Operai e capitale: 50 anni
Pubblichiamo qui due contributi ad una giornata di studio su Operai e capitale nel cinquantenario della sua pubblicazione. Il seminario si è tenuto all’Università Paris X Nanterre l’11 giugno 2016. Nella discussione, oltre ad Andrea Cavazzini, Fabrizio Carlino, Yaan Moulier Boutang, Etienne Balibar, Morgane Mertueil, sono intervenuti Toni Negri e con una lettera Mario Tronti. Qui pubblichiamo il testo di Toni Negri e la lettera di Mario Tronti. Indicano due vie di lettura nel corso di un cinquantennio – due vie per interpretare il presente (EN).
Che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx
di Toni Negri.
Nel 1966, nella sua prima edizione, Operai e capitale termina con l’impegno a studiare “che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx” (Operai e capitale, Einaudi, Torino; 1966, p.263). Il postscriptum del 1970 alla seconda edizione di Operai e capitale, analizza la classe operaia nel New Deal e ne descrive le trasformazioni della composizione tecnica (fordismo) e della composizione politica (il sindacalismo ed il riformismo dal New Deal allo Stato del welfare, appunto). Tronti non riconosce tuttavia, per la classe operaia, una differenza strutturale di composizione tecnica e politica fra fordismo e anni ‘70. Non vi è modificazione dei processi lavorativi, taylorismo e keynesismo restano egemoni ed i rapporti politici di classe tuttora dominati dallo Stato-piano. Tra la prima edizione e la seconda di Operai e capitale c’è stato tuttavia il ‘68: a Tronti non sembrava però che fosse avvenuta gran cosa. La classe operaia nel ‘68 e seguenti (in particolare “l’autunno caldo” italiano) è ancora tutta dentro fordismo e New Deal. Affermandolo, Tronti aveva, a mio parere, insieme ragione e torto.
In superficie la situazione sembrava eguale, il “processo lavorativo” non era mutato. Ma, guardando più a fondo, c’era una cosa che invece stava mutando e della quale anche il ‘68 era un “sintomo”. Mutava il “rapporto di capitale”, la forma dei processi produttivi, il “modo di produzione”. Il ‘68 aveva dato inizio a questa trasformazione. Ed aveva ancora ragione Tronti quando, con molta circospezione, sospettava, nel postscriptum del 1970 che qui stesse comunque rivelandosi una nuova fase, al termine della lunga epoca del fordismo. Mentre in quella fordista, operai e capitale si erano scontrati dentro il capitale, ora invece si dava una nuova condizione: classe operaia e capitale si scontravano dentro la classe operaia. Tronti proponeva di studiare questo passaggio. Era una corretta intuizione. Se si metteva da parte l’illusione, da taluni coltivata, che quel “dentro la classe operaia” significasse “dentro il Partito”, bisognava riconoscere che, nel nuovo rapporto antagonista seguito al ‘68, il capitale pagava il superamento del fordismo e la difficile vittoria riportata sulla classe operaia fordista, con l’obbligo a stabilire l’asse del suo comando “dentro la classe operaia” e a ristrutturare il proprio progetto di accumulazione proprio lì dentro – subendo con ciò un radicale mutamento di struttura. “Dentro la classe operaia”, e cioè riconoscendo – il capitale stesso – che “il principio è la lotta di classe operaia” e che “a livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione” (Operai e capitale, op.cit., p. 89) – e cioè, infine, il capitale doveva comprendere che la sua stessa composizione tecnica (il concetto è quello marxiano di “composizione organica” del capitale) andava modificata per poter funzionare (id est, produrre e comandare) su una nuova composizione politica della classe operaia. C’era stato di mezzo un bel trambusto: la Trilaterale, per esempio, lo chiamava ’68, altri non lo chiamavano così. Di fatto una mutazione radicale era imposta al capitale. Essa riguardava lo spazio produttivo (cambiava il luogo della produzione) e la dimensione della temporalità (si trasformava radicalmente la “giornata lavorativa”).
Si trattava davvero di un “mutamento di paradigma” del modello di sfruttamento: esso era stato prodotto dalla vittoria operaia dentro/contro il fordismo. Che il paradigma cui quella vittoria aveva introdotto, fosse nuovo, lo mostrava il fatto che l’antagonismo nel “rapporto di capitale” si presentava – meglio, si riapriva – in forme nuove, da sperimentare e dentro una nuova prospettiva di lotta per l’organizzazione, sia da parte capitalista sia da parte operaia.
Ci chiediamo ora se Operai e capitale offrisse strumenti per descrivere questo nuovo paradigma strutturale. A noi sembra di sì, a noi sembra che il saggio “Marx – forza lavoro – classe operaia” sia, da questo punto di vista, fondatore. A partire di lì, ci è stato permesso di sviluppare un’analisi dello sviluppo capitalistico dopo il ‘68, fortemente dinamica perché insistente sui processi di soggettivazione della classe lavoratrice.
Si sa che il capitale è una relazione, un rapporto, un antagonismo di forze. Tronti ha insistito con grande forza sulla distinzione fra lavoro e forza lavoro. “Nel concetto di forza lavoro c’è la figura dell’operaio, in quello di lavoro, no.” (p. 129) E questo concetto politico della forza lavoro come non-capitale, egli lo trova in germe e in sviluppo in tutto il pensiero giovanile di Marx, che già nei Manoscritti del ‘44 conclude questo approccio, proponendo soluzioni immediatamente sovversive. In un periodo – gli anni ‘60 – nel quale era di moda, da destra e da sinistra, sganciare l’utopismo giovanile marxiano dal pensiero de Il Capitale, Tronti spinge al contrario per un’unificazione stretta. C’è qui, in questa continuità del pensiero marxiano tra giovinezza e maturità, nell’intreccio fra gli scritti filosofici e quelli storici, e fra tutti questi e Il Capitale, un concetto politico di forza lavoro che funziona come grimaldello per ogni soluzione teorica.
In secondo luogo, quest’andamento della ricerca diventa ancor più chiaro nell’analisi dei Grundrisse, assunti come testo genetico de Il Capitale. Qui il “doppio carattere” della forza lavoro, quello di essere ad un tempo merce e soggetto, risulta con estrema forza. “L’unica antitesi al lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivo, cioè l’unica antitesi al lavoro oggettivato è il lavoro soggettivo” – cita Tronti dai Grundrisse (p. 166): e questa soggettivazione si rappresenta come la condizione stessa dell’esistenza del capitale. Nei Grundrisse (“monologo interiore che Marx istituisce con il proprio tempo e con sé stesso”) (p. 210) il lavoro come soggettività diviene centrale: “nella misura in cui deve esistere temporalmente, come lavoro vivo, la forza lavoro può esistere soltanto come soggetto vivo, come capacità, come possibilità: perciò come operaio” (p. 211). Il doppio carattere della merce lavoro si soggettivizza divenendo da un lato “miseria assoluta”, e cioè mercificazione totale della potenza produttiva, e dall’altro “soggettività”, soggettivazione continua, possibilità generale della ricchezza come soggetto. Il doppio carattere della merce forza lavoro è spinto ad interiorizzarsi al massimo nel capitale. Tronti: “questo è il cammino nuovo che Marx stesso propone. Punto di partenza: il lavoro come non-capitale, e cioè il lavoro come soggetto vivo dell’operaio di contro alla morta oggettività di tutte le altre condizioni di produzione; il lavoro come fermento vitale del capitale – un’altra determinazione attiva che si aggiunge all’attività del lavoro produttivo. Punto d’arrivo: il capitale che diventa esso stesso produttivo, rapporto essenziale allo sviluppo del lavoro come forza produttiva sociale, e dunque rapporto essenziale allo sviluppo della classe operaia… In mezzo a questo cammino, tra l’uno e l’altro di questi due punti: il lavoro come non-valore e, proprio per questo, sorgente viva del valore; miseria assoluta e, proprio per questo, possibilità generale della ricchezza; di nuovo pluslavoro e, proprio per questo, plusvalore – la figura moderna dell’operaio collettivo che arriva ormai a produrre capitale proprio in quanto classe antagonista che lo combatte” (p. 215). “Si tratta, su questa base, di partire alla scoperta delle leggi politiche di movimento della classe operaia, che subordinano materialmente a sé lo sviluppo del capitale: si ritroverà così il compito teorico definitivo dal punto di vista operaio” (p. 219).
In terzo luogo si dà qui, secondo Tronti, il superamento marxiano della legge del valore. O meglio una sua ridefinizione: “Marx rifiuta l’idea del lavoro come fonte della ricchezza ed assume il concetto di lavoro come misura del valore”. “Valore-lavoro vuol dire allora prima la forza-lavoro, poi il capitale; vuol dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale” (pp. 224-225). Inutile aggiungere che con ciò la legge del valore viene riconosciuta per quello che essa è: “essa non può essere estrapolata dal rapporto capitalistico di produzione e dal rapporto di classe che lo fonda” (p. 225). Il valore, come pura misura del valore, volendo diventare legge, trasforma la sua azione in mistificazione: la legge del valore, assolutizzandosi, chiude la Trennung fra classe e capitale, conduce perversamente il rapporto di capitale ad identità. Qui – non è una subordinata trascurabile – l’ideologia socialista (non solo quella staliniana) è definitivamente smascherata. E di essa, “del funzionamento economico oggettivo della legge del valore-lavoro, se ne può (paradossalmente o scandalosamente – questa è una mia aggiunta) parlare proprio soltanto nella società che dice appunto di avere realizzato il socialismo” … “dobbiamo trovare il coraggio di convincerci che questa assurdità è un fatto storico reale: il potere politico del capitale può assumere la forma di Stato operaio” (p. 226).
Fin qui abbiamo visto in che misura e con che profondità la forza lavoro sia stata interiorizzata nel capitale. Ma se il concetto di capitale è un rapporto di forza fra lavoro morto, accumulato in capitale, e lavoro vivo, forza lavoro, soggettivazione di questa – tale rapporto è un campo aperto. Il doppio carattere della forza lavoro, che abbiamo visto agire nella sottomissione al capitale, può riemergere contro la subordinazione al capitale. È di qui che comincia una sorta di “via in su”, ricostruttiva, sorretta dall’istanza comunista della lotta di classe.
Come può accadere questa riapertura rivoluzionaria del rapporto di capitale? La prima condizione consiste nella socializzazione della forza produttiva e questo passaggio di socializzazione della forza lavoro avviene completamente all’interno del capitale: dunque, “la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale” (p. 147). Quando “un numero considerevole di operai, cioè l’operaio socialmente combinato, entro un medesimo processo di produzione, sotto il comando dello stesso capitalista, diventa forza produttiva del capitale”, allora diviene possibile la rottura. Ma solo possibile. Occorre qui inseguire “il passaggio storico che vede, da parte operaia, prima il venditore della forza lavoro, poi la forza lavoro produttiva singola, poi la forza produttiva sociale” (p. 150). Ma che cos’è la forza lavoro costituita dentro il capitale? Che cosa significa stabilire la sua possibilità di essere contro il capitale? Significa riqualificare senza interruzione la specifica dinamica antagonista nel “rapporto” di capitale, i suoi diversi equilibri – se volete dirlo nei termini di un altro autore a me caro, la “guerra civile” che percorre il rapporto di potere. Questa possibilità si dà ovviamente alla condizione di non “fissare il concetto di classe operaia in una forma unica e definitiva, senza sviluppo, senza storia” (p. 149). All’interno del movimento marxista sta nascendo con molte difficoltà una storia interna del capitale, aggiunge Tronti: “ma è ancora lontana dall’essere assunta come programma di lavoro, oltre che come principio di metodo nella ricerca, l’idea di una storia interna della classe operaia, che ricostruisca i momenti della sua formazione, i cambiamenti della sua composizione, la crescita della sua organizzazione, secondo le varie successive determinazioni che la forza lavoro assume in quanto forza produttiva del capitale, secondo le diverse, ricorrenti e sempre nuove esperienze di lotta che la massa operaia sceglie in quanto unica antagonista della società capitalista” (p. 149).
È dunque dentro la storia interna della classe operaia che il dentro/contro trontiano va analizzato (pp.150, 153). Vi è qui un momento fondatore dell’operaismo. Per esso, tre condizioni vengono stabilite alla base di ogni possibilità di rovesciamento strategico del rapporto produttivo. Le prime due condizioni sono quelle sulle quali ci siamo fin qui ampiamente soffermati: la soggettivazione della forza lavoro quand’essa è maturata al punto da poter “contare veramente due volte dentro al sistema del capitale: una volta come forza che produce capitale, un’altra volta come forza che si rifiuta di produrlo; una volta dentro il capitale, un’altra volta contro il capitale”. Quando le due volte vengono soggettivamente unificate da parte operaia, si apre la via alla dissoluzione del sistema capitalistico, comincia il processo pratico della rivoluzione” (p. 180): ecco la terza condizione.
È questo il punto cruciale del metodo operaista – laddove esso diventa una genealogia oppositiva nella storia interna sia della classe che del capitale. L’esempio marxiano della lotta per la riduzione della giornata lavorativa da parte degli operai inglesi, lotta vittoriosa e che introduce ad una nuova forma di valorizzazione (dal plus valore assoluto a quello relativo, è qui centrale. La trasformazione del capitale è imposta nel momento stesso nel quale la composizione della classe operaia in lotta si modifica. Analizzando questo periodo di lotte Tronti sottolinea che qui si è realizzato “un vero e proprio salto politico”. E di “causa” o “effetto” politici si può parlare anche quando non esiste movimento organizzato ma solo resistenza, quando si diano elementi destituenti e non ancora espressamente politici e costituenti. Infatti il rapporto fra forza lavoro e capitale non si presenta più semplicemente – come alle origini del capitalismo – allo scambio sul mercato del lavoro, si presenta dentro la produzione di capitale, espone con grande potenza come dal rapporto di classe sia determinata la figura del capitale. Ed è attraverso questo riconoscimento che l’iniziativa operaia diviene politica. L’esempio trontiano è ancora quello antico dell’insurrezione operaia nel ‘48 francese e ripete la narrazione marxiana insistendo sul fatto che il passaggio dall’azione per il rovesciamento della società borghese diviene lotta per il rovesciamento della forma dello Stato. È dentro queste lotte che la trasformazione del “proletario” in “operaio”, del venditore della forza lavoro in produttore di plusvalore si organizza ed è qui che una classe in armi contro l’intera società trasforma il rapporto produttivo in resistenza, lotta e insurrezione contro di esso.
Osserva Tronti: “non è solo ne Il Capitale di Marx ma nella storia stessa dello sviluppo capitalistico che la lotta per la “giornata lavorativa” normale precede, impone, provoca un mutamento nella forma del plusvalore, una rivoluzione nel modo di produzione” (p. 207). È qui tuttavia che si può anche notare come una vittoria nella lotta di classe, nella fattispecie l’imposizione al capitale di un interesse specifico da parte della classe operaia, prefiguri e sovradetermini un interesse (ed una potenza) del capitale: “è un fatto non eccezionale nella storia dello sviluppo capitalistico” (pp. 207-208). “È un modello questa volta non tanto di lotta, quanto di conclusione della lotta, che in forme varie si ripeterà a vari livelli di quello sviluppo”. E tutto ciò continuerà: “quando gli operai vincono una battaglia parziale si accorgono, dopo, di averla vinta per conto del capitale”. Talvolta la classe subisce sconfitte terribili “che piegano per un momento il movimento ma lo fanno rialzare in seguito più forte” (p. 208). Dentro queste sconfitte matura tuttavia (e si manifesta), la trasformazione del modo di produzione e la modificazione delle forme del plusvalore. E muta perciò anche la composizione della classe operaia – come abbiamo già visto. Anche il nome “classe operaia” può venir meno: non perché la struttura antagonista della classe operaia si sia dissolta ma perché le forme in cui essa produce e lotta si sono trasformate. Proletariato, classe operaia, moltitudine: non rappresentano figure oppositive, rappresentano facce variabili ma omogenee di una composizione di resistenze e di lotta in movimento.
Oggi noi assistiamo ad una trasformazione radicale dei processi lavorativi e del modo di produzione del capitale. Un nuovo terreno di lotta, nel “nuovo modo di produzione”, è proposto da una forza lavoro socializzata, precarizzata, globale. Il lavoro è diventato cognitivo, affettivo, cooperativo. Il nuovo modo di produzione è stato imposto dalle lotte operaie del secolo scorso – esse lo hanno prodotto, attraverso il rifiuto del lavoro salariato, e la distruzione della centralità della fabbrica. E, soprattutto, attraverso due processi che accompagnano lo sviluppo del capitale cognitivo: l’appropriazione, da parte dei lavoratori, di un’autonoma gestione dei saperi e dei processi di cooperazione produttiva. Davvero qui la lotta di classe comincia a crescere “dentro la classe operaia” e la soggettivazione della “forza-lavoro” comincia a trasformarsi (per dirlo con Tronti) in potenza dell’“operaio” – vale a dire che la soggettivazione si determina attraverso incorporazione di quote di “capitale fisso” (saperi e organizzazione del lavoro) altre volte strumento di comando del capitale sulla forza lavoro. È nella risposta a quelle lotte che il capitale ha costruito la sua organizzazione basata sullo sfruttamento della potenza sociale del lavoro e sull’estrazione del “comune”. In questa situazione, si impongono oggi nuove strategie dei movimenti nella lotta per il comunismo e si cercano nuove tattiche di organizzazione. Ma, per quanto riguarda il metodo e l’assiomatica della ricerca, noi restiamo sul solido terreno proposto da Tronti in Operai e Capitale. Se vi è differenza, fra operaismo e post-operaismo; se ve ne è una, essa sta nel sapere di classe e cioè nel riconoscimento della trasformazione storica del rapporto di produzione e del soggetto che, lì dentro, è sfruttato. Ma nel medesimo tempo, esso costringe il capitale a subire un nuovo impatto di resistenza e di lotta, di odio e di speranza.
Per concludere, un esempio di metodo, operando in presenza di una nuova composizione del lavoro – il lavoratore cognitivo – e delle terribili condizioni di precarizzazione e di disoccupazione cui esso è sottoposto. Il capitale continuerebbe ben volentieri a lasciar morire queste nuove generazioni di lavoratori se non fosse che esso rischia il deterioramento di queste preziose capacità produttive e il blocco delle nuove forme di accumulazione sociale attraverso “estrazione del comune”. Che cosa farà di conseguenza? La prima ipotesi, quella del “far morire”, la sperimentiamo ogni giorno sulle frontiere dell’Europa, degli USA e nel basso Pacifico – ma anche, aleatoriamente, nella nostra vita quotidiana. Ma la “razionalità” capitalista – sempre funzionale all’accumulazione – imporrà un’altra scelta. Il capitale sarà piuttosto obbligato a sviluppare forme di salarizzazione sociale e a riplasmare gli istituti del Welfare in funzione di controllo delle dinamiche di resistenza e di esercizio di dominio. Misure salariali (“reddito di cittadinanza” per es.) e manovre sul Welfare possono mescolarsi e confondersi nella gestione capitalista del mutamento: l’importante è che pongano in equilibrio, al minor costo possibile, produttività e vita dei lavoratori.
Ma le cose qui si complicano sia da parte capitalista che da parte dei lavoratori. Per i primi, incombe su di loro la necessità di riorganizzare gli assetti interni per assorbire e regolare, nonché per imporre un’ordinata accumulazione dei nuovi flussi sociali di valore – poiché la trasformazione del modo di produrre determina nuove forme del plusvalore (“sociale” dopo quello “assoluto” e quello “relativo”) e impone al comando capitalista nuove gerarchie – nella fattispecie, finanziarie. Anche per i lavoratori molte cose cambiano: sia la “giornata lavorativa” che è ormai senza una misura temporale, sia il “luogo di lavoro” che è divenuto mobile e trasferibile, sia la forma del salario che s’è socializzata e viene fissata nel più basso rapporto fra reddito primario e servizi del Welfare – bene, tutto ciò distrugge definitivamente forme e tradizioni di lotta, configurando tuttavia un nuovo terreno sociale di organizzazione e di proposta anti capitalista. Chiediamoci: sarebbe una vittoria, per la classe dei lavoratori, ottenere un reddito di cittadinanza, articolato ai bisogni forniti dal Welfare? Oppure si configura così semplicemente una nuova organizzazione della forza lavoro come “capitale variabile”? L’una e l’altra cosa, evidentemente. Ma su questa base potrebbero darsi (e questa è la cosa che ci interessa) un nuovo terreno di lotta e quindi la possibilità di organizzazione per i lavoratori cognitivi. I quali, per la qualità ricca della loro composizione, non possono limitare la loro iniziativa sul terreno della pura resistenza. “La figura schumpeteriana dell’imprenditore, con la sua iniziativa innovatrice, ci piace vederla rovesciata nella permanente iniziativa di lotta delle grandi masse operaie”(p.210): d’accordo – ma ora abbiamo nuove composizioni, tecniche e politiche, ben più produttive di allora e moltitudini ben più estese, di conseguenza una più grande possibilità di costruire passaggi costituenti un nuovo ordine sociale. È quanto, dal 2011, continuiamo a vedere e a studiare.
C’è troppo ottimismo in questa fondazione e in questo rilancio del metodo operaista? Quasi che la sconfitta degli anni ’70 (di coloro che avevano rifiutato l’irenico ritorno nelle braccia del Partito Comunista Italiano) non sia assunta nella gravità che ebbe? E non c’è ancora qui l’illusione che la moltitudine al lavoro, come insieme plurale di singolarità, possa miracolosamente ricompattarsi? Per dirlo in termini filosofici: non c’è una povera ipostasi ontologica non tanto nella ripresa del metodo operaista, quanto nella ridefinizione di un soggetto in lotta? Queste obiezioni che sono frequentemente opposte agli operaisti, non mi sembra possano essere accolte. In primo luogo perché la metodologia di Operai e Capitale, all’incontro dell’ipotesi politica di Tronti, era (ed è stata) praticata in maniera del tutto indipendente da ogni riduzione ad unità e a trascendenza di Partito, e quindi salvaguardata da ogni avanguardistica macchinazione insurrezionale, così caratteristica dell’escatologia socialista. Tanto è vero che nell’ipotesi operaista hanno potuto ritrovarsi le esperienze teoriche, storiografiche e politiche che hanno fatto dei movimenti autonomi “dal basso” la chiave di ogni più recente pratica rivoluzionaria, da quelli “altermondialisti” attorno al cambio di secolo fino a quelli che dal 2011 si sono diffusi ovunque. In secondo luogo perché dall’impianto diagnostico della teoria (che taluni chiamano) “postoperaista” (se tale è quella che soggettivizza le singolarità moltitudinarie e considera la forza lavoro cognitiva impiantata nel comune) – da quell’impianto, dunque, è esclusa ogni ipotesi finalistica ed ogni telos unitario. L’intenzionalità soggettiva non può essere confusa con il determinismo teleologico. Se vi è un “campo progressivo” prodotto dalle lotte, è quello costruito dalla forza dei movimenti. Non c’è destino se non quello discontinuo che costruiamo e la nostra libertà ha sempre il segno di quella necessità.
L’operaismo di Operai e Capitale ci ha insegnato anche questo.
Cari compagni
di Mario Tronti
Cari compagni, grazie per questa memoria di un ormai antico evento. Cinquanta anni, mezzo secolo, questa è la distanza da allora. È tanto tempo. Actualités, dite voi, di Operai e capitale. Al plurale. Ce n’è dunque, ce ne potrebbero essere, più d’una? Diverse, comunque, accanto ad altrettante inattualità? D’altronde, tra l’attuale e l’inattuale c’è, dopo Nietzsche, molta ambiguità. Che cosa è meglio essere? Allora, nei trenta anni, mi sentivo e volevo essere più attuale di quanto non mi senta e abbia voglia di essere inattuale oggi in mezzo agli ottanta.
Fu una bella intensa esperienza quella dell’operaismo. Un romanzo di formazione per giovani menti antagoniste, che ha depositato un sapere di presenza e di lotta, tramandato fino ad oggi a successive generazioni, con una forse unica creativa continuità. Segno che il seme era buono e il terreno su cui cadeva, e dove ancora oggi, dopo tante immani trasformazioni, riesce malgrado tutto a germogliare, è ancora quello. Ho un vivo bel ricordo di quella età eroica, di quella pratica di conflitto, di quel modo di pensare, di quella scelta dell’azione, di quella forma di scrittura non più ritrovata, perché del tutto dettata dall’immediata esigenza del fare, e di un fare in contrasto diretto col mondo,, senza mediazioni e concessioni. Soprattutto ho grande nostalgia di quelle persone, uomini e donne, calate in un agire e in un sentire collettivo, dove l’autenticità dell’essere, e dell’essere lì, per quello, senza residui per se stessi, determinava un plusvalore umano che, confesso, nei lunghi anni e decenni seguenti non mi è più capitato sconsolatamente di riconoscere intorno a me.
Gli anni Sessanta e Settanta sono i nostri “vent’anni gloriosi”. Lì le rivoluzioni del XX secolo si esaurirono. Si aprì una età della restaurazione, che dura tuttora. E venne il deserto. Delle due “terre desolate” che mi è stato dato di frequentare, quella dell’accademia universitaria e quella della politica politicante, c’era spazio solo per una cella da monaco eremita. Cominciò, nel pensare e nell’agire, un percorso accidentato: avanzamenti, svolte, soste, ritorni indietro. Bisognava prima di tutto tenere la direzione del cammino, farsi una bussola di parte, nell’assenza di cardinali punti di riferimento: in pratica un realismo politico antagonista. La misteriosa curva della retta di Lenin mi sembrò quella che faceva al mio caso. Il percorso lineare era interrotto. L’intero progresso dell’umanità verso il meglio era andato a sbattere contro un muro, non facile a crollare come i muri ideologici. Non c’era altra strada che prendere la curva, attenti a non sbandare. Ci collochiamo ancora al punto di massima espansione di questa linea curva. Al di là delle scaramucce presenti ai confini dell’impero, o degli imperi, siamo dentro una nuova pace dei cento anni. Ci si lamenta del degrado dei ceti politici, della corruzione delle istituzioni, del silenzio delle classi nella scomparsa della lotta di classe, della deriva antropologica nel disagio di civiltà. Non si vivono settanta anni di pace senza che tutto questo fatalmente avvenga. Sto dicendo che non si tratta di abbassare il livello di contrapposizione a una realtà nemica, ma di cercare con la stessa passione di un tempo le forme più adatte del pensiero e dell’azione, appunto, attuali. La filosofia della prassi è caduta e si è spezzata in due. E in due modi diversi vanno gestiti i piani della critica e dell’intervento. La formula sintetica riassuntiva del “pensare estremo e dell’agire accorto” mi ha guidato e mi guida nella navigazione quotidiana attraverso la grande bonaccia degli oceani contemporanei.
Oggi, per quanto mi riguarda, è questo percorso che va definito, e soprattutto compreso. È l’intero tempo che è seguito allo scontro diretto tra operai e capitale che va messo sotto critica. Che cosa resta del primo operaismo, di cui Operai e capitale è solo un’espressione. Alcune cose le dite nell’impostazione dell’incontro di Nanterre: resta il punto di vista parziale da cui guardare il tutto, resta la concezione conflittuale del rapporto sociale, resta la soggettività delle lotte che impone all’avversario il terreno dell’iniziativa. Ma resta per me soprattutto la lettura politica della lotta di classe, l’antieconomicismo, l’antisociologismo, l’antideologismo. È quanto mi porta oggi a sostenere questa idea da pensiero estremo: che per abbattere la minaccia della centralità operaia il capitalismo ha dovuto abbattere la centralità dell’industria, con la conseguenza di questa nuova forma di ordine capitalistico basato sul disordine finanziario, dove non è più la crisi periodica che interrompe lo sviluppo permanente ma, al contrario, lo sviluppo periodico che interrompe la crisi permanente. Quando dico questo, vedo gli occhi sgranati degli economisti, neoliberisti, postkeynesiani o pseudomarxisti, che siano. È vera questa tesi? Non è vera? Non mi interessa. Non cerco la verità storica, oggettiva, buona per tutti gli intellettuali disorganici. Cerco un’idea-forza, politica, che mi serva per costruire un fronte di conflitto che vada alla radice delle divisioni sociali attuali. Questo è pensiero operaista, vivo. Messa così, se ne poteva ricavare un contenuto per quella bella formula, che altrimenti rischia di essere ideologicamente vuota, dell’1% e del 99%. Messa così, una sinistra, che si fosse dichiarata erede della grande storia del movimento operaio, poteva avere una ragione di esistenza e un’opportunità di riconoscimento presso tutti gli esclusi dalla ricchezza e dal potere. Il nocciolo “irrazionale” dell’operaismo non era un punto di vista minoritario. All’opposto, era potenzialmente forma e materia per una “nuova ragione del mondo” antagonistica rispetto a quella dominante, pronta a devastare il XXI secolo.
Carissimi amici, queste ultime espressioni sono facilmente riconoscibili. Apprezzo molto e nello stesso tempo poco mi convince come Dardot-Laval tornano a parlare del concetto di rivoluzione. Non se ne può parlare tra Arendt e Castoriadis. Non se ne può ragionare tra rivoluzione 1776 e rivoluzione 1789, assente la rivoluzione 1917, di cui celebreremo il prossimo anno il centenario. Non si può dire comune senza dire comunismo. Continuo ad essere convinto che i comunisti sono gli unici che hanno veramente messo paura ai capitalisti. Non sono stati i socialdemocratici, i liberalsocialisti, gli anarchici, i sessantottini i terroristi, non siamo stati noi operasti. Queste cose gli hanno fatto il solletico. Solo il tentativo, tragico, della costruzione comunista del socialismo, gli ha dato un pugno nello stomaco, che li ha messi per decenni sulla difesa preoccupata del loro ordine, tra grande crisi e grande guerra. È da quando è caduto quel tentativo che non hanno avuto più problemi, se non quelli stessi che si creano da soli, tra loro. Mi fa piacere che Toni rilegga la sua vicenda, che seguo sempre con passione militante, come la storia di un comunista. È una presa di possesso impegnativa. Va assunta in tutta la sua ricchezza storica. Mi capita in questo tempo povero che stiamo vivendo di richiamare spesso, soprattutto per chi verrà, la necessità, di una coltivazione gelosa della memoria. Mi pare di vedere più chance rivoluzionaria in un nostro passato, che nessuno ci può togliere, rispetto a un futuro, che ci è già stato tolto, tutto ormai nelle mani di chi comanda. Stiamo dentro questa terribile stretta: mai come oggi un altro mondo è necessario e mai come oggi un altro mondo non è possibile. Diciamo: non lo è per il momento. Quanto sarà lungo questo momento, non sappiamo. Qui torna il concetto, teorico-storico, di rivoluzione. Mi sono fatto un’idea, che vorrei avere il tempo di elaborare. La rivoluzione non è l’atto con cui si prende il potere, ma il processo con cui si gestisce il potere. Riformisti prima, rivoluzionari solo dopo. Vi lascio con questo lampo senza tuono.
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