La rivolta dei tessitori slesiani
All’origine della rivolta vi fu una canzone, creata dai tessitori del villaggio slesiano di Peterswalden. Il 4 giugno 1844 la polizia arresta un tessitore che cantava quest’inno sotto le finestre del costruttore Zwanziger, che pagava miseri salari e che nella regione era il simbolo dello sfruttamento dei padroni.
Nel pomeriggio i tessitori reagiscono all’arresto e saccheggiano gli uffici degli industriali e distruggono i libri dei debiti e le lettere di credito, senza commettere alcun furto. Il 5 giugno una folla di 3.000 tessitori marcia verso un villaggio vicino (Langebielau) dove si svolgono scene analoghe. Ma l’esercito interviene e spara sulla folla disarmata, uccidendo 11 operai e ferendone 24; la massa reagisce e a colpi di pietre e bastoni caccia i soldati dal villaggio.
Il 6 giugno arrivano tre compagnie di fanteria e una batteria di artiglieria che sconfiggono la ribellione. I sopravvissuti cercano rifugio tra le montagne e i boschi vicini, dove sono braccati dalle truppe: 38 tessitori vengono arrestati e condannati a pesanti pene e ai lavori forzati.
Le ripercussioni dell’avvenimento si ebbero in tutta la Slesia, in Boemia, a Praga e anche a Berlino, dove si erano succeduti scioperi e manifestazioni operaie nei mesi estivi del 1844.
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Il 7 e il 10 agosto 1844 Marx risponde sul “Vorwärts” (“Avanti”), giornale stampato a Parigi in lingua tedesca, a due articoli anonimi, firmati da un “Prussiano”, che ridimensionava di molto l’accaduto e che chiedeva di comprenderlo in nome della carità cristiana.
Per Marx invece l’insurrezione dei tessitori fu un fatto così grave che lo porterà a rompere definitivamente con la Sinistra hegeliana e con Feuerbach, che a suo parere si ponevano in maniera troppo astratta nei confronti dei problemi sociali della Prussia.
Marx ridicolizza il primo articolo dell’anonimo Prussiano, il quale aveva scritto che essendo un paese “non politico” la Prussia e il suo governo non potevano vedere la rivolta dei tessitori come un problema per tutto il paese e al massimo lo consideravano un problema locale, al pari di una siccità o di una carestia.
Viceversa Marx fa notare che anche là dove esiste una partecipazione politica più avanzata di quella tedesca, là dove esistono parlamenti e repubbliche democratiche, l’indifferenza delle istituzioni e dei partiti nei confronti dei problemi sociali è analoga, e scrive: “Nella misura in cui la borghesia inglese ammette che il pauperismo è una colpa della politica, il whig considera il tory, e il tory il whig, come la causa del pauperismo. Secondo il whig, il monopolio della grande proprietà terriera e la legislazione protezionista contro l’importazione dei cereali è la fonte principale del pauperismo. Secondo il tory, tutto il male risiede nel liberalismo, nella concorrenza, nel sistema industriale spinto troppo avanti. Nessuno dei partiti trova il motivo nella politica in generale, bensì ciascuno di essi lo trova nella politica del proprio partito; ma ambedue i partiti non si sognano neppure una riforma della società”.
La borghesia inglese, che già vede il pauperismo non come fenomeno locale ma nazionale, è ancora più indifferente di quella tedesca a proporre dei rimedi sociali per risolverlo. E se anche il pauperismo potesse essere risolto per via amministrativa o con la beneficienza -come proponeva l’anonimo Prussiano-, Marx fa notare che l’Inghilterra emanò una legislazione apposita in tal senso, sin dai tempi della regina Elisabetta, la quale però non servì a nulla; anzi ci fu qualcuno, come p.es. Malthus, il quale sostenne che proprio quella legislazione non faceva che aumentarla: “Poiché la popolazione tende incessantemente a superare i mezzi di sussistenza, la beneficienza è una pazzia, un pubblico incitamento alla miseria. Perciò lo Stato non può far altro che abbandonare la miseria al suo destino, e al massimo rendere più facile la morte dei poveri”.
La conseguenza inevitabile di questa posizione fu molto esplicita in parlamento: “il pauperismo è la miseria di cui hanno colpa gli operai stessi, per cui non lo si deve prevenire come una sfortuna, bensì piuttosto reprimere, punire come un delitto”.
La stessa cosa d’altra parte accadde in Francia, ai tempi di Napoleone, allorché -dice Marx- si pretese di eliminare l’accattonaggio col tribunale della polizia correzionale e i penitenziari.
La critica di Marx è tutta rivolta alla concezione interclassista dello Stato che ha l’anonimo Prussiano. E’ lo Stato in sé e non una certa forma di Stato ad essere incapace di risolvere i problemi sociali (p. 125). Gli Stati moderni possono ritenere la miseria una legge di natura, dovuta all’aumento sproporzionato della popolazione rispetto ai mezzi di sussistenza, possono ritenerla un effetto della cattiva volontà dei poveri, che non vogliono uscire dalla loro condizione, possono ritenerla la conseguenza dell’atteggiamento non cristiano dei ricchi, possono anche decidere, come nel periodo della Rivoluzione francese, di ghigliottinare i proprietari sospettati d’essere controrivoluzionari, ma in ogni caso gli Stati -dice Marx- non possono risolvere questo problema senza negarsi come tali.
“Lo Stato infatti poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L’amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere”. “L’impotenza è la legge di natura dell’amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno…”.
La situazione paradossale, secondo Marx, è che “quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell’odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l’espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale”.
Nel secondo articolo contro il medesimo anonimo Prussiano, Marx sostiene che “nemmeno una delle rivolte degli operai francesi e inglesi possedette un carattere così teorico e consapevole quale la rivolta dei tessitori slesiani… dove il proletariato proclama il suo antagonismo con la società della proprietà privata, in modo chiaro, tagliente, spregiudicato e possente”. E lo spiega: “Non soltanto vengono distrutte le macchine, queste rivali degli operai, ma anche i libri commerciali, i titoli di proprietà, e mentre tutti gli altri movimenti si volgevano innanzitutto contro il signore dell’industria, il nemico visibile, questo movimento si volge contemporaneamente contro il banchiere, il nemico nascosto”.
Marx inoltre considera Weitling (specie nell’opera Garanzie dell’armonia e della libertà 1) importante tanto quanto Proudhon. Proprio in virtù dell’opera di Weitling, Marx arriva ad affermare “che il proletariato tedesco è il teorico del proletariato europeo, così come il proletariato inglese ne è l’economista e il proletariato francese il politico”. E prosegue dicendo che “si deve ammettere che la Germania possiede una tanto classica vocazione per la rivoluzione sociale quanto è incapace di una rivoluzione politica”. La Germania infatti ha una borghesia debole, ma può avere un proletariato forte.
Solo che non deve lasciarsi ingannare dalla politica e dai suoi sostenitori, come appunto l’anonimo Prussiano, i quali ritengono che i problemi sociali saranno risolti quando la Germania avrà raggiunto una forte consapevolezza politica. Marx, al contrario, sostiene che “quanto più formato e generale è l’intelletto politico di un popolo, tanto più il proletariato -almeno all’inizio del movimento- consuma le sue forze in insensate, inutili sommosse soffocate nel sangue. Poiché esso pensa nella forma della politica, scorge il fondamento di tutti i mali nella volontà e tutti i mezzi per rimediarvi nella violenza e nel rovesciamento di una determinata forma statale”.
Lo Stato -secondo Marx- va eliminato, in quanto espressione di una società civile alienata, dominata dal principio della proprietà privata: quanto più questa si libera di ciò che tiene divisi i cittadini, tanto meno questi avranno bisogno dello Stato. “La comunità dalla quale l’operaio è isolato è una comunità dì ben altra realtà e di ben altra estensione che non la comunità politica. Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l’attività umana, l’umano piacere, la natura umana”.
L’uomo è più importante del cittadino, e la vita umana, sociale è più importante della vita politica . “Una rivoluzione sociale si trova dal punto di vista della totalità perché – se pure ha luogo unicamente in un distretto industriale – essa è una protesta dell’uomo contro la vita disumanizzata, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale, perché la comunità, contro la cui separazione da sé l’individuo reagisce, è la vera comunità dell’uomo, la natura umana. L’anima politica di una rivoluzione consiste al contrario nella tendenza delle classi politicamente prive di influenza a eliminare il proprio isolamento dallo Stato e dal potere. Il suo punto di vista è quello dello Stato, di una totalità astratta, che sussiste soltanto attraverso la separazione dalla vita reale, che è impensabile senza l’antagonismo organizzato tra l’idea generale e l’esistenza individuale dell’uomo. Una rivoluzione dell’anima politica perciò, organizza anche, conformemente alla natura limitata e discorde di quest’anima, una cerchia dirigente nella società a spese della società”.
Con questo Marx non vuol dire che non occorra fare una “rivoluzione politica”. Anzi lo conferma a chiare lettere, ma con una precisazione: “La rivoluzione in generale – il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti – è un atto politico. Senza rivoluzione però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa, non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico.
Inutile dire quanto siano ancora attuali queste considerazioni sul ruolo della politica.
1) Wilhelm Weitling (1808-1871), sarto e filosofo tedesco, il primo teorico tedesco del comunismo. Pur dipendente dal socialismo evangelico di F.R. de Lamennais, offrì un contributo importante alla formazione di una coscienza proletaria di classe. Nel 1836, recatosi a Parigi, aderisce alla “Lega dei Giusti”, cui avevano aderito Karl Schapper, Heinrich Bauer, Karl Pfänder e Georg Eccarius.
La “Lega dei Giusti”, sostanzialmente una società di cospiratori influenzata dalle concezioni di Blanqui e di Babeuf, fu travolta dalla sconfitta toccata alla “Società delle stagioni” il 12 maggio 1839: Schapper e Bauer dovettero, dopo lunga prigionia, abbandonare la Francia e riparare a Londra. Engels definì i limiti della “Lega” nel carattere artigiano tedesco e idealmente corporativo dei suoi esponenti: cosa che impediva dal costituirsi coscientemente in partito proletario. Si credeva fermamente nell’eguaglianza, nella fratellanza e nella giustizia e si era fermamente ignoranti in fatto di economia politica.
Weitling pubblica L’umanità com’è e come dovrebbe essere (1838). Nel 1839 si rifugia in Svizzera. Pubblica Garanzie dell’armonia e della libertà (1842) e Il vangelo di un povero peccatore (1843). Nel 1844, espulso dalla Svizzera, viene consegnato al governo prussiano e condannato a dieci mesi di carcere per attività sovversiva ed empietà. Emigra quindi in Inghilterra dove collabora per qualche tempo con K. Marx e F. Engels; si stabilisce infine a New York dove muore in miseria.
Fu incluso da Marx ed Engels – sebbene non giungessero a citarlo espressamente nel Manifesto – nel gruppo dei “comunisti egualitari” dominato dalle idee di Babeuf. Il passo del Manifesto in cui si parla del sottoproletariato può anche essere interpretato come una velata allusione a Weitling, tant’è vero che sia questi che Bakunin vedevano nel Lumpenproletariat l’elemento più leale e sicuro della rivoluzione. Weitling non ammetteva la necessità, nel cammino verso il comunismo, di un periodo di transizione nel quale la borghesia agisca come classe dirigente, cosa che lo distanziò da Marx. Secondo lui, il modo migliore per instaurare un diverso ordine sociale consisteva nel portare il disordine sociale esistente a un livello tale da far esaurire la pazienza del popolo.
Benché Marx salutasse con entusiasmo l’apparizione, nel 1842, del libro di Weitling Garanzie dell’armonia e della libertà, ruppe definitivamente con lui il 30 marzo 1846, quasi un anno prima della fondazione della “Lega dei comunisti”.
Guarda “Die schlesischen Weber“:
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