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Biennio rosso e occupazione fabbriche

31 agosto 1920

Il Biennio Rosso del 1919-1920 fu uno spartiacque fondamentale per la storia dei comunisti italiani.

Costituì il momento in cui la componente rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano prese atto dell’incompatibilità con un’organizzazione politica che negava la funzione propria di un partito di avanguardia della classe operaia, fino ad arrivare alla scissione di Livorno del gennaio del 1921 e alla nascita del PCd’I.

Le ragioni alla base della rottura interna al PSI risiedettero nella straordinaria stagione di lotta, che si aprì dopo il primo conflitto imperialistico, e nell’incapacità da parte dei socialisti di dare una direzione alla classe proletaria.

La dirigenza del partito era massimalista, ossia propugnava il “programma massimo” della collettivizzazione dei mezzi di produzione, da ottenere con la rivoluzione. Alla fraseologia rivoluzionaria, tuttavia, non fece seguito un’azione concreta di rottura con il riformismo, come richiesto dalla frazione astensionista di Amadeo Bordiga e dal gruppo de “L’Ordine Nuovo” di Gramsci, e di preparazione della classe operaia allo scontro con la borghesia.

Le contraddizioni politiche del PSI, il suo essere un “circo Barnum” di correnti che si poneva alla coda delle masse, si presenteranno con forza nel 1920, l’anno che vide il massimo livello di conflitto tra gli operai e il padronato. La grande borghesia doveva difendere i propri margini di profitto durante la riconversione post-bellica ed era incalzata dall’organizzazione operaia nelle fabbriche: le commissioni interne e i Consigli di fabbrica, che costituivano organismi diretti in prima persona dai lavoratori.

Nel 1920, dopo numerose e dure vertenze, tra cui lo “sciopero delle lancette” nella primavera dello stesso anno, riesplose lo scontro tra la classe operaia e gli industriali in occasione del rinnovo del contratto e l’occupazione delle fabbriche.

In estate la FIOM aveva presentato una serie di rivendicazioni come aumenti salariali, unificazione delle tariffe di cottimo e un sistema d’indennità contro il caroviveri. La controparte rifiutò di aprire una trattativa. In gioco non c’erano solo interessi specifici sul piano economico, ma la stessa dinamica di potere data dai rapporti di produzione capitalistici. I padroni erano determinati a mettere fine all’autonomia della classe operaia sviluppatasi dentro le fabbriche.

Dal 20 agosto la Federazione Italiana Operai Metallurgici rispose con una strategia ostruzionista dentro gli stabilimenti, per indebolire la produzione. Dal 31 agosto 1920 il padronato contrattaccò con la serrata, ma a quel punto gli operai passarono all’occupazione delle fabbriche.

Dai primi giorni di settembre gli stabilimenti furono presidiati armi in pugno, si formarono nuclei di Guardie Rosse, la lotta si estese alle campagne e ad altre categorie, come quella dei ferrovieri, ripresentando una situazione di mobilitazione di massa analoga a quella del ’19. In risposta la borghesia chiese al governo Giolitti di intervenire militarmente contro le fabbriche occupate, animata dalla volontà di definire una volta per tutte i rapporti di forza tra le classi.

L’esecutivo italiano, consapevole della forza del movimento operaio e della difficoltà dell’apparato dello Stato di gestire un movimento che poteva estendersi con caratteri insurrezionali, preferì adottare una strategia di logoramento e mediazione, sapendo di potere contare sull’orientamento riformista dei sindacati e sulla paralisi del PSI.

Ciò è quanto si verificò il 10 e l’11 settembre, quando si riunì la direzione nazionale della Confederazione Generale del Lavoro insieme a quella socialista. La discussione fu il punto di svolta drammatico di tutta la vicenda e mise in luce l’inconsistenza del massimalismo.

Il dibattito vide principalmente due posizioni distinte, da un lato la mozione della Camera del Lavoro milanese a firma Schiavello-Bucco, secondo cui il Partito Socialista doveva prendere la direzione del movimento operaio e porre la questione della conquista del potere politico per la socializzazione dei mezzi di produzione. Passò, invece, la linea riformista promossa dal segretario D’Aragona, seppure con leggerissimo scarto.

La dirigenza sindacale, incalzata dalla radicalità della vertenza in atto e dal tema del potere operaio, non poté non assumere le parole d’ordine del controllo sociale sulla produzione, ma le declinò nel senso di una riforma del rapporto tra capitale e lavoro, piuttosto che un suo rovesciamento. L’intento, dunque, era quello di riportare lo scontro di classe dentro i perimetri del progressismo riformista, rigettare la proposta di generalizzare l’occupazione delle fabbriche ed escludere il tema della conquista del potere politico.

Di fronte all’isolamento politico e alla mancanza del sostegno sindacale il movimento operaio perse determinazione e la FIOM finì per sedersi al tavolo delle trattative con il padronato. Il controllo collettivo sulla produzione non si realizzò mai, tantomeno fu il preludio alla socializzazione dei mezzi di produzione come sbandierato retoricamente dai riformisti.

Ballata dell’ostruzionismo

(Un testo di Pino Masi ricavato da documenti risalenti al 1920)

Forza compagni, per battere il padrone

bisogna colpire la sua produzione

così si vincerà.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

Anche restando dentro un’officina

possiamo mandare il padrone in rovina

è lui che pagherà.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

Per le riparazioni faremo l’impossibile

per impiegare più tempo possibile

è tempo del padron.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

E quando un capo comincia a esagerare

ci rifiutiamo tutti di obbedire

finché non se ne va.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

Se il sindacato, strumento del padrone

vuol contrattare la nostra condizione

noi gli si impedirà.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

Quando un crumiro vuole lavorare

col corteo interno lo facciamo sloggiare

che fuga che farà!

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

E se i ritmi vogliono aumentare

noi s’allenta un bullone per farli rallentare

e la si spunterà.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

E se un compagno viene trasferito

si blocca la catena e non si muove un dito

finché non tornerà.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

Se licenzian qualcuno per questi motivi

si presenti ugualmente al lavoro fra i primi

noi lo faremo entrar.

Ostruzionismo e sabotaggio

sono le armi di chi ha più coraggio.

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pubblicato il in Storia di Classedi redazioneTag correlati:

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