Ancora su i dieci anni che sconvolsero il mondo
di Piero Pagliani da Carmilla
Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, euro 25,00
I libri che permettono di orientarsi tra quanto sta succedendo, non sono poi molti. Sono invariabilmente scritti da autori che non si concentrano su un solo punto – tipicamente l’economia – ma prendono in considerazione la complessità delle società umane e della loro storia.
A parte il II e III libro del Capitale di Marx, che io consiglio sempre di ripassare, per quanto riguarda la letteratura contemporanea non italiana suggerirei per iniziare coi lavori di Giovanni Arrighi, Karl Polanyi, Samir Amin, David Harvey e Michael Hudson (non specifico le opere perché si trovano facilmente con una ricerca sul web).
Per quanto riguarda l’Italia la scelta ricade su pochi autori che condividono una particolare caratteristica “esogena”: non essere noti al pubblico che si forma sulle pagine culturali, economiche o politiche dei media mainstream.
Ma l’Italia è un Paese dove si stanno ancora a sentire due economisti che quando la Lehman Brothers fallì scrissero su un prestigioso quotidiano che non ci sarebbe stato alcun contagio, che la crisi dei subprime sarebbe stata passeggera ed era dovuta sostanzialmente al fatto che il pubblico statunitense non sapeva calcolare il montante quando chiedeva un prestito.
Non sapendo nulla di economia, ma conoscendo quasi a memoria i lavori degli autori sopra citati, io affermai invece (assieme a pochi altri) che c’era da aspettarsi una crisi almeno decennale. Non ci voleva in realtà un grande sforzo d’immaginazione e fui persino troppo ottimista.
Bastava aver studiato un autore come Giovanni Arrighi, che nella prima metà degli anni Novanta, mentre i nostri intellettuali ed economisti per la quasi totalità non avevano ancora smaltito la sbornia da Belle Époque reaganiano-clintoniana della “Milano da bere”, avvertiva che si sarebbe andati incontro a una successione di crisi, a partire da quelle finanziarie, e che la globalizzazione avrebbe lasciato il posto a guerre di carattere mondiale (come era successo dopo la Belle Époque edoardiana). Ma un autore così non poteva essere capito e quando era capito doveva essere silenziato, perché andava contro la narrativa ufficiale che – e questo è un punto da non sottovalutare perché ci tocca da vicino – veniva spesso (e viene ancora) reinterpretata e riproposta en marxiste, cosa che nel tempo ha prodotto un conformismo che con variazioni di stile spazia da destra fino a sinistra.
E’ quindi una ventata d’aria pura l’uscita recente di lavori che seguono linee di indagine che possiamo definire di “irriverente rigore”, dove l’irriverenza riguarda il rosario di formule che la sinistra è solita sgranare mentre tutto gli sta sfuggendo di mano. Con alcuni di questi studiosi mantengo rapporti regolari, diretti, come con Pierluigi Fagan, o epistolari come, per l’appunto, Raffaele Sciortino, che incontrai diversi anni fa ad una conferenza, accorgendomi subito che aveva un’attrezzatura teorica e una sensibilità politica di notevole caratura.
Se mi si domanda se suggerisco I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, la mia risposta è: Sì! Leggetelo. Vi farà capire – con chiarezza – molte cose e vi permetterà di interpretare con più libertà e cognizione di causa ciò che è successo e ciò che sta succedendo.
Il titolo stesso è già una sfida cognitiva e politica, perché se la prima parte riecheggia il famoso Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, rivelando così che per Raffaele Sciortino il movimento comunista è un riferimento (cosa che l’Unione Europea ha deciso che d’ora in poi si dovrà sanzionare), la seconda parte tira in ballo un concetto tabù per la sinistra, cioè “geopolitica” e un altro, quello di “populismo”, che per la sinistra in realtà è un insulto, rimanda a una realtà che non deve essere analizzata ma solo, per l’appunto, insultata ed esorcizzata, così come Hillary Clinton fece col basket of deplorables che avrebbe votato Trump (e lo avrebbe fatto vincere!).
Ma se devo individuare un filo conduttore nel lavoro di Sciortino io direi che, a dispetto del sottotitolo, è proprio l’analisi delle relazioni di classe e della loro rilevanza per gli eventi nazionali e globali in un periodo storico in cui gli eventi globali e di conseguenza quelli nazionali sono invece visibilmente dominati da scontri tra nazioni derivanti da strategie geopolitiche mentre gli scontri di classe rimangono – in apparenza – solo di sottofondo.
Malgrado ciò, far riemergere l’importanza, la natura e gli effetti della lotta di classe in questo quadro di scontri tra specifici raggruppamenti nazionali, è un compito essenziale. Non ripeterò mai abbastanza, ad esempio, che la morbosa difesa statunitense (da Bush jr a Trump passando per Obama) del proprio “stile di vita” nasconde il terrore di dover affrontare un enorme scontro sociale qualora i privilegi imperiali degli Usa dovessero venir meno. Ancora, la famosa “strategia del caos” statunitense ha come componente (e speranza) essenziale il deterioramento della situazione interna dei grandi competitor strategici, come la Russia e la Cina, a causa di gravi contraddizioni sociali, prima che il contenimento degli sfidanti l’egemonia mondiale Usa diventi impossibile. E riguardo a questo punto sono tentato di suggerire di imparare a memoria il capitolo intitolato Cina a un bivio?.
Infine, ed è un punto decisivo, la sinistra antimperialista sperimenta notevoli difficoltà a coniugare assieme la questione sociale e la lotta all’aggressività americana, difficoltà speculari a quelle dei puristi del conflitto di classe.
Insomma, quello che si è posto Raffaele Sciortino non è un compito facile, ma è necessario. Se le linee di scontro geopolitiche sono un corollario della natura della crisi sistemica, gli effetti sulla “classe” (un termine che userò come segnaposto dell’ambito politico e sociale di intervento di un ipotetico soggetto anticapitalistico di impostazione marxista), gli effetti sulla classe, dicevamo, di questi scontri geopolitici e i vincoli che la reazione della classe alla crisi pone agli spazi e alle direzioni di manovra di ogni nazione, sono un terreno largamente da scoprire e il lavoro di Sciortino è una sorta di rompighiaccio, non dico solitario ma quasi.
Il problema è che gli studiosi di sinistra e/o di derivazione marxista quasi sempre fanno riferimento a una lotta di classe paradossalmente immateriale, cioè fanno riferimento a uno scontro tra il Basso e l’Alto che avverrebbe in vuoti interstellari, dove divisioni geografiche, localizzazione delle potenze, localizzazione delle risorse, formazioni sociali particolari, insomma tutto quanto costituisce la “fisicità” delle società umane è considerato solo uno schermo di una territorialità che offusca la perfetta geometria di un conflitto che si svolgerebbe nello spazio etereo di un Empireo immaginario.
Raffaele Sciortino, al contrario, immerge la lotta di classe nella materialità del mondo storico e della crisi sistemica che stiamo attraversando. Non è un compito agevole per due ordini di motivi. Il primo è che questa materialità è molto complessa e bisogna passare attraverso una selva di rovi: le comunità, le “organizzazioni territorialiste” (Arrighi) cioè le nazioni, le culture, e la conseguente frantumazione e separazione degli interessi, delle motivazioni e degli obiettivi. Il secondo è che chi prova a districarsi tra questi rovi cercando di comprenderne le radici, gli sviluppi e gli inviluppi, rischia costantemente di essere impallinato con astio da chi pensa che quel groviglio debba essere semplicemente dato alle fiamme, o ignorato con disdegno, o da chi pensa che non esista nemmeno e sia tutta opera della “reazione” per confondere “la classe”.
Ma la crisi sistemica è frutto di un carattere ineliminabile del capitalismo: la sua intrinseca conflittualità che è dovuta alla sua impossibilità di esistere in uno spazio che sia omogeneo, non diviso da differenziali di ogni tipo (sociali, economici, finanziari, militari, organizzativi) da riprodurre in continuazione.
Come ribadiva Fernand Braudel, non esiste capitalismo senza Stato. E infatti Sciortino fin dalle prime pagine fa entrare nel suo quadro la componente statale, che è una componente territoriale e quindi geopolitica: Stato e mercato, uniti nella lotta alla crisi, si tengono per mano …. Che il liberismo sia a-statale e mosso esclusivamente da una logica economica intrinseca dichiarata unica e matematizzabile, è un mito.
E’ in questo quadro che bisogna interpretare la storia della crisi e di quei suoi due esiti coniugati tra loro, la globalizzazione e la finanziarizzazione, che hanno dominato il mondo negli ultimi decenni e che ora sono essi stessi in crisi. La descrizione, nella Parte Prima del libro, dei meccanismi finanziari, delle cause materiali della finanziarizzazione e degli effetti di questa sull’economia materiale (o reale) è precisa. Così come è precisa la descrizione di quella che viene chiamata la “genealogia” della crisi: Nixon shock del 1971 (dichiarazione dell’inconvertibilità del Dollaro in oro), il “lungo ’68” (le lotte studentesche, proletarie e afroamericane, le lotte di liberazione nazionale e la guerra del Vietnam) e infine il Volcker shock del 1979 (aumento improvviso e drammatico dei tassi d’interesse). Qui penso di dover fare solo un paio di appunti. La finanziarizzazione privata che prenderà piede con la Reaganomics e il Thatcherismo è stata resa possibile da quella che possiamo chiamare “finanziarizzazione di stato” che prende l’avvio col Nixon shock, ovvero con la presa d’atto che la grande espansione materiale occidentale del dopoguerra era in fase conclusiva e che la parte economica del sistema mondiale stabilito a Bretton Woods non funzionava più (mentre la parte politico-militare rimaneva in piedi nonostante l’imminente tracollo geopolitico della guerra del Vietnam). In secondo luogo, il Volcker shock era frutto della pace stabilita tra il potere politico e il potere economico, perché la finanziarizzazione, che prese l’avvio già alla fine degli anni ’60, fu per diversi anni contrastata da Washington con le politiche espansive di Lyndon (boia) Johnson e poi di Richard (boia) Nixon (che dichiarò “Adesso siamo tutti keynesiani”) fino all’ultimo anno dell’amministrazione Carter, il 1979 per l’appunto, quando Washington firmò la pace con Wall Street.
Questo è importante perché illustra come le strategie del potere politico e quelle del potere economico non sempre coincidono. E’ nel 1979 che, per dirla con Sciortino, Geoeconomia, geopolitica e lotta di classe (qui dei padroni) si ricongiungono.
Per conoscere questa “genealogia” (e se non la si conosce non si capisce nulla) e ciò che essa ha prodotto, il libro di Sciortino è quanto di meglio si possa trovare. E’ impossibile farne un riassunto ma voglio sottolineare qualche punto specifico. Il primo, che potrebbe sfuggire a una lettura poco attenta, riguarda l’annotazione che Washington oltre ad essere il “massimo predatore e l’unico [soggetto] dotato di rendita sistemica è anche caratterizzato di attitudine revisionista, anti-status quo” (p. 31).
Può sembrare paradossale o bizzarro, ma di questa propensione “rivoluzionaria” del capitale ci si dimentica spesso. Eppure l’aveva sottolineata con chiarezza già Marx. Quel che qui importa però è che essa negli ultimi decenni, grazie proprio alla finanziarizzazione e alla conseguente “liquefazione” della società, per dirla con Zygmunt Bauman, ha fagocitato e preso quando serviva l’aspetto di ribellioni popolari, ha mimato agevolmente movimenti dal basso (come già metteva in guardia Gramsci), e ha suscitato movimenti “popolari” al proprio servizio. Non si tratta solo delle cosiddette “rivoluzioni colorate” ma di qualcosa che in Occidente, cioè qui da noi, ha indotto il fenomeno delle ribellioni contro quegli aspetti macroscopici della “reazione seconda”, ovvero secondaria e residuale, lasciati lì “temporaneamente” dalla “reazione prima”, cioè quella perseguita dalle élite al comando, perché vi si “smaltiscano, accademicamente, i vecchi sentimenti” così che il vero potere possa prosegue nei suoi piani “al riparo della lotta diretta di classe”, come aveva avvertito Pier Paolo Pasolini.
La lotta di classe, quindi. Se c’è un punto che distingue l’analisi di Sciortino dalle altre è proprio questo continuo volere e dovere far riferimento alla lotta di classe.
“Ma non c’è più!” dirà qualcuno. Non è vero, perché la società c’è. Il capitale vorrebbe abolirla, ma non può, perché ne ha bisogno sia in quanto terreno per la produzione di plusvalore, sia in quanto terreno sul quale si erge lo Stato. E dove c’è la società c’è anche, in una forma o in un’altra, la lotta di classe. La crisi stessa c’è perché il capitalismo è un rapporto sociale di classe, non per altro.
Sciortino non fa però riferimento a una lotta di classe che si svolge in spazi eterei, bensì in uno spazio storico. Questo lo porta tra l’altro a criticare l’idea di “capitalismo immateriale” (o cognitivo), visto come “fase” del capitalismo e non come effetto della combinazione finanziarizzazione-globalizzazione che l’autore, giustamente, sceglie di analizzare attraverso il concetto marxiano di “capitale fittizio”.
Sciortino sottolinea la storia e la storicità delle vicende capitalistiche globali (il capitalismo coincide con la sua storia, diceva Samir Amin) e questo gli permette di comprendere in modo profondo i problemi oggi dibattuti. Ad esempio quello del cosiddetto “sovranismo”. Ha senso in ottica storica un ritorno alla “lira keynesiana” (è un termine che uso io, non l’autore, ma credo che mi scuserà)? Ha senso, cioè, il ritorno a un sistema che diede i suoi frutti in una precisa e limitatissima fase della storia capitalistica? Certo, se si esclude la Storia ha un senso, direi un senso accademico, ma se non la si esclude, no (anche perché la crisi è proprio il risultato dell’impetuoso sviluppo “keynesiano” del dopoguerra). Questo è quel che penso io ed è quello che, a quanto ho capito, pensa anche Raffaele Sciortino. Ma se è così non c’è formula capitalistica per superare la crisi senza che essa si ripresenti più aggressiva in tempi non distanti. E se è così, quali sono le gambe materiali su cui far reggere la sovranità democratica di cui le élite fanno strame e che è necessaria all’agibilità politica?
Non solo, ma come si supera la fase populista della lotta di classe senza ricorrere a inutili esorcismi e a richiami a una composizione di classe che non esiste più? Per iniziare ad avere gli strumenti per rispondere io suggerisco di leggere e rileggere almeno il capitoletto intitolato No Tav.
Come è possibile, insomma, districarsi nel complesso dinamico nazione-classe-società?
Sono problemi che Raffaele Sciortino non evita ma, al contrario, getta con forza sul tavolo.
I dieci anni che sconvolsero il mondo è quindi un libro scomodo. Non offre soluzioni né semplici, né elaborate e soprattutto mette in guardia dalle soluzioni astratte. Offre però le coordinate necessarie per impostare correttamente i problemi. Non è poco.
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