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Sulla nostra pelle

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La prima cosa che viene alla mente dopo aver visto “Sulla mia pelle”, il film di Alessio Cremonini sulla vicenda di Stefano Cucchi, è che l’omicidio poliziesco del geometra romano ci parla di una enorme questione politica. Per quanto possa sembrare scontato, è giusto ribadirlo con forza, contro il tentativo di definirlo un semplice “caso mediatico” e la riduzione a fenomeno ”di costume” di una vicenda che è molto altro. 

Non solo perché solo l’enorme numero di proiezioni autorganizzate e il battage mediatico che hanno preceduto l’uscita del film hanno fatto capire benissimo che non stiamo parlando di un caso di cronaca nera, ma di qualcosa che ha inciso su livelli ben più profondi della società, nella sua coscienza collettiva, anche se magari come rimosso. 

Ma anche perché la vicenda di Stefano esprime la realtà che tanti in questo paese vivono: quella della marginalità, della voglia di rifuggirla, e degli ostacoli incontrati nel percorso. Il film descrive una cosa chiara ad ogni uomo o donna, fuori da ogni ipocrisia: la polizia è il primo ostacolo. Un ostacolo che si frappone non solo su chi la sfida apertamente, ma potenzialmente su chiunque. 

È questo uno dei meriti del film, e ci fa comprendere perché – anche prima di vederlo, che coda di paglia! – le associazioni e i sindacati polizieschi già strepitassero rancorosi. La polizia, tutta la polizia, è nemica di tutti coloro che non hanno alcun guadagno dalla tenuta di questo ordine. 

Non c’è retorica sulla mela marcia, nel film. Attraverso le molteplici forme in cui Stefano esprime la sua totale sfiducia nelle istituzioni, nella polizia, nel carcere, nel settore sanitario capiamo che il tratto dominante in un ragazzo vissuto in questi ultimi dieci-quindici anni è quello della mancanza di fiducia, la disillusione verso un sistema ritenuto nemico. 

E la sfiducia va in primis verso chi ti può attaccare, altro che proteggere. Anche mentre stai parlando con un amico una sera. Ovvero sempre la polizia. È un film che sancisce una realtà talmente riconosciuta da essere palese agli occhi di tutti. Stefano Cucchi non è un caso di cronaca nera. 

Stefano Cucchi è una delle tante vittime della guerra ai poveri in corso nel nostro paese. Quella che conduce a dotare di taser le forze dell’ordine, quella che necessita di battaglie mediatiche a favore di chi già gode della totale impunità. Quella che sgombera centinaia di senza casa che vivono nelle periferie dominate dalla speculazione, come si intravede in una delle prime scene del film quando Stefano cammina tra palazzi in costruzione che probabilmente non verranno completati mai. 

Non c’è, non ci può essere una polizia democratica: perché la polizia di per sé è istituto a servizio dello Stato, il quale è costruito per servire gli interessi dei grandi gruppi economici, che sono contrapposti a quelli della stragrande maggioranza della popolazione. Non a caso uno dei cori più cantati nei cortei è diventato ‘Tout le monde deteste la police’. 

E tra i grandi gruppi economici ci sono anche le mafie. Lo diciamo perché la scusa dell’essere uno spacciatore o un tossico è stata usata contro Stefano tante volte negli anni, per screditarne la memoria, per inquinare il racconto dei fatti. Ed è una cartina di tornasole dello stato di cose odierne, dove dobbiamo fare lo sforzo di dire che un giovane pusher è da includere non dentro la categoria della devianza o del crimine. Bensì in quella dello sfruttamento di classe, dove Stato e cartelli del narcotraffico costruiscono in simbiosi le condizioni affinché migliaia di persone debbano ricorrere all’economia informale per sopravvivere.

Persone costrette a vivere di illegalità da un sistema che se ne nutre per costruire una identità al suo nemico, che si rinforza attraverso la continua costruzione di un deviante che ne legittimi il ruolo repressivo. Dietro la vicenda di Stefano c’è tutto questo, la volontà di ridurre uno come tutti noi ad un criminale. 

Stefano non era un santo, come nessuno di noi lo è, e il racconto crudo del suo personaggio aiuta. Non è un personaggio positivo, né negativo. È uno come noi, stritolato da un orizzonte di merda. La scena in cui un fantastico Alessandro Borghi chiede di consegnargli della cioccolata vogliamo pensare che sia fatta apposta per rendere Stefano quello che è. Una vittima di un conflitto quotidiano che crea un nemico al fine di dare un senso al suo vuoto. 

Il grande lavoro di denuncia di Ilaria Cucchi ha permesso che una vicenda che poteva rimanere privata abbia un significato e un impatto pubblico. Il film suggerisce anche a chi, malgrado tutto, vede nello Stato e nella legalità dei pilastri della convivenza civile, che forse la vicenda è un po’ più complessa. Per questo non possiamo che consigliarne la visione. 

 

 

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pubblicato il in Culturedi redazioneTag correlati:

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