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Manfredi De Stefano

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Il 23 maggio 1957 nasce a Salerno in una famiglia operaia Manfredi De Stefano. Come molti ragazzi del sud è costretto e emigrare,e nel ’72 si trasferisce con i due fratelli e i genitori ad Arona, nel novarese. Inizia a frequentare l’istituto tecnico di Arona e ad avvicinarsi al movimento studentesco.

E’ in questi anni che inizia a farsi una preparazione teorica marxista, senza mai raggiungere un livello per lui soddisfacente. Diversi anni dopo, parafrasando una massima di Mao[*], dirà in una lettera dal carcere di sentirsi “un uomo senza cultura, senza una chiara e precisa coscienza di classe. Mi sono gonfiato col vento dell’imbecillità, dell’arroganza, dell’esasperato militarismo, ritrovandomi fradicio ai piedi dei compagni e del proletariato”. Abbandonato il movimento studentesco, inizia a frequentare la Sinistra Operaia Aronese, da cui nascerà la prima sezione di Lotta Continua di Arona. Dal ’73 al ’77 lavora alla IRE di Varese, da cui viene licenziato per assenteismo. Attraverso piccole azioni compiute coi compagni di fabbrica (incedio delle auto dei capireparto), viene a contatto con quelli che, assieme a lui, formeranno la Brigata XXVIII Marzo, che commemora col suo nome la data dell’eccidio di via fracchia a Genova. Il gruppo armato compie poche azioni nel solo 1980, infatti tutti i suoi componenti verranno catturati il 7 ottobre di quell’anno. L’azione più famosa sarà il 28 maggio l’omicidio di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera specializzato in “terrorismo di sinistra”.

Subito dopo l’arresto, uno dei sette militanti, Marco Barbone, comincerà a trattare con la magistratura la sua libertà in cambio di notevoli informazioni sull’ambiente della lotta armata, accusando i suoi compagni di solo pochi giorni prima, come se non aspettasse altro. Manfredi in un primo momento ammette le sue responsabilità davanti ai giudici. Un suo compagno, Francesco Giordano, ricorda come “dopo l’arresto Manfredi fosse poco rispettoso verso se stesso. Si lasciò colpevolizzare senza motivo.” In una lettera da San Vittore del febbraio ’82, Manfredi si pente di aver “consegnato nelle mani del nemico di classe, oltre alla mia storia personale, anche alcuni passaggi organizzativi del proletariato combattente.” De Stefano non è un delatore né un infame, ciò di cui si sente colpevole di fronte ai suoi compagni è di aver semplicemente risposto alle domande processuali. Ma troppa è la rabbia di fronte a Marco Barbone che ha venduto i propri fratelli per uscire di galera, e troppa é la paura di risultargli simile nel comportamento.

Manfredi morirà per un aneurisma il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine. Pennivendoli di ogni testata brinderanno alla morte “per uso di stupefacenti” del “killer di Tobagi”. Probabilmente a tirare un sospiro di sollievo sarà anche quel “caro compagno” di Manfredi, che diede il colpo di grazia a Tobagi, e che senza l’ombra di un giorno di galera potrà anni dopo aderire a Comunione e Liberazione e collaborare con il Giornale.

[*]”Un uomo senza cultura è come un sacco vuoto; pieno di vento ti fa paura, ma quando piove, e spesso piove sulla rivoluzione, quel sacco te lo ritrovi fradicio fra i piedi.” Mao Zedong

Guarda “Manfredi De Stefano, aronese appartenente alle BR, non ha ucciso il giornalista Walter Tobagi“:

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