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Verde marcio

Ursula von der Layen ha dedicato un’ampia parte dei 48 minuti e 20 secondi del discorso in cui ha presentato la sua “strategic vision” per i prossimi cinque anni davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria al tema delle sfide ambientali, del cambiamento climatico, dell’energia pulita, del “suo” Green deal (che ama come un figlio), del nascituro Clean Industrial Deal promesso per i primi 100 giorni del suo mandato… Il secondo tema per importanza è stato la Guerra. La guerra a cui dovremo prepararci mentalmente e tecnicamente.

di Marco Revelli su Volerelaluna

E le Armi, che dobbiamo apprestarci a produrre su scala incomparabilmente più ampia che in passato perché, così ha detto testualmente, viviamo in un “mondo in cui tutto è armato e contestato” (a world in which everything is weaponised and contested).

Pochi l’hanno notato – quasi nessuno – ma il combinato disposto di questi due temi nel medesimo discorso disegna il profilo pressoché perfetto della figura retorica dell’ossimoro, ovvero di una locuzione che contiene in sé concetti opposti, come “lucida follia”, “acuta ottusità”, “illustre sconosciuto”… O, forse meglio, ci presentano la struttura mentale sostanzialmente bi-polare della Presidente dell’UE (e dell’UE stessa), per metà dottor Jekyll, quando promette caramellosa ai giovani un roseo futuro di serenità ambientale in un pianeta pulito in cui condurre una vita finalmente riconciliata con la Natura, e per metà Mister Hyde che quella vita gliela strappa (e quella Natura la devasta) a suon di bombe danzando sull’abisso di un conflitto nucleare. Due universi di senso – e di non-senso – coesistenti nel breve spazio di uno speech. Basta, d’altra parte, un semplice esercizio di matematica per averne la conferma.

La contabilità ambientale della guerra

Sapete qual è l’”impronta ecologica” di un proiettile di artiglieria da 155mm, i più usati sui campi di battaglia ucraini? Un gruppo di esperti di GHG, ovvero di Greenhause Gas o Gas ad effetto serra si è preso la briga di misurarla e ha risposto che equivale a 136 Kg di CO2: parte per la produzione dell’esplosivo, parte per le componenti in acciaio, altri Kg liberati al momento dell’esplosione. Considerato che ognuno di noi, guidando una vecchia diesel per una ventina di Km al giorno emette circa 2,6Kg di CO2, ne consegue che un solo proiettile genera un inquinamento pari a quello prodotto in un paio di mesi da un automobilista normale. Se si pensa che nei primi mesi di guerra, dal giorno dell’aggressione fino alla battaglia di Severodonetsk, nel giugno 2022, le truppe di Mosca avevano sparato circa 60mila colpi al giorno e gli ucraini quasi la metà, prima di aver dato fondo alle scorte accumulate negli anni precedenti e a quelle risalenti ai tempi dell’URSS, si ha la misura di quale pestilenza sia, anche sul piano ambientale, quella guerra. Ora la neo Presidente dell’UE – dopo non aver mosso un dito, come d’altra parte tutto l’Occidente, per fermare quella pazzia, anzi avendo lavorato a soffiare sul fuoco -, propone di portare la produzione di proiettili a più di 2 milioni di pezzi all’anno (una boutade, naturalmente, dato che la capacità massima delle industrie belliche europee non supera i 300.000 proiettili, forse raddoppiabili con uno sforzo estremo), ma necessaria ad alimentare la retorica del sostegno all’Ucraina as long as it take e perché “We must give Ukraine everything it needs to resist and prevail”. Un progetto a sostegno del quale aveva comunque lanciato, già lo scorso anno, il programma Asap (Act in support of ammunition production) con lo scopo di finanziare con fondi del Bilancio comune europeo la produzione di proiettili e missili, il quale ha già portato alla stipula di 31 accordi finalizzati a sfornare 4.300 tonnellate l’anno di esplosivi, 10 mila tonnellate di polvere da sparo, e centinaia di migliaia di proiettili con i relativi involucri, facendo esclamare a uno zelante funzionario del suo entourage che finalmente “siamo passati dalla modalità pace alla modalità guerra”.

E’ la stessa persona, si badi, che perfettamente coiffata da serafica damina del Settecento, annuncia trionfante che “nel primo semestre di quest’anno, il 50% della nostra produzione di energia elettrica è stata ottenuta da fonti rinnovabili, autoctone e pulite” (mica gli orribili “dirty Russian fossil fuels”); e conferma che per il 2040 avremo cancellato il 90% di quei catorci insopportabili su cui si accaniscono ancora a viaggiare gli straccioni delle campagne francesi (quelli che indossarono i gilet jaunes) o i miserabili pensionati italiani. Ed è ancora lei – sempre lei! – indossato l’elmetto, a invocare l’aumento tendenzialmente senza limiti della spesa militare (“We need to invest more. We need to invest together”), annunciando – blasfema – che “faremo come per i vaccini”. E proponendo come esempio la costruzione di un “comprehensive aerial defence system”: uno Scudo Aereo Europeo, “non solo per proteggere il nostro spazio aereo ma come forte (strong) simbolo dell’unità europea in materia militare”, a cui si dovrebbe affiancare il vasto lavoro di potenziamento delle “capacita di difesa di fascia alta in settori critici quali il combattimento aereo” da realizzare prelevando circa un miliardo di euro dallo “Strumento europeo per la pace” (sic!), che peraltro ha già “mobilitato 6,1 miliardi di euro per sostenere le forze armate ucraine con attrezzature e forniture militari letali e non letali” (parole testuali di Ursula).

Non so se la von der Layen in versione green abbia idea di quanto costerebbe, in termini d’inquinamento, ciò che lei stessa in versione tuta mimetica propone. Vale comunque la pena ricordarlo. Un F16 Falcon, di quelli che Zelensky ha chiesto costantemente e che alla fine gli sono stati dati, consuma circa 16.000 litri di carburante all’ora. Ovvero emette quasi 50mila kg di CO2 per missione. Inquina dunque in un solo volo quanto 55 automobilisti diesel in un anno intero! Se gli 80 fight jets promessi dall’Europa a Zelensky fossero usati ognuno anche solo per una missione al giorno, produrrebbero ogni anno circa un miliardo e mezzo di chili di gas serra, a cui si devono aggiungere quelli, enormemente maggiori, prodotti dall’aviazione russa, dal movimento dei mezzi corazzati (un Abrams, un Leopard 2, un T90 consuma circa 450 litri di carburante ogni 100 Km con un’emissione di CO2 pari a 10 Kg al  chilometro), dai tiri d’artiglieria, dagli sciami di missili… E’ stato calcolato che un anno  di quella guerra tanto feroce quanto assurda abbia comportato, in termini ambientali, l’emissione di oltre 120 milioni di tonnellate di gas serra. L’equivalente cioè di circa un quarto del totale delle emissioni dovute a tutto il traffico automobilistico europeo (500 milioni di tonnellate). Come a dire che, in un ipotetico bilancio ambientale, se si riuscisse a fermare quella carneficina (anziché tentare di prolungarla con ogni mezzo), si potrebbe ottenere fin da subito, qui ed ora, un risultato pari a circa il 25% di quanto il green deal si propone di realizzare – al prezzo dei tanti sacrifici e con l’ipoteca di un probabile fallimento – in 16 anni. E simmetricamente per ogni anno in più di cui si prolunga la guerra, si annulla una gran parte dei possibili risultati del Green Deal e si vanifica il grosso dei sacrifici imposti alla popolazione europea per realizzarlo. Tutto questo, bisogna aggiungere, senza tener conto dell’enorme prezzo in termini di vite umane perdute, centinaia di migliaia, su entrambe i lati del fronte, generazioni di giovani sacrificate da classi politiche senza scrupoli. Ma esso non rientra nella soglia di attenzione di chi siede a Bruxelles, come a Washington o a Mosca.

Greenwashing – Un vizio sistemico

Vorrei essere chiaro. Non si tratta, qui, solo dei limiti personali del ristretto gruppo di notabili che stanno al vertice dell’Unione Europea. Della loro offensiva doppiezza. Della loro inspiegabile cecità. Dell’incomprensibile atteggiamento suicida con cui hanno portato il Vecchio continente, da un ruolo importante di potenza culturale e di istanza mediatrice in ultima istanza, all’irrilevanza politica e alla pulsione autodistruttiva. Si tratta di una logica sistemica ben più ampia e diffusa quantomeno nell’intero Occidente, consistente nell’uso retorico di quella che oggi è la più alta e drammatica sfida alla nostra esistenza, la questione ambientale, per coprire e giustificare pratiche sordide di segno ed effetto esattamente opposto. L’ultimo grido nelle tecniche di marketing. Finito il tempo in cui i grandi nemici dell’umanità, i saccheggiatori delle risorse del pianeta, praticavano il negazionismo esplicito, minimizzando o occultando i danni prodotti alla Terra, ora che l’evidenza non può essere negata si enfatizza la dimensione del rischio, lo si sbatte in prima pagina, per continuare, come i vecchi Gattopardi, a fare come prima, peggio di prima, presentando i propri vizi come rinnovate virtù.

La tecnica ha anche un nome. Si chiama Greenwashing ovvero lavare il proprio sporco nel verde (chiamato anche green lies, green sheen o green marketing). Ne sono esempi classici il caso della Chevron (il primo, risalente agli anni ’80) la quale lanciò una martellante campagna televisiva denominata “People Do” per comunicare le proprie buone pratiche di sostenibilità nel momento stesso in cui sversava petrolio in aree protette generando vere e proprie catastrofi ambientali. O quello della Coca Cola la quale utilizzò per la propria pubblicità il claim World without waste proprio quando veniva nominata per la terza volta da Greenpeace “impresa più inquinante a livello globale per quanto riguarda la produzione di plastica”, e fu per questo portata in giudizio da Earth Island Institute. Stessa sorte toccata alla nostra ENI, sanzionata per  aver presentato falsamente il proprio Diesel+ come “ecologico, verde, sostenibile”. E naturalmente applicabile ai politici. A tutti i politici. Compresi i Verdi. Anzi soprattutto i Verdi, a cominciare da quelli che possono essere considerati la matrice originaria di quel movimento, i Grünen tedeschi.

La mutazione cromatica dei Grünen

La crescita impetuosa delle pulsioni belliciste all’interno del loro vecchio involucro ambientalista, è forse il fatto più sconvolgente nella politica tedesca (e non solo) negli ultimi due anni e mezzo. La mutazione genetica dell’intero gruppo dirigente Grüne dall’ eco-pacifismo delle origini, quando il neonato movimento coniugava la difesa intransigente dell’ambiente contro lo sviluppo incontrollato con quella altrettanto netta della vita contro la minaccia della guerra, era stata iconicamente (e ironicamente) rappresentata, già nell’aprile del 2022, dal principale Magazine tedesco, “Der Spiegel”, col titolo di copertina Die Olivgrüne – grigioverde diremmo noi, il colore delle divise militari campeggiante sotto l’immagine dei tre leader ex-pacifisti, Baerbock, Habeck, Hofreiter, in tenuta da combattimento con elmetto, giubbotto antiproiettile e tuta mimetica. A loro – indicati come quelli che hanno spinto il Cancelliere Scholz a rompere un ulteriore tabù tedesco fornendo armi pesanti all’Ucraina – era dedicata la TITELSTORY, incentrata sulla “sconcertante”, così la definivano, constatazione secondo cui “invece di fare la parte del pacifista all’interno del governo, invece di frenare, ritardare e impedire l’invio di pesanti attrezzature belliche all’Ucraina, i Verdi sono quelli che ne vogliono di più e quindi fanno pressione sui loro partner, soprattutto sulla SPD” di Olaf Scholz. E culminante con l’imbarazzante domanda: Was ist da passiert, bei den Grünen, mit den Grünen? “Cosa è successo nei Verdi, con i Verdi?”

Per la verità la prima rottura con l’identità dell’origine, ancora segnata da riflessi sessantotteschi, risale indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni ’90. Quando Joshka Fisher, primo ministro degli esteri Verde, diede via libera all’uso dei Tornado tedeschi per bombardare Belgrado. La cosa gli costò un sacchetto di vernice rossa in faccia, scagliato da un militante durante la tumultuosa conferenza di partito di Bielefeld, e l’oltraggiosa equazione Grüne=Kriegstreiber (Verdi=Guerrafondai). Il New York Times titolò “Mezzo secolo dopo Hitler, i jet tedeschi partecipano all’attacco”. Ma era accaduto da poco il massacro di Srebreniza, le pressioni del Presidente americano Clinton su di lui e sul cancelliere Schröder erano state asfissianti. E la cosa passò come un caso limite, una sorta di “stato d’eccezione”.

E’ però soprattutto col 2022 – con la brutale rottura della situazione di precario stallo sul confine orientale europeo prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina – che la mutazione cromatica dei Grünen si rivela nella sua dimensione sistemica e (apparentemente) irreversibile. E’ allora che la ministra degli esteri verde Annalena Baerbock rompe gli indugi rispetto alla precedente ritrosia (ancora a metà gennaio aveva detto al Bundestag “c’è solo una soluzione, ed è la diplomazia”, e a fine mese aveva aggiunto ”Se si parla non si spara”). E con un salto mortale improvviso, prende la guida del fronte politico pro-guerra, spiazzando il più prudente Cancelliere Scholz e schierandosi apertamente per la consegna di armi pesanti alla “resistenza ucraina”. E da allora giocherà a essere sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri sulla linea di armamento dell’Ucraina. E’ lei che il 21 aprile di quell’anno, nei giorni in cui Bild accusava Scholz di tergiversare nell’invio dei Leopard a Kiev, dichiara bellicosa che “There are no taboos for us with regard to armoured vehicles and other weaponry that Ukraine needs“. E’ ancora lei a proclamare, sulle pagine del “Guardian”, che per troppo tempo la Germania si è affidata alla “diplomazia del  libretto degli assegni” (“for too long Germany had resorted to ‘chequebook diplomacy’”) e che è ora di passare alla politica delle armi. Aggiungendo compiaciuta che “solo due anni fa, l’idea che la Germania consegnasse carri armati, sistemi di difesa aerea e obici in una zona di guerra sarebbe sembrata quantomeno inverosimile. Oggi la Germania è uno dei principali fornitori di armi per l’autodifesa dell’Ucraina”.

Naturalmente il suo non è un caso isolato. Buona parte dell’attuale gruppo dirigente del suo partito è, con diverse sfumature, sulla stessa linea. A cominciare dal potente Ministro delle Finanze e vice-cancelliere Robert Habeck, che quasi un anno prima della conversione della sua collega Baerbock, dal Donbass allora ancora segnato da una guerra civile a (relativamente) “bassa intensità”, aveva dichiarato che “non si possono negare armi all’Ucraina”. Fino ad arrivare ad Anton Hofreiter, “botanico, capelli lunghissimi e aria fricchettona” (così lo definiscono su Repubblica), che da presidente della Commissione Europa del Bundestag continua a “infastidire” il Cancelliere per incrementare l’invio di panzer tedeschi in Ucraina. Passando per una figura eccentrica e brillante come la trentasettenne Agnieszka Brugger, un piercing sul viso, capelli tinti rosso fuoco, appartenente all’ala sinistra del partito, vice capogruppo, un’appassionata adesione all’idea di una “politica estera femminista”, che tuttavia non nasconde la sua recente passione per le armi, la tecnologia militare e gli elicotteri navali, in forza della quale guida il processo di rappacificazione tra Verdi ed esercito.

Tra realismo rassegnato e politica delle emozioni

Probabilmente un passaggio interessante per capire questa trasformazione politica, culturale, e in fondo antropologica, è costituito dal Congresso tenuto a Berlino nello scorso novembre quando – come scrisse sul Manifesto Marco Bascetta – i Grünen decisero di riunirsi con “il motto più stupido che si potesse immaginare: ‘La nostra ideologia si chiama realtà’”. Un’accettazione – malamente mascherata da uno slogan criptico e tendenzialmente ossimorico – dello stato di cose esistente, che tendeva a giustificare, senza approfondirli, i tanti compromessi imposti negli anni più recenti dalla permanenza nel governo “semaforo”: le ripetute deroghe a favore dei combustibili fossili e del nucleare indotte dalla crisi energetica; l’indegna (per le solidarietà lacerate  e le aspettative tradite) contrapposizione – cito ancora Bascetta – all’ “imponente movimento ecologista che si batteva per impedire l’allargamento (ritenuto peraltro da diversi esperti inutile per il fabbisogno energetico del paese) della già immensa miniera di lignite di Lützerath”; “l’allineamento alle ipotesi di inasprimento del diritto di asilo e di trasferimento in paesi terzi dei migranti in attesa di esame”… Verrebbe da dire che quanto più si esaurivano le possibilità di rimanete fedeli al proprio programma fondamentale “eco-rivoluzionario” e alla prima ragione del proprio esistere – per i sempre più stretti vincoli di governo -, tanto più cresceva l’enfasi bellicista trasformata in programma ideale capace di riscattare una crisi esistenziale tendenzialmente terminale. Il che ci introduce, credo, a un nuovo, più profondo livello di riflessione sulle ragioni della metamorfosi verde (e non solo), meno legato alla contingenza istituzionale, e più affondato nelle radici stesse di quel movimento (e nelle radici di tanti movimenti affini della seconda metà del secolo scorso).

Il furor sacro che agita le menti di buona parte degli esponenti di un movimento fattosi Partito e poi Partito di governo, ha a che fare – secondo alcuni interpreti non sprovveduti, soprattutto tedeschi – con l’imprinting moralistico, o moraleggiante che ne ha caratterizzato l’approccio con la politica e l’azione collettiva fin dalla nascita. Una “politica dei valori” – così la chiamano -, o forse meglio una “politica delle emozioni”, contrapposta alla “politica degli interessi”. Una visione degli eventi, e dei propri compiti, in cui il valore assoluto dei principii cancella ogni altra argomentazione di opportunità e di rischio. In cui la potenza morale dell’atto istantaneo assorbe le valutazioni di contesto e di processo. Soprattutto in cui l’ostentazione dei valori rischia di essere “solo una facciata per una politica di potere aggressiva e conflittuale, guidata da un senso di superiorità morale”. Di qui nascerebbe quell’”etica delle armi” che rimuove dal campo dell’argomentazione ogni valutazione sulle conseguenze di quell’impiego distruttivo, ogni considerazione di ordine geopolitico, ogni rilevanza degli interessi propri e altrui. Fiat justitia, pereat mundus. Così come finiscono per scomparire le ragioni storiche, le cause disseminate lungo processi non lineari, in cui la verità non è così lampante come viene raccontata. Il tutto nella convinzione di essere, senza se e senza ma, senza un dubbio o un ripensamento, dalla parte del Bene, perché così è, nell’Origine. Qual è il prezzo che l’Europa paga per questa guerra così infinitamente prolungata, in termini di accesso alle materie prime, di collaborazione economica lacerata, di costo dell’energia, di caduta di domanda, di qualità della vita? Qual è il prezzo della Germania, la più colpita da questa lacerazione di un processo d’integrazione ventennale? Perché mai dovrebbe abbozzare alla distruzione di una delle sue arterie vitali, quel North Stream distrutto da un attentato ucraino e forse anglo-americano senza che quel governo possa levare nemmeno un gemito di protesta? Fino a quando, ci chiedevamo, l’opinione pubblica tedesca avrebbe potuto subire in silenzio tutto questo?

La risposta è venuta dalla recenti elezioni. L’occasione in cui la “politica delle emozioni” si schianta sulla “politica degli interessi” del popolo sovrano. E dalle urne è uscito il mostro che a lungo era stato tenuto in gestazione. In Turingia, dove AfD ha preso il 32,8% (10 punti in più della CDU) e BSW di Sarah Wagenknecht il 15,8%, i Grünen sono andati sotto la soglia di esclusione con il 3,2%. In Sassonia sono entrati per un pelo, col 5,2%, contro il 30,6% di Afd e l’ 11,8 di BSW. E’ un segnale potente. Se durerà ancora molto questa guerra, con la crisi che si trascina con sé e il crepuscolo dell’Europa che l’accompagna, la prossima volta sarà peggio. Molto peggio. Sotto le ali da Angelus Novus di Ursula resterebbe non l’Europa risanata e “pulita” che promette  ma un panorama di rovine.

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