
Quando il popolo si organizza, il sistema vacilla
L’ultimo periodo di lotte ha mostrato che il potere trema solo quando il popolo smette di obbedire. Questo testo parla di quella rottura e di perché dobbiamo tornare a farla esplodere ovunque.
da SAI – Scrivania Autogestita d’Informazione
La missione della flottilla è stata uno affronto diretto alla passività imposta dall’alto. Non un gesto simbolico isolato, ma una rottura netta dell’ordine stabilito: la dimostrazione materiale che la “normalità” che ci raccontano serve solo a mascherare complicità e calcolo politico. La flottilla ha fatto quello che i governi non hanno avuto il coraggio e la volontà di fare, andare contro la politica occidentale.
Quando le istituzioni voltano le spalle al loro popolo, non è un incidente: è una scelta. E la mobilitazione dal basso diventa allora non solo legittima, ma necessaria. La flottilla ha strappato la maschera a chi predica solidarietà mentre chiude gli occhi. Ha ricordato che l’autorità non è intoccabile, che il potere non è scontato, che chi sta nei palazzi è forte solo finché nessuno li smaschera apertamente.
Vedere persone unite in un movimento internazionale muoversi dove i governi restavano immobili ha frantumato la rassegnazione. Ha dimostrato che la paura è un’arma del potere, e che si combatte solo collettivamente. La flottilla ha fatto ciò che spaventa i governi: ha mostrato che la gente può organizzarsi senza chiedere permesso, può agire senza attendere il benestare di nessuno, può entrare in campo direttamente quando la politica è assente.
Questo coraggio non è solo romanticismo: è un privilegio,è una presa di coscienza e un atto di responsabilità collettiva. È capacità di costruire un fronte unito capace di proteggere i vulnerabili, di parlare a tuttə senza finzioni e di imporre scelte che i governi vorrebbero non prendere. È sentimento insurrezionale non nel senso della violenza, ma in quello della rottura della sudditanza.
La flottilla ha gridato quello che i palazzi temono più di tutto: non siamo sudditə, non aspettiamo il loro via libera, non abbiamo bisogno della loro autorizzazione per fare ciò che è giusto.
Ha ricordato che quando il governo si ritira dalla responsabilità, la democrazia non crolla: semplicemente torna nelle mani del popolo. E in quelle mani, può tornare a fare pressione, rumore e a far cambiare le cose.
Tornare al livello di lotta raggiunto in quel periodo è comunque difficile perché lì avevamo rotto qualcosa. Durante questo periodo avevamo incrinato la facciata di un sistema che ci vuole sempre prevedibili, sempre innocui, sempre al nostro posto.
Per qualche settimana quel posto l’abbiamo abbandonato.
E lo hanno sentito.
Oggi quella forza non è svanita: è stata dispersa scientificamente, schiacciata dentro una quotidianità costruita per sfiancarci.
Affitti insostenibili, lavori precari, sanità ridotta a privilegio, scuola abbandonata, salari da fame, patriarcato e politiche di guerra.
Non sono “problemi” da risolvere: sono ingranaggi precisi dentro una macchina che macina vite e chiama tutto questo “progresso economico”.
Gli affitti vengono lasciati impazzire perché una casa sicura ti dà forza, autonomia, tempo per organizzarti.
Invece interi quartieri vengono trasformati in vetrine per turisti, gentrificati fino all’osso, dove un B&B vale più di una famiglia e un affitto breve vale più di una vita stabile. Le case non sono più case: sono investimenti, scenografie, rendite.Meglio averti schiacciat3, costrett3 a cambiare città o quartiere ogni sei mesi, senza radici e senza respiro.
Il lavoro precario non è un effetto collaterale: serve a ricordarti che sei sostituibile, che non devi pretendere, che il ricatto del mese dopo vale più dei tuoi diritti. È precarietà come strumento disciplinare, non come incidente di percorso. Mentre ti ripetono che “così funziona il mercato” continuano a spingere le pensioni sempre più lontane, come se dopo una vita intera di lavoro fosse un lusso da conquistarsi a forza di sacrifici.
La sanità ridotta a privilegio è un modo brutale per dire chi merita cura e chi può essere lasciatə indietro. E quando curarsi diventa un lusso, ogni malattia è un debito che ti sottrae dignità e possibilità.
E il paradosso è che siamo spintə verso il privato perfino da chi dovrebbe difendere la sanità pubblica: ministri e figure istituzionali che, mentre tagliano ospedali e liste d’attesa, possiedono o dirigono cliniche private in cui casualmente l’unico modo per essere curat3 in tempi umani è pagare.
La scuola abbandonata è il modo più efficace per strangolare il futuro: se non hai accesso a un’istruzione libera, critica e di qualità, diventi facilmente controllabile. Un paese che non investe nella scuola lo fa perché teme persone autonome, non perché mancano soldi.E mentre tagliano tutto ciò che rende la conoscenza viva, provano a riempire il vuoto con la militarizzazione degli spazi educativi e con una visione occidentale, aziendalista e disciplinare della formazione: meno pensiero critico, più obbedienza; meno mondo, più propaganda. Così la scuola smette di liberare e ricomincia a servire.
I salari da fame non sono un errore economico: sono il meccanismo per tenerci in fila, distrattə, intentə a sopravvivere invece che organizzarsi. Se lavori tutto il giorno per non farcela comunque, non hai energie per alzare la testa, figuriamoci per ribaltare il tavolo dei padroni.
Per questo rifiutano perfino un salario minimo dignitoso, è chiaro il messaggio: non devono crescere i nostri diritti, deve crescere solo il loro margine di ricatto
Dentro questo sistema, il femminismo non è un accessorio: è un coltello che taglia a fette la verità. Lo sfruttamento non è neutro, opprime in modo diverso corpi diversi, e chi lo nega lo fa perché quel sistema gli conviene.
Se la trasformazione non mette in crisi il potere su cui si regge il patriarcato, non è trasformazione: è una toppa.
Perché, come ormai è chiaro a tuttə, questo sistema non è “rotto” ma è stato costruito così apposta, per arricchire poch3 e consumare tutt3 gli/le altr3.
E in questa architettura di oppressione, il riarmo non è un dettaglio tecnico: è il carburante che tiene in piedi un ordine mondiale basato sulla guerra, sulle gerarchie e sul sacrificio di interi popoli.
Il genocidio in Palestina non è un’eccezione lontana: è la prova più feroce di cosa produce un sistema che preferisce finanziare bombe invece che diritti, che chiama “sicurezza” la distruzione di vite, che normalizza l’orrore purché serva agli equilibri del potere.
E allora basta aspettare il “momento giusto”.
Il momento giusto non arriva: si crea.
La lotta va riscritta, con altri codici e altre parole.
Va riportata nei luoghi dove ogni giorno ci tolgono dignità: nei porti, negli ospedali, nelle aule, negli uffici, nei quartieri dove sopravvivere è già resistenza.
Il conflitto c’è già: basta smettere di ignorarlo.
Dobbiamo tornare a essere forza che rompe la narrazione, che fa saltare la normalità, che non si fa addomesticare.
Non ci interessa essere tolleratə: vogliamo essere ciò che non riescono più a contenere.
Ed è così che, come diceva il “Compagno Orso”, ogni goccia diventerà tempesta.
La flottilla ci ha insegnato che quando agiamo senza paura di essere scomodi, gli equilibri cambiano.
Adesso serve farlo qui, sulle ingiustizie che ci attraversano ogni giorno, sulla pelle di tuttə.
L’alternativa siamo noi quando smettiamo di accettare la stanchezza come destino, la precarietà come inevitabile, la rassegnazione come normalità, la repressione come giustizia e il patriarcato come unica via.
E allora eccolo il punto:
tocca a noi spingere dove fa male, aprire crepe dove non se lo aspettano, rilanciare il conflitto politico e sociale finché questo modello non regge più.
Non per distruggere a caso, ma per costruire ogni possibilità che oggi ci viene negata: uguaglianza, dignità, redistribuzione, cura, diritti veri, vite vivibili, autodeterminazione.
Nessun messaggio rassicurante quindi, nessuna promessa vuota e nessuno slogan.
Solo una certezza:
la trasformazione non arriva se aspettiamo.
Arriva quando decidiamo che non ci basta più sopravvivere, ma scegliamo di resistere.
Questa non è la battaglia di qualche militante è la battaglia di chiunque abbia capito che questo sistema ci vuole stanchə, piegatə, silenziatə, normalizzatə.
Noi non saremo nessuna di queste cose.
L’alternativa non è lontana, non è utopia: è nelle nostre mani, nella capacità di organizzarci, di coordinare la rabbia e trasformarla in forza concreta, proprio dove il sistema prova a schiacciarci.
Muoviamoci collettivamente, perché solo così possiamo rendere visibile ciò che oggi il potere vuole invisibile.
Il momento di agire è adesso, e non possiamo più rimandare.
Articolo di Simone D’Aversa del Gruppo Autonomo Portuali di Livorno
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