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Julius Fucik

8 settembre 1943

JULIUS FUCIK nacque il 23 febbraio 1903 a Smikhov, uno dei più vecchi sobborghi industriali di Praga. Suo padre era operaio metallurgico. A scuola il ragazzo Fucik dimostrò attitudini non comuni, una grande passione per la lettura e soprattutto per la storia. Nel 1921 il figlio dell’operaio di Smikhov si iscriveva alla Facoltà di filosofia dell’Università di Praga.

Fucik iniziò allora lo studio delle scienze sociali e dei classici del marxismo. La conoscenza teorica, unendosi alla coscienza di classe che gli veniva dall’origine operaia, lo portò ben presto ad aderire al movimento socialista, e ad entrare nell’organizzazione studentesca comunista, di cui non tardò a diventare uno dei dirigenti.

Per vivere, intanto, lo studente Fucik doveva fare i più vari mestieri: fattorino, allenatore sportivo, muratore, terrazziere, e perfino uomo-sandwich. Più di una volta egli si trovò in condizione di soffrire la fame. Ma né le umili occupazioni alle quali era costretto per vivere, né la miseria più dura, gli impedirono di continuare a applicarsi allo studio, e di svolgere una intensa attività di militante rivoluzionario, come organizzatore, oratore di comizi, giornalista, nelle condizioni sempre più difficili che la classe dominante cecoslovacca andava creando al movimento operaio.

Le sue prove brillanti e polemiche di giornalista gli valsero, nel 1930, un primo soggiorno nell’Unione Sovietica, con una delegazione di operai cèchi che gli operai della Ghirghisia sovietica avevano invitato a visitare l’U.R.S.S. Il viaggio, iniziatosi in maniera semiclandestina, per il divieto opposto dalle autorità cecoslovacche, durò sei mesi. nel corso dei quali Fucik e i suoi compagni visitarono Mosca, Leningrado, il bacino del Volga, l’Ucraina, il basso Don, il Caucaso, il Tagikistan, il Kazakistan e parecchi altri luoghi.

Di ritorno a Praga, noncurante delle minacce della polizia, Fucik tenne in un anno oltre un centinaio di conferenze, con le quali documentò al pubblico cèco quanto il Paese dei Soviet andava realizzando nel campo sociale e della cultura. Contemporaneamente egli raccoglieva le sue impressioni di viaggio in un grosso volume, “Il paese dove il domani è già ieri”, che poté essere compiuto e pubblicato solo nel 1931, perché Fucik, arrestato in occasione d’una riunione politica, dovette scontare alcuni mesi di prigione.

Nello stesso periodo Fucik divenne redattore del Rude Pravo, l’organo quotidiano del partito comunista ceco-slovacco, e attivo collaboratore della rivista Levá fronta, intorno alla quale si raggruppava un’ampia cerchia di intellettuali di sinistra.

Ripetutamente arrestato per i suoi attacchi giornalistici ai gruppi privilegiati, Fucik dovette spesso nascondersi e camuffarsi per sfuggire alla polizia. Nel 1934, minacciato di un nuovo arresto, tornò nell’Unione Sovietica e vi rimase fino al 1936, come corrispondente del Rude Pravo. Le sue corrispondenze dall’U.R.S.S. fecero di lui uno dei giornalisti più popolari in Cecoslovacchia.

Quando Fucik rientrò in patria, la crisi dello Stato borghese cecoslovacco, maldestramente manovrato dagli imperialisti francesi ed inglesi come una pedina nel gioco antisovietico, era ormai prossima. La Cecoslovacchia stava per essere abbandonata a Hitler.

Nell’imminenza dell’accordo di Monaco, Fucik, in una serie di articoli, si adoperò a denunciare all’opinione pubblica cèca le mire aggressive della Germania nazista e la politica pro-hitleriana dei governi di Parigi e di Londra. Firmato l’ignobile accordo, soppressa in Cecoslovacchia la stampa comunista, entrati i nazisti a Praga nel marzo del 1939, cominciate le persecuzioni e gli arresti, Fucik continuò la sua lotta di militante democratico nella clandestinità.

Continuamente braccato dalla Gestapo, egli organizzò insieme con i compagni tutta una rete di giornali e riviste clandestine, che furono un modello del genere, per abbondanza e tempestività di informazioni e per accuratezza tipografica. Al principio del 1941 la sua attività coraggiosa e intelligente di organizzatore lo fece nominare membro del Comitato Centrale del partito Comunista cèco.

Le rischiose pesanti responsabilità di partito non lo distoglievano però dal portare avanti uno studio, che da parecchio tempo aveva in animo, su alcuni aspetti della storia della letteratura cèca. Del resto quello studio era anch’esso un lavoro di partito, un modo di dare armi alla lotta della classe operaia cecoslovacca. Fucik infatti si proponeva di mettere in luce quegli elementi della storia letteraria nazionale che la critica borghese aveva ignorato o sottovalutato, le tradizioni democratiche dei migliori scrittori cèchi, l’importanza di alcuni scrittori popolari che la storiografia delle classi privilegiate aveva preferito passare sotto silenzio. Con questo lavoro egli preparava al proletariato del suo Paese preziosi strumenti filologici per assumere l’eredità culturale nazionale, per divenire classe dirigente anche nel campo della cultura.

Fucik cadde nelle mani dei nazisti nella primavera del 1942. La cronaca della sua prigionia nel carcere di Pankrac, a Praga, delle torture feroci a cui fu sottoposto, è raccontata in questo diario ” scritto sotto la forca “, che l’eroico combattente poté tenere e far uscire dalle mura della cella grazie all’organizzazione clandestina comunista la quale tesseva infaticabilmente le proprie fila anche all’interno di Pankrac.

Trasportato in Germania, Fucik comparve dinanzi al tribunale nazista di Berlino il 25 agosto del 1943. Ai giudici dichiarò: ” So che sarò condannato e che la mia vita sta per finire, ma so anche di aver fatto tutto il possibile per la nostra vittoria. Sono certo che vinceremo. Noi morremo, ma altri verranno e continueranno la nostra opera”.

Tornando alla prigione dopo la condanna a morte chiese alla compagna Lida Placha che cantasse qualcosa. Lida intonò la Partigiana, e tutti cantarono in coro. Lida e Julius cantavano in cèco, e i comunisti viennesi che erano con loro, anch’essi condannati a morte, cantavano in tedesco. Poi cantarono tutti l’Internazionale.

Colui che fu suo compagno di cella nei giorni precedenti all’esecuzione ha riferito: “Io ero ridotto in uno stato di inebetimento completo. Non riuscivo a pensare più a nulla, nemmeno alla mia famiglia. Fucik, invece, non faceva altro che cantare o raccontare qualcosa. Si comportava come se avesse ancora dinanzi una lunga vita da vivere”.

Il 4 settembre una bomba cadde sulla prigione, tutti i detenuti furono fatti uscire in cortile, e Fucik si incontrò con alcuni dei suoi compagni cèchi. Incatenato ai polsi ed ai piedi, in mezzo al cortile, parlò loro a gran voce per scuotere gli animi dall’abbattimento in cui molti erano caduti. Parlò della forza morale dei cittadini sovietici, della sconfitta che i nazisti avevano subito davanti a Mosca ed a Stalingrado, disse che l’U.R.S.S. non avrebbe deposto le armi finché il fascismo non fosse annientato:

“Se a occidente venisse aperto un secondo fronte, la guerra finirebbe certamente prima. Alcuni di noi, forse, avrebbero la speranza di non morire. Ma ricordiamoci che siamo soldati i quali combattono nelle retrovie del nemico. Se dobbiamo morire, moriamo con la convinzione che vinceremo “.

L’8 settembre 1943 Julius Fucik veniva impiccato.

Nella letteratura di testimonianze, di memorie, di cronache e di diari, uscita dalla Resistenza contro il fascismo, questo “Scritto sotto la forca” di Fucik resterà un esempio unico. Gli uomini passati per le prigioni e le camere di tortura della Gestapo e delle Brigate Nere, per i campi di concentramento, ci hanno reso conto di quella tremenda esperienza a libertà riacquistata, quando le mura del carcere o le barriere di filo spinato si erano ormai riaperte dinanzi a loro. Oppure, se da qualcuno. dei tanti per cui prima della liberazione venne la morte, dei tanti che non sono sopravvissuti, ci è giunto un messaggio, uno scritto, è stato un messaggio di poche righe, un testamento di poche parole, splendente spesso di tutta la forza d’animo e di tutta la lucidità che può avere un uomo, ma suggellato dallo spietato laconismo che è proprio dell’uomo in punto di morte. Fucik è l’unico che, al cospetto della morte, già crudelmente lacerato dalle torture, sia riuscito a discorrerci a parole spiegate, ad esprimerci la sua esperienza di moribondo per pagine e pagine, per migliaia e migliaia di righe, a dichiararci la fiducia che lo sostiene, in maniera così diffusa e circostanziata da cancellare l’ombra della morte completamente e lasciarci l’immagine di una vitalità appassionata e trionfante.

Per serbare questa straordinaria condizione di equilibrio e di serenità là dove tutto si adopera a confondere l’uomo e precipitarlo nell’angoscia, Fucik non ha bisogno di reprimere nulla di sé, di imporre il silenzio a nessuno dei suoi affetti, neppure i più intimi e segreti. Le pagine in cui parla della moglie, della sua Gusta, dell’amore che li ha resi completi l’uno nell’altra e felici, sono la testimonianza di un animo il quale non si nasconde affatto il valore inestimabile di ciò che la morte gli toglie. Ma in quello stesso animo gli affetti individuali, per quanto intensi e esigenti, non sono più divisi dall’impegno sociale, l’amore per una sola donna è tutt’uno con l’amore per tutti gli uomini, con l’amore della libertà e della giustizia. Fucik non ha nulla da temere dall’immagine dell’amata, dal ricordo della sua tenerezza, della sua carezza, del suo respiro: non ha da temere che il dolce nome di Gusta gli tolga anche solo un poco di forza sotto il bastone dei torturatori e dinanzi alla forca. Quel nome al contrario, e naturalmente, lo ricondurrà al nome della patria, al nome dell’umanità oppressa, della dignità umana calpestata, che occorre difendere e riaffermare, anche a costo di sofferenze, ed anche accettando la morte.

Di dove ha tratto Fucik una così esemplare coesione fra il suo fervido e sensibile cuore di individuo e la sua intelligenza, la sua volontà di cittadino, di uomo in mezzo agli altri uomini? È’ forse il risultato soltanto di una superiore integrità di carattere, di una personalità fortunata e generosa? No, Fucik non sarebbe stato quale questo diario ce lo presenta, se il suo cuore e la sua volontà, le sue doti naturali, non fossero state formate dalla classe operaia, non avessero trovato la propria unità ed il proprio mordente attraverso l’ideologia e la pratica del partito della classe operaia, non si fossero sentite fino all’ultimo sostenute e guidate dal suo immenso e cosciente organismo. Fucik non è mai solo: anche quando è più isolato e indifeso, fra le mani dei carnefici che dentro le quattro spoglie pareti della camera di tortura infieriscono sopra il suo corpo, egli avverte intorno a sé il grande esercito dei compagni che gli comunica energia ed a cui deve rendere conto. E nello scrivere clandestinamente, su minuscoli frammenti di carta, le sue note di prigioniero, a nulla egli pensa meno che a farne delle meditazioni con sé stesso, delle confessioni solitarie, un bilancio spirituale. ” Scritto sotto la forca” fu concepito come una relazione di esperienze da trasmettere ai compagni, uno strumento per l’azione: da consegnare a coloro che avrebbero continuato la lotta.

Da ciò deriva che nel diario di Fucik manchi completamente, come ho già accennato, quella morbida compiacenza, quel mal dissimulato indugiarsi a compatire la propria sorte, che negli altri documenti del genere capita invece spesso di scoprire. Da ciò deriva il vigore immediato e operante del diario di Fucik, il fatto che nessuna parola in esso suoni retorica. Quando, al momento di avviarsi verso la morte, il figlio dell’operaio meccanico di Smikhov scrive l’ultima riga delle sue note, ” Uomini…vegliate! “, egli sa di non adoperare una formula, perché gli uomini a cui il suo saluto si rivolge ben conoscono a che cosa debbano vegliare, e come, con quali mezzi, con quali metodi, rendere attiva ed efficiente la propria veglia. Anche per noi il saluto di Fucik, tutto il suo diario, valgono come un incitamento concreto all’azione, un elemento di guida in questa lotta che vuol costruire nel nostro tempo la giustizia per cui Fucik e tanti altri hanno dato la vita.

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