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Assemblea nazionale dell’Autonomia Operaia

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Il 3 e il 4 marzo 1973 si tenne a Bologna, al circolo Serantini, la prima riunione nazionale delle “forme di Autonomia operaia organizzata”, cui parteciparono più di 400 delegati delle grandi e medie fabbriche e dei maggiori servizi pubblici. A questa riunione, che venne dopo un incontro a Firenze e successivi incontri organizzativo-politici, parteciparono l’Assemblea Autonoma dell’Alfa Romeo, della Pirelli, il Comitato di lotta della Sit-Siemens di Milano, la Assemblea Autonoma di Porto Marghera, il Comitato Operaio della Fiat-Rivalta di Torino, il Comitato Politico ENEL e il Collettivo Lavoratori e studenti del Policlinico di Roma, i Comitati Operai di Firenze e Bologna, l’USCL di Napoli, le Leghe Rosse dei contadini di Isola Capo Rizzuto e Crotone.

 

 

Fondamentale, per cercare di sintetizzare i principali nodi che vennero sviluppati durante l’assemblea, è il documento di convocazione dell’assemblea di Bologna, frutto del lavoro collettivo di un anno di incontri. La relazione introduttiva fu presentata da Vincenzo Miliucci, del Comitato politico Enel.

L’introduzione parte da un’analisi delle lotte del ’68-’69, sottolineando come “E’ dal ’68 che il rifiuto di massa da parte operaia di accettare il lavoro come terreno di scontro, rifiutandolo e basta, prende il nome di autonomia[…]. Entra in crisi il sistema produttivo italiano fondato sul mercato dell’esportazione, sui bassi costi del lavoro: entra in crisi la politica delle riforme, cioè in quel modo nuovo di programmare gli aumenti salariali in funzione degli indici di produttività e redistribuendone parte in beni sociali

Viene analizzata poi la fase di crisi strutturale in cui ci si trova, ponendo l’attenzione sulla necessità da parte del capitale di ristrutturarsi e sulla reazione sindacale a questa necessità: “La politica di CGIL – CISL – UIL si fa carico di questa esigenza con il “nuovo modo di lavorare” di cui l’elemento centrale è la voce “inquadramento unico” del contratto metalmeccanici. Essa significa intensificazione dello sfruttamento in forme nuove e la forma nuova è la polivalenza chiamata “mobilità” o “ricomposizione delle fasi”

La risposta a questa politica sindacale, viene detto, è la costituzione di comitati operai in ogni fabbrica, “La spinta più forte contro la “linea” sindacale la si costruisce proprio sul terreno dell’organizzazione alternativa del movimento di massa, come condizione per una contestazione effettiva del “merito”; senza l’organizzazione dell’autonomia, anche la critica di merito al sindacato si riduce a uno sterile moralismo, a una vuota tattica riassorbita puntualmente dall’istituzione

Vengono individuate tre linee di tendenza secondo le quali deve svilupparsi l’autonomia operaia: “a) la natura anti-capitalistica e anti-produttivistica, cioè di attacco della struttura del lavoro, degli obiettivi che il movimento si pone; b) il terreno non legalitaristico, ma legato alle necessità di lotta che richiedono gli obiettivi che ci poniamo è condizionato solo alla coscienza del nostro rapporto di forza; c) sviluppo continuo della capacità di autogestione dello scontro, in tutti i suoi aspetti, condotto direttamente dalle stesse masse sfruttate.

L’intenzione è quella di delineare le caratteristiche organizzative dell’autonomia operaia, e gli obiettivi che questa deve darsi: “L’analisi di questa crisi di lungo periodo vuole sottolineare l’impraticabilità di una linea difensiva. L’unica via possibile è quella dell’attacco. Il cammino si percorre ormai soltanto sulla base di un progetto rivoluzionario consapevole: i tempi dello scontro non precipitano, ma se ne acuiscono i livelli e se ne allarga la forbice, coinvolgendo sempre più direttamente ed ampiamente lo Stato. Lo strumento da costruire è l’organizzazione dell’autonomia operaia, cioè il progetto rivoluzionario stesso. La crisi, per le sue stesse caratteristiche, ha riposto al centro il nodo politico del salario e dell’occupazione: il problema è di non risolverlo ancora una volta nella parola d’ordine pane e lavoro. […] La semplice parola d’ordine della difesa del salario è inadeguata, difensiva, legata al livello medio della coscienza operaia, interna all’organizzazione sindacale, come la difesa del lavoro è interna alla strategia sindacale della richiesta di lavoro, dalla ripresa produttiva, di rinsaldamento del ciclo capitalistico, di uscita dalla crisi. Quando ci poniamo il compito politico di “cavalcare la crisi”, quando intendiamo uscire con la crisi dalla crisi, spingerla cioè alla rottura, sappiamo bene che il terreno che contribuiamo a consolidare è quello della recessione e sappiamo anche come su questo terreno, il terreno principale con cui dover fare i conti, è la disoccupazione di massa. Rompere il binomio pane-lavoro è intanto capire l’impossibilità di difendere l’occupazione attraverso una politica delle riforme, stendendo la mano al capitale per mettere in moto il suo volano: in questo senso innanzitutto avremo a che fare, a lungo, con la politica delle riforme. […] Fare del salario l’obiettivo centrale dell’autonomia e della ricomposizione di classe non significa rifiutare il terreno su cui si è fin qui camminato, ma andare oltre: la fabbrica, il salario come attacco all’organizzazione del lavoro in fabbrica (qualifiche), il salario come attacco ai carichi di lavoro (ritmo, cottimo, straordinario), il salario uguale non è un terreno diverso.”

Il documento termina, infine, ribadendo la centralità di una discussione sul potere: “L’organizzazione politica operaia non esiste senza coscienza dell’autonomia e questa non si dà senza la coscienza del problema del potere, se non saremo in grado di ricostruire la coscienza dl potere nella classe, non saremo in grado di intraprendere la strada per l’alternativa del potere e la lotta ristagnerà dentro gli schemi di una coscienza puramente rivendicativa.

Così l’assemblea veniva presentata su “Potere Operaio del Lunedì”, uscito a febbraio: “Ciò che è in discussione è un progetto di centralizzazione delle forme organizzate di autonomia operaia […] che verifichi intorno al programma del salario garantito l’omogeneità dell’autonomia operaia organizzata, partendo dalla pratica dei bisogni come esercizio della democrazia proletaria, e rappresenti un punto di riferimento per il movimento di classe che rifiuta il ricatto della crisi, la democrazia fondata sullo stato del lavoro.[…]
L’assemblea finì con l’approvazione di una mozione conclusiva che affermava che “l’incontro di lavoro e di verifica ha ribadito che lo sviluppo dell’autonomia operaia passa per il contrasto dell’organizzazione capitalistica del lavoro, attraverso il rifiuto della mobilità, della polivalenza, della nocività, la lotta ai licenziamenti, le 36 ore e il salario garantito anche come programma di riappropriazione sociale e di ricomposizione sul territorio tra fabbrica, scuola e quartiere. Viene stabilita la nascita di una commissione nazionale (composta da due compagni ciascuno per le situazioni di Torino, Milano, Marghera, Roma e Napoli) con i compiti di: garantire la continuità al processo di costruzione dell’autonomia operaia, reperire i finanziamenti, sollecitare il mutuo soccorso, praticare l’autodifesa, predisporre le iniziative a carattere nazionale; tra gli strumenti: la nascita di un bollettino periodico dal titolo “Bollettino degli organismi autonomi operai” (ne usciranno 2 numeri) 

 

 

 

 

 

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