
Gli aceri di corso Belgio a Torino incontrano un gelso di Gerusalemme: la Storia e le storie narrate dagli alberi
Uno sguardo alla stretta connessione tra ambientalismo e no alla guerra
a partire dal libro di Paola Caridi
Il Comitato Salviamo gli Alberi di corso Belgio ha organizzato domenica 18 maggio un incontro pubblico con Paola Caridi, autrice del saggio Il gelso di Gerusalemme – L’altra storia raccontata dagli alberi, pubblicato l’anno scorso da Feltrinelli. Si è scelta questa data anche per commemorare la Nakba, la “catastrofe”, l’espulsione di 700.000 palestinesi dalle loro terre operata dagli Israeliani nel 1948.

Giornalista e saggista, Paola Caridi ha vissuto per dieci anni a Gerusalemme occupandosi di storia politica del mondo arabo. Il libro racconta la storia del Mediterraneo e dei territori che vi si affacciano, focalizzandosi sulle vicende umane che hanno coinvolto anche gli alberi. Per chi riconosce come un valore fondante il rapporto con la Natura, con il territorio e con il radicamento in esso, che consente la costruzione di possibilità per un vivere migliore, questa non poteva che essere un’ottima occasione per tessere dei collegamenti. La consapevolezza che tutte le guerre e le invasioni hanno anche delle vittime non umane è abbastanza diffusa; forse non altrettanto evidente e risaputo è come certe specie di animali e addirittura di piante possano diventare prede oppure armi di conquista, fagocitati insieme alle persone dall’avanzata della crudeltà e dell’ingordigia colonialista.
L’incontro, tenutosi presso la bocciofila “Rami Secchi” di Lungo Dora Colletta, ha permesso innanzitutto di riflettere su un fatto che sta macchiando indelebilmente la Storia e la coscienza dell’umanità contemporanea: il genocidio della popolazione palestinese ad opera della colonizzazione sionista che si accanisce anche contro la terra, gli alberi e perfino le erbe come elementi dell’identità etnica che vuole annientare. In questo senso il libro Il gelso di Gerusalemme è un’opera di “botanica politica”, una raccolta di testimonianze individuali e storiche che hanno come coprotagonisti gelsi, sicomori, aranci, ulivi su entrambe le sponde del Mediterraneo.
Riportiamo alcuni passaggi che pensiamo possano essere arricchenti anche per le esperienze di attivazione dal basso nostrane che si mobilitano a difesa dell’ambiente e del territorio e che sentono la necessità di approfondire il dibattito agganciandolo all’attuale fase di guerra, militarizzazione e genocidio.
Storia di un popolo che resiste anche a fronte del colonialismo “verde”
La cronologia della Storia è tutta legata agli esseri umani e ignora il tempo degli altri esseri viventi. In questo libro la storia di un popolo, quello palestinese, è narrata a partire dal suo legame con la terra e con gli alberi. Un legame di cui il colonialismo sionista sin dalla sua genesi ha riconosciuto la tenacia e che perciò ha puntato a spezzare sistematicamente e programmaticamente. La storia delle arance di Jaffa, di cui Israele si è appropriata, risignificandole, attraverso una vera e propria rapina alla luce del sole ai danni del popolo palestinese, e la storia del cosiddetto esercito degli alberi, le decine di milioni di pini piantati a nascondere le rovine dei villaggi palestinesi distrutti e abbandonati a seguito della Nakba, incarnano due esempi concreti del colonialismo, anche “verde”, del progetto sionista.
La narrazione del “deserto che fiorisce”, di una terra desolata fino a che non vi sarebbero ritornati gli israeliani, si pone in continuità con i resoconti dei primi pellegrini cristiani in Terra Santa che scoprono un paesaggio completamente sconosciuto al proprio immaginario, estraneo al proprio bagaglio visivo, e reagiscono pensando che le popolazioni che abitano quella terra non ne hanno cura. Su queste antiche cronache si innesta la narrazione falsa e costruita ad hoc per legittimare il progetto sionista, che nega in Palestina l’esistenza di un patrimonio vegetale autoctono e diverso da quello pensato come la normalità, cioè dal paesaggio europeo. Il sionismo nato in Europa arriva nella terra che poi diventerà Israele, e nel giro di oltre un secolo pianta 250 milioni di pini con l’obiettivo di occupare e ridisegnare anche il paesaggio. Un’operazione che ha avuto conseguenze nefaste anche per Israele stesso perché, stravolgendo l’ecologia del territorio, ha causato grandi incendi che l’hanno devastato.
Le arance shamouti, create dall’agronomia palestinese dell’Ottocento, oggi sono il simbolo della grande nostalgia di un tempo perduto, ma sono anche memoria della storia economica del popolo palestinese. La crescita dell’economia degli agrumeti e la tradizione araba dell’uso parsimonioso dell’acqua – anche questa cancellata dalla falsa narrazione israeliana – portarono Jaffa a diventare uno dei porti più importanti del Mediterraneo grazie all’esportazione di arance, e fecero degli aranceti una parte integrante della città, dei suoi rapporti, dell’economia. L’esportazione degli agrumi fu inoltre fondamentale per salvare dallo scorbuto i marinai delle navi coloniali europee. Una storia che nel 1948 cambia di segno con il risignificamento delle arance che diventano “israeliane”, mentre gli abitanti palestinesi di Jaffa sono costretti a partire verso Nord e verso il Sud, verso il Libano e verso Gaza. Da quella data, che rimane il discrimine della Grande Storia, comincia la storia delle arance di Jaffa israeliane, le stesse arance che negli anni 70 sono state boicottate dai movimenti a sostegno della Palestina. È un frutto che identifica uno stato nuovo che vuole imporsi, che vuole farsi apprezzare per la sua modernità, creando un immaginario anche a partire dal colore stesso delle arance. Israele grazie alle arance, di cui ha privato il popolo palestinese impossessandosene, costituisce una sua identità nuova, basata sulla distruzione e sulla morte nascoste da alberi e da frutti usati per mettere in pratica il colonialismo più feroce.
Il rapporto con la terra: appartenenza reciproca e possibilità di liberazione
Il gelso è simbolo di nostalgia della terra, ma è anche al centro della terribile storia della Grande Fame, ossia la carestia in Libano che ha tra le sue cause remote la delocalizzazione dell’industria della seta a opera del colonialismo europeo. La massima essenza del “colonialismo botanico” viene rappresentata da questa vicenda, che vede l’industria europea delocalizzare i gelsi del Regno di Napoli in Libano, per salvare i bachi da seta dalla diffusione della malattia della pebrina. In Libano i gelsi erano presenti da secoli ma a metà Ottocento, incidendo sugli equilibri naturali ed ecosistemici del territorio, ne vengono piantati quasi 30 milioni in pochi decenni su una terra molto piccola, in una zona in cui tutto il resto (lenticchie e altre colture di cereali) viene eliminato a beneficio di una monocoltura. Un’occasione, dal punto di vista dei contadini molto poveri della comunità maronita, per migliorare le loro condizioni di vita. Ma con l’arrivo della Grande Storia con la Prima Guerra Mondiale la comunità maronita subisce le conseguenze della fine dei rapporti commerciali dell’industria della seta francese con il Libano, in una fase in cui l’Impero Ottomano si sta sfaldando e le derrate alimentari vengono requisite dalle truppe. La popolazione libanese, che ha contato sui gelsi come unica risorsa, a quel punto subisce il dramma di non aver nessun’altra fonte di sostentamento. Inizia così la Grande Fame. Il colonialismo francese ha affamato i contadini libanesi maroniti scrivendo una pagina della Storia che nessuno dimentica.
Trent’anni dopo avviene la Nakba. La prigione a cielo aperto che è stata messa in campo da Israele sulla Striscia di Gaza ha issato muri e cementificato, imponendo anche la rottura della rete, dell’identificazione e del legame tra umano e non umano. Gli ulivi sono stati rivestiti di significati che sono stati imposti. Gli uliveti sono stati distrutti anche per costruire il Muro di separazione lungo più di settecento chilometri attraverso la Cisgiordania.
Mentre Israele instaura con la terra un rapporto di proprietà e di dominio, la popolazione palestinese intrattiene con la terra un rapporto di mutua appartenenza e di interdipendenza, di cura reciproca. È un legame che non cessa, neanche quando viene negato. Quello sionista è un progetto che prevede di colpire ogni aspetto della vita, personale e pubblica, intima e collettiva, cercando di annientare qualsiasi possibilità di radicamento e riappropriazione del territorio. Ma il legame resta ed è testimoniato dalla pratica del “contrabbando della terra”: i rifugiati vogliono essere seppelliti con almeno qualche granello della propria terra sotto la nuca, perciò sacchetti di terra vengono trasportati di nascosto attraverso i confini: nemmeno la Nakba ha interrotto il rapporto con la terra di origine.
“Alberi amati, tanto amati che possono scatenare una rivoluzione”
Come avvenuto nel 2013 nel parco di Gezi a Istanbul. Gli alberi, oltre a essere narratori su un palcoscenico in cui gli attori umani e non umani sono tanti, per noi umani possono anche essere possibilità di riscatto, di resistenza e di liberazione: “…è tempo di ascoltare un’altra storia, oltre a quella così piccola e crudele, definita da noi umani con il sangue di altri umani. Troppo sangue. È tempo di imparare dagli alberi, e chiedere perdono.” Con queste frasi si conclude questo testo di spunti e riflessioni che ha una forte risonanza anche nel nostro Paese e nella nostra città dove, con le dovute scale di proporzione, l’aggressione ai territori appare propedeutica e complementare alla tendenza di autoritarismo, accentramento del potere, sottrazione di diritti e di beni comuni, corsa al riarmo, in una prospettiva che minaccia di distruggere ogni forma di vita, umana e non umana. Lo sfruttamento e la mercificazione del vivente non umano si affianca allo sfruttamento e alla reificazione del vivente umano. Non può darsi un ambientalismo che non ripudi la guerra. Per questo, anche in Italia, anche a Torino, il rispetto e la cura del vivente non umano possono costituire uno dei punti di partenza dell’opposizione al piano previsto dall’alto sui nostri territori.
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