Frammenti di vita di un comunista di Luciano Mioni
3 agosto 1973
La storia dei Collettivi Politici Veneti per il potere operaio (CPV) è certamente quella ricostruita da Giacomo, Piero e Donato nei due libri editi da Derive Approdi e il lettore non ha difficoltà a riconoscervi – ora apertamente, ora sottotraccia – la mia storia politica lungo quel decennio. I libri (Storia dei Collettivi Politici Veneti per il potere operaio e L’Autonomia operaia vicentina) spiegano bene quali erano i contenuti politici e gli snodi attorno a cui tra il ’73 e il ’74, a partire cioè dallo spartiacque della fine di Potere Operaio, si è creata questa esperienza organizzativa; preferirei allora parlare di quegli episodi vissuti in prima persona che considero importanti perché hanno prodotto a suo tempo ragionamenti – pensiero, direbbe qualcuno – e svolte. Altrimenti, di quali res gestae parliamo?
Dopo il convegno di Rosolina che sancisce la fine di Potere Operaio come gruppo extraparlamentare con una presenza e rilevanza nazionale, noi giovani militanti padovani sentiamo l’urgenza di affrontare in proprio il nodo dell’organizzazione politica da costruire in una ottica rivoluzionaria. Questo percorso di riflessione avviene nel contesto politico generale degli anni a cavallo tra il ‘73 ed il ‘74 caratterizzati sul piano internazionale da una grande ripresa dell’iniziativa capitalista a guida statunitense (vedi il golpe fascista in Cile) mentre su quello nazionale assistiamo al tragico ripetersi di episodi stragisti realizzati dai “nostri” servizi segreti (strage alla questura di Milano, strage di Peteano, di Brescia) e a progetti di colpo di stato (golpe Borghese nel ’70 , golpe bianco di E. Sogno nel ’74); sul piano economico la crisi del petrolio viene lanciata in chiave antioperaia con un aumento generalizzato dei prezzi dei beni di largo consumo oltre ovviamente di benzina e trasporti. È in questa situazione che alcuni di noi ex medi del comitato interistituto cominciarono a riflettere sul problema dell’organizzazione rivoluzionaria e su quali fossero gli strumenti di cui dotarsi per concretizzare un processo rivoluzionario. Il problema della violenza di massa, della lotta armata per la rivoluzione anticapitalista, di quale fosse la forma opportuna per gli anni a venire, attraversava tutte le organizzazioni extraparlamentari dell’epoca, i movimenti di massa e aveva tante esemplificazioni teorico- pratiche a livello internazionale e nazionale (la guerriglia urbana dei Tupamaros in Uruguay, la resistenza armata del MIR cileno, la guerra di popolo dei Vietnamiti, le prime azioni di propaganda armata delle BR in Italia, la RAF in Germania, l’ETA in Spagna, l’IRA in Irlanda, il Black Panther Party for Self-Defencee e il Weather Underground Organization negli Stati Uniti). Nella sostanza il problema era all’ordine del giorno, storicamente e politicamente maturo e non eludibile. Così in forma autonoma cominciammo a pensare quale fosse un modello praticabile nella nostra realtà sociale.
Abbiamo dato un significato al concetto di uso della forza partendo dall’autodifesa; è da qui che siamo arrivati a capire come indirizzare/governare la violenza di massa in situazioni di piazza e che forza e strumenti usare per conseguire gli obiettivi evidenziati in una campagna politica. Pian piano nella pratica abbiamo cominciato a dotarci di strumenti minimali che ne facilitassero esemplificazione e verifica di tenuta rispetto ai movimenti sociali, al controllo e alla repressione delle forze di polizia dotandoci ad esempio di apparecchiature fotografiche e di compagni competenti in materia per costruire un archivio sui fascisti padovani che nella quotidianità attaccavano con uno squadrismo violento e talvolta armato situazioni di lotta nelle scuole e all’università. Il prodotto di tutto questo lavorio è stata la pubblicazione da parte nostra del “Piccolo manuale di guerriglia urbana” del marxista rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella, che abbiamo divulgato con il nome di “documento blu”, dal colore della copertina scelta per l’occasione. Così con i vari Carlo, Piero, Vincenzo, Rudy, Susy, Beppe e qualche altro si realizzerà una piccola comunità di discussione e sperimentazione del percorso politico complessivo che poi nei Collettivi troverà la sua maturità. Non tutti i compagni di questa esperienza continueranno un percorso di militanza politica complessiva, come si diceva allora. Comunque fu un accumulo di esperienza che funzionando per tentativi sul campo fece imparare dagli errori.”
Penso alle giornate di mobilitazione antifascista del ’75 contro Covelli e Almirante. Bene, perché per me sono importanti? Ma perché è da lì che i Collettivi impareranno a gestire le piazze negli anni successivi; sì, con una modalità diversa da quella praticata allora a livello nazionale. Ce lo ricordiamo tutti: grandi cortei di massa e scontro frontale con la polizia. Il 3 giugno di quell’anno organizzammo assieme agli altri gruppi della sinistra extraparlamentare di Padova una mobilitazione antifascista per impedire ad Almirante di parlare. Si era in circa quattrocento in Piazza Insurrezione, intruppati sotto i portici a un lato della piazza, organizzati su più file; di fronte, a centro piazza, la polizia. A un certo punto, nel mentre la tensione sale, è il nostro responsabile del servizio d’ordine a urlare provocatoriamente alla polizia di sciogliersi, quasi si trattasse di un confronto campale tra la falange politica di Sparta e quella obliqua di Tebe a Leuttra. La consuetudine non contemplava lo scioglimento, piuttosto il cozzo, l’urto violento, lo scontro frontale da cui la polizia era sempre uscita vittoriosa. Anche quella volta. La sua carica fu repentina e a freddo, senza che avessimo debordato di un centimetro dal perimetro del portico e senza che avessimo agitato bastoni e lanciato sampietrini, esibito armi. Certo, come primo gesto di difesa volarono dopo delle molotov, e parecchie, ma la “boccia”, come la chiamavamo, era sempre stata uno strumento di autodifesa mentre da un anno con la legge Reale era diventata un’arma da guerra. Nel corso della prima carica della Celere c’è l’arresto di Michele Spadafina, un nostro compagno, per flagranza di reato, il processo per direttissima e la sua condanna a tre anni furono il prezzo salatissimo che pagammo per aver sottovalutato il cambiamento di passo che nel frattempo era avvenuto con quella legge.
A dimostrazione che la gestione dell’ordine pubblico stava decisamente cambiando, devo ricordare le due manifestazioni di Milano e Roma organizzate da lì a poco secondo tradizione; unica tragica, insostenibile novità, i morti ammazzati dalla polizia. Fortunatamente come Collettivi non abbiamo vissuto questo dramma perché fu dopo quella giornata di lotta antifascista, protrattasi poi fino a tarda notte, che decidemmo un cambiamento di rotta nella nostra gestione della piazza. Se negli anni a venire non lasciammo sul terreno compagni feriti o ammazzati fu perché fummo capaci di voltare pagina senza rinunciare all’uso della forza. I nostri cortei, quelli indetti da noi in condizioni per così dire di normalità, dovevano essere difesi e nessun compagno doveva sentirsi solo o abbandonato durante una nostra manifestazione.
E questo valeva anche per tutti coloro che per solidarietà attraversavano il corteo. Quando invece la posta in gioco era più alta e c’era da mettere in conto anche lo scontro, dovevamo essere noi a decidere luogo, modalità e tempi. Quanto accaduto all’Arcella nel giugno del ’76 rientra in quest’ordine di idee. Ne ha già parlato Piero per cui ne riassumo brevemente i tratti per me più caratteristici perché esemplari di un nuovo modus operandi fondato sul controllo territoriale, sull’uso della forza da praticarvi, di quale tipo e quando. Con questa scelta avevamo come Collettivi il controllo della situazione – per quanto fosse possibile prevedere tutte le varianti – nonché l’attrezzatura per non entrare mai in contatto diretto con carabinieri e polizia. Potevamo così evitare tutta una serie di imprevisti che altrimenti avrebbero compromesso l’incolumità dei compagni e soprattutto violenza inutile sia in autodifesa che in attacco garantendo nel contempo il successo dell’obiettivo, nel caso dell’Arcella la sede storica dell’MSI, la pizzeria frequentata abitualmente dai fasci, l’abitazione dello stragista Massimiliano Facchini. E tutto questo bloccando a tempo debito il cavalcavia e tutte le vie d’accesso al quartiere. Vorrei ricordare che nessun compagno, ed eravamo qualche centinaio, fu fermato o individuato sicché l’obiettivo strategico di impedire il programmato comizio di G. Almirante per l’indomani fu raggiunto.
Si trattò di un’operazione pulita che sarà riproposta come metodologia negli anni successivi. Gli stessi compagni di movimento a Padova e in Veneto ne trarranno vantaggio; sapevano che partecipando a un corteo o a una manifestazione dei Collettivi non avrebbero avuto brutte sorprese. Anche in questo caso la decisione di procedere secondo regole ben precise non era stata presa a tavolino da pochi compagni e imposta dall’alto a tutti gli altri. Ne parlano anche Giacomo e Piero; era vero che la nostra pratica politica è stata tutta all’insegna di uno sperimentalismo coraggioso, che quello che si pensava necessitava di verifiche che impegnavano tutti, nessuno escluso. Chiamiamolo pure pragmatismo, realismo e quant’altro, è certo che esso ha informato il nostro metodo di lavoro politico permettendoci di attraversare il passaggio storico all’operaio sociale con cautela e col dovuto senso della realtà.
Centralità del territorio e uso ponderato della forza necessaria per agirlo erano riassunti nell’espressione «zone territoriali omogenee». Se ne parla in un documento d’organizzazione ripubblicato nel libro sui CPV; per quanto mi riguarda tornerei a insistere su quell’aggettivo omogeneo, al plurale perché i territori dove eravamo presenti erano più di uno e diversi tra loro quanto a struttura economica, composizione sociale e demografica, mentalità e chi più ne ha più ne metta. Avremmo voluto attraversare tutta questa diversità, esplorarla in lungo e in largo, inchiestarla e agirla ma purtroppo non ne abbiamo avuto il tempo. Se ne avessimo avuto, la Lega avrebbe avuto molti problemi ad affermarsi perché le avremmo tolto il terreno da sotto i piedi radicalizzando, che so, l’intervento sul lavoro decentrato, combattendo a fondo il lavoro nero, intervenendo su quella che nel nostro documento avevamo chiamato “l’intera macchina sociale umana, ideologica, preposta al controllo e al mantenimento della stabilità e della pace tra le classi”. L’aggettivo allude evidentemente a un percorso che una soggettività non calata dall’alto ma in sinergia con le realtà sociali di quel territorio dovrebbe essere in grado di forzare.
È questa dinamica che spiega l’ingresso dei Collettivi Politici in Radio Sherwood e l’attenzione costante nel campo dell’informazione, un processo che si conquisterà una vera egemonia culturale nei territori padovani e nel Veneto.”
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