriere di molti di questi sociologi mostrerebbe il passaggio da posizioni antagoniste, critiche se non rivoluzionarie, negli anni Sessanta, allo scientismo degli anni Ottanta sino alla collaborazione con i governi amici degli anni Novanta. In materie come la legge Turco-Napolitano o la riforma dell’università il contributo dei sociologi è stato rilevante
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