Un brusco risveglio per l’Unione europea? Intervista a Raffaele Sciortino
Intervista a Raffaele Sciortino del 26 settembre 2017 su Catalogna, elezioni tedesche, situazione francese e “ripresa” europea.
Quanto sta succedendo in catalogna e il voto tedesco: un brusco risveglio per Bruxelles sulla stabilità dell’unione?
Quanto sta succedendo in Catalogna mette in evidenza sicuramente una delle molteplici crepe all’interno dell’Unione Europea. Per capire in che direzione possa evolvere anche questa situazione, che peraltro non conosco bene, penso però si debba tentare un inquadramento di fase più complessivo per quanto riguarda lo scenario europeo e globale.
Mi sembra che la situazione si muova confusamente e quasi a scatti – e già questo è un indice di crisi, se vogliamo – tra un incrudimento delle tensioni globali, a livello geopolitico soprattutto, da un lato e però una non precipitazione forte della crisi stessa dall’altro. Visto dall’Europa, e detto con cautela, il quadro è un tantino differente rispetto all’anno passato, si può forse parlare di una finestra di tregua, la cui natura essenzialmente economica è riscontrabile nei dati sulla “ripresina” che tangenzialmente sta toccando anche l’Italia anche se solo in alcuni settori. Non scompaiono con questo le linee di frantumazione interne e di scontro all’esterno che sono emerse in maniera eclatante con la Brexit e nei rapporti tra Usa e Ue con l’elezione di Trump (ma già prima) né i problemi economici di fondo. Ma le élites europeiste hanno reagito e sono riuscite in qualche modo a parzialmente fermare quel trend di precipitazione. In termini strettamente economici non sappiamo per quanto, perché i dati al momento non ci danno il trend a medio termine, quindi sarà tutta da verificare la durata e l’entità e la scala della “ripresa” se di ripresa si può parlare.
Sul piano politico, a conferma della contraddittorietà della situazione, mentre è stata possibile l’operazione elettorale Macron (che però può contare su un consenso meno ampio rispetto a quello propagandato), arriva adesso il risultato elettorale tedesco, anche se in sé meno imprevedibile di quanto ci fanno credere (alle ultime elezioni comunali berlinesi ad esempio l’AfD aveva già preso il 14% complessivo).
Una situazione dunque strana, di non facile interpretazione, aperta a più opzioni e difficile da agire politicamente. Fin qui abbiamo assistito a un ricompattamento almeno del nucleo forte europeo, che al momento ha potuto permettersi di tenere dentro anche l’Italia con i continui sconti fiscali e di bilancio che Bruxelles sta facendo al governo italiano. Un’opportunità per le élites europee di ridimensionare la prima ondata di populismo che è emersa con la crisi globale. E si tratterà di capire se il risultato elettorale tedesco, con la relativa affermazione “populista”, rappresenta il colpo di coda di questa prima ondata – giunta in ritardo per ovvi motivi in una Germania fin qui parzialmente oasi di stabilità al riparo dalla crisi globale – oppure il possibile innesco di una seconda fase, più radicale e “sporca”, o ancora, una sovrapposizione delle due cose, come credo.
Detto questo, tenendo presente che non siamo di fronte a un’effettiva fuoriuscita dalla crisi globale, mi sembra che ci siano almeno tre elementi su cui riflettere.
1) Uno per quanto riguarda la dimensione sociale e il lavoro.
I dati che riguardano sia l’Italia sia la loi travail 2.0 di Macron sia le politiche sul lavoro promosse in Germana, che poi fanno da modello per il resto dell’Unione, ci dicono che anche in caso di ripresa questa è jobless o comunque rappresenta un ulteriore passaggio nel processo di precarizzazione del mondo del lavoro, coniugato con un welfare riconfigurato tra misure di workfare e misure neanche più assistenziali ma addirittura “caritatevoli”. Anche nella migliore delle ipotesi, non si può pensare ad una fuoriuscita degli “ultimi”, dei “superflui” dal loro stato.
Ora, queste tendenze non hanno fin qui prodotto riscontri in termini di attivizzazione e mobilitazioni sociali importanti (se non in Francia contro la prima Loi travail, ma senza esito immediato) mentre a livello elettorale vengono espresse, a seconda, nell’astensione o nel voto di protesta rivolto ai “populismi”. Nel mentre si fa strada il gioco sporco, in parte voluto in parte “spontaneo”, di competizione per un welfare già decurtato tra gli autoctoni (compresi immigrati di più lunga data!) e gli “ultimi arrivati”, fenomeno quest’ultimo esaltato oltre ogni buon senso dal cortocircuito mediatico (ora in senso “buonista”-vittimista-globalista ora in senso emergenziale: ci sarebbe da riflettere sul carattere sempre più autoreferenziale del sistema della comunicazione). Problemuccio non da poco per il darsi di una risposta di classe e classista, e che gli anticapitalisti (come forse ormai dovremmo chiamarci lasciando cadere il termine “sinistra” variamente aggettivata?) non possono affrontare in termini solo ideologici o con letture riduzioniste.
2) Una seconda riflessione, centrale in prospettiva:
la necessità che hanno i leader europei, prendiamo da ultimo Macron, di filtrare, selezionare e utilizzare alcune istanze delle forze “populiste”: la protezione del popolo attraverso il rilancio della sovranità. Avendo cura di piegare le istanze “sovraniste” a un rilancio del nazionalismo economico e politico-militare. Il passaggio interessante e relativamente nuovo con Macron è che la Francia si protegge ed è sovrana solo e in prima, non seconda, istanza in un’Europa forte, ovviamente a guida franco-tedesca e a più velocita (come già anticipato da Merkel questa primavera) con messa sotto tutela dei partner “a rischio” e senza mutualizzazione dei debiti. Anche nella campagna elettorale tedesca non a caso si è tornati a parlare apertamente di nazionalismo economico con un occhio alla nuova amministrazione americana. Perlatro lo stesso Junker, nel discorso di qualche giorno fa, ha parlato addirittura di riprendere una “politica industriale” europea, cosa impronunciabile fino a poco tempo fa, e ha detto che “non siamo liberisti ingenui” (detto da lui…).
Va seguito con attenzione questo tentativo di riprendere istanze populiste per neutralizzare la minaccia populista: non si tratta solo di un espediente politico-elettorale, potrebbe essere una strategia di più ampio respiro. L’unica possibilità per la UE, dopo aver resistito alla prima grande ondata di crisi e all’attacco speculativo sull’euro tra il 2010 e il 2012, è quella di porsi sullo stesso terreno aperto da Trump che è il ritorno alla centralità politica del nazionalismo (per ora) economico. Che questo nazionalismo non si possa giocare singolarmente ma come Europa è evidente alle élites borghesi. Ma coniugato come europeismo ovviamente ha i suoi costi – come il voto tedesco dimostra.
A questo proposito, va evidenziato l’intreccio della dimensione sociale con quella geopolitica, anche se in controluce, nel voto a Le Pen, AfD, per certi versi Corbyn, ecc. (per questo, anche, è inadeguato parlare di mero voto di protesta). Si tratta in fondo di una confusa reazione anti-americana, che a differenza della reazione “borghese” europeista, non è affatto iniziata con l’arrivo alla presidenza di Trump. Basta pensare, in Germania, alle mobilitazioni, su due fronti politici e sociali assai diversi, contro le manovra Usa in Ucraina e contro il trattato Ttip, o all’eco dell’affare Snowden. Sono temi, e se ne stanno aggiungendo altri, su cui non per forza deve esserci convergenza con la politica europeista istituzionale. Perché questa, e qui di nuovo Berlino è centrale, non può allo stato oltrepassare nei confronti di Washington un certo limite consentito dai rapporti di forza internazionali e dagli interessi capitalistici. In questo senso, ed è un bene secondo me, la politica accorta ma ferma di Merkel in questi anni – che tralaltro ha “salvato” l’euro – sta approssimando il suo limite: un vero cambio di fronte nelle alleanze internazionali non sarà possibile all’Europa (o a quanto ne residuerà) se non a partire da una spinta dal basso potente in un quadro di crisi e incasinamento globale assai più avanzato dell’attuale. È quanto lascia intravvedere, seppure solo in prospettiva, il successo elettorale dell’AfD. Ma il tema comunque si pone già oggi. A volerlo vedere: e non mi pare che a “sinistra” lo si faccia.
3) Terza riflessione.
Questo insieme di fattori è evidente che mette le forze “populiste” così come si sono date finora di fronte a difficoltà o comunque bivi. Basta guardare al Front National dopo il voto o alla preventiva scelta “responsabile” del M5s da noi, per non parlare dell’estrema difficoltà di Podemos che lo scontro Madrid-Barcelona (che si gioca su un terreno prevalentemente nazionalista) sta mettendo in luce ma non certo ha prodotto. Non credo che l’affermazione elettorale dell’AfD vada letta in controtendenza rispetto a questo nodo di fondo: si pone la necessità di precisare e “indurire” i termini della propria strategia, pena la dispersione e/o sussunzione da parte di una politica europeista più decisa perché il livello complessivo dello scontro globale si sta alzando! Qui il nodo è se avremo finalmente un’ampia attivizzazione sociale e quindi: o il sovranismo, già pregno anche nelle espressioni più “destrorse” di confusissime tematiche “neoriformiste”, andrà precisandosi nel senso di una incompatibilità al sistema superando i suoi attuali limiti (ovviamente non potrà farlo con gli attuali contenitori), oppure rifluirà al più alimentando “dal basso” le politiche borghesi. Probabilmente avremo un mix delle due cose che però andranno a dividersi e scontrarsi, e non come oggi che possono coesistere nei medesimi contenitori organizzativi, nelle medesime teste.
Passiamo allo scenario nazionale…
Innanzitutto va differenziato il quadro francese e tedesco da un lato dal resto dei paesi europei dall’altro. Anche i rispettivi cicli politico-elettorali non andrebbero messi in un medesimo sacco: se Berlino sembra andare nella direzione di un indurimento dei termini del confronto a livello europeo, e quindi si prospettano tempi duri per l’Italia, non è detto che questo si ripercuota immediatamente da noi con uno spostamento su un voto anti-europeista, anzi la paura di perdere l’aggancio con l’euro potrebbe fare “miracoli” (come del resto si è in visto in Grecia) in tutti gli strati sociali. Qui, anche a livello elettorale, gioca altresì la percezione della “ripresina”: se si consolida, se va subito a carte quarantotto, quali aspettative suscita in quali strati ecc. Sempre tenendo conto che nella crisi gli spostamenti di “umori” possono essere repentini. Per non parlare del tema “profughi” (che è anche un tema geopolitico).
Senza ripetere quanto detto, in Italia vediamo una difficoltà nel M5s, che va oltre il prossimo dato elettorale, salvo precipitazioni della situazione sempre possibili. Il presentarsi in veste di forza di governo rispettabile, attraverso il fotogenico (ma si fa la barba due volte al giorno?) candidato premier Di Maio, la cui pochezza politica è evidente a tutti, è indice di questo, e comunque ha il fiato corto.
Anche perché all’immediato mi sembra che il governo Gentiloni-Minniti non se la stia giocando malissimo (con l’appoggio “esterno” di un Berlusconi merkelizzato) imprimendo qualche piccola svolta: ha cercato di tornare in campo innanzitutto sul terreno decisivo, quello internazionale, a difesa degli “interessi nazionali” (Libia, profughi e Ong , Egitto, compromesso non disonorevole con la Francia sui dossier economici, ecc.) e su questo, oltrechè sulle modalità differenti del premier rispetto al tronfio Renzi (che però il Pd si deve trascinare dietro) e su un accenno, vedremo quanto effettivo, di politica industriale, ha creato consensi trasversali. Il punto, però, tanto più dopo il voto tedesco, è: tutto questo per fare cosa sul medio-lungo termine? E cosa succederà con l’approssimarsi della fine del QE (probabilmente accelerato dal voto tedesco)? In ogni caso l’Italia non potrà sfuggire a situazioni e scelte dolorose e, se anche non c’è grossa percezioni di questo da noi, è già di nuovo una “osservata speciale”. Comunque sia, lo dico a evitare fraintendimenti, è sempre meglio avere di fronte come nemico un governo “serio” (per quanto si può essere “seri” nell’Italietta…).
In questo scenario come s’inseriscono gli USA?
L’azione statunitense mette in forse qualunque stabilizzazione europea, e quindi un consenso duraturo alle sue élites politiche, sia sul versante geopolitico che su quello economico. La stessa stabilità e continuità delle politiche economiche tedesche, anche al di là del voto, si inseriscono in questo quadro globale particolarmente volatile. Sempre più dunque si porrà la necessità di difendersi e competere nell’arena globale sul terreno indicato da Trump. Sono temi su cui ragioniamo da tempo.
Del resto, a Washington sembra quasi un caos, per quello che si può capire. Su un versante c’è un aspetto di scontro interno molto forte in cui si vede un‘alleanza, neanche troppo tacita, contro Trump tra il fronte clintoniano liberal-“internazionalista” e gli ex neocons, con una politica estera interventista e aggressiva. Sull’altro vogliono neutralizzare Trump come figura pubblica e come espressione di una pancia dell’America, che non è certo tutta l’America, ma che in maniera preoccupante per l’élite globalista, ha tolto il consenso alle politiche liberiste seppur con un’espressione di destra.
Quello che abbiamo visto procedere quest’estate è una neutralizzazione del fenomeno Trump. Il presidente USA ha dovuto far fuori dalla cerchia dei suoi consiglieri ufficiali alla Casa Bianca Bannon, rappresentante dell’ala sociale, populista e nazionalista, ed è stato costretto a scegliere tra i suoi collaboratori una serie di generali del Pentagono che sono vicini alla linea clintoniana. Quindi c’è uno scontro in atto che non sappiamo bene come andrà a finire, certa è una messa in mora delle intenzioni originarie di Trump : risollevare la pancia profonda dell’America con una politica di reindustrializzazione e all’esterno dividere Russia e Cina. Il secondo obiettivo è quasi sicuramente fallito, il primo ancora non si sa.
Comunque vada, per gli Stati Uniti sono in forte difficoltà: devono minacciare guerre ma non paiono in grado di attuarle e soprattutto vincerle. Il regime change siriano è fallito, mentre la Cina prosegue nella sua marcia a… Occidente. Alleati e partner o sono insofferenti o vedono che i giochi non si fanno solo più a Washington e devono correre ai ripari. E quando l’egemone non è i salute, butta male.
Inoltre, sul versante propriamente economico c’è un punto di domanda grosso perché sembra di intravvedere un trend di disconnessione tra le due sponde dell’Atlantico (almeno a leggere i dati su investimenti e profittabilità) mentre a Wall Street c’è chiaramente una bolla forse maggiore di quella pre-2008. Qui si pone il problema delle ripercussioni, interne e internazionali, delle prossime scelte della FED che si prepara ad una politica monetaria meno lasca cosi da dotarsi degli strumenti adeguati nel caso della fine burrascosa del corso toro a Wall Street (quasi tutti gli analisti considerano i prezzi delle azioni e delle obbligazioni nella borsa americana a livelli che difficilmente permetteranno un’ulteriore crescita).
Non a caso assistiamo ad un incremento dell’euro sul dollaro che insieme è indice sia del miglior stato dell’economia europea rispetto a quella americana ma potrebbe anche essere un inizio di manovra speculativa sull’euro da parte di capitali che non riescono a trovare valorizzazione adeguata a Wall Street, anche con l’obiettivo forse di impedire o tardare il più possibile la fuoriuscita dal QE da parte della BCE. Ovviamente se la BCE continua a rimandare il raffreddamento del QE e si viene a creare una bolla sui mercati finanziari europei, anche tenuto conto della fragilità del sistema bancario, è chiaro che l’Europa e la sua moneta sarebbero esposti come se non più di quando ci fu l’attacco speculativo all’euro nella crisi 2010-2012. Ma questo è un discorso che va ripreso…
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